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CAPITOLO TRE

Sage volò in aria, andando incontro all'alba nascente; i primi raggi di sole illuminarono sulla sua guancia una lacrima, che si affrettò ad asciugare. Era esausto, aveva gli occhi stanchi dopo aver volato tutta la notte, solo per atterrare pochi attimi accanto ad una strana ragazza, che era scioccata nel vederlo, per poi riprendere il volo. Stava cominciando a chiedersi se l'avrebbe mai trovata.

Scarlet sembrava essere scomparsa e Sage non riusciva a capire. La loro connessione era così forte, che era certo di poter percepire la sua presenza: sarebbe stata la ragazza stessa a condurlo da lei. Ma ora non avvertiva nulla. Non riusciva a capire che cosa fosse accaduto. Era forse morta?

Sage poteva solo ipotizzare che lei fosse in un tale stato emotivo da bloccare tutti i suoi sensi e che per questo lui non fosse in grado di percepire dove si trovasse; o forse, era caduta in un sonno profondo, così come avveniva solitamente con i vampiri dopo la prima volta che si nutrivano di un umano. Ciò poteva essere fatale per alcuni, lui lo sapeva, e il cuore cominciò a dolergli immaginandola là fuori, chissà dove, tutta sola. Si sarebbe mai svegliata?

Sage volò in basso e velocemente, per non farsi notare, passando sopra tutti i luoghi a lei familiari – la scuola, la sua casa, qualsiasi cosa lui riuscisse a pensare – sfruttando la sua vista prodigiosa, per perlustrare dietro gli alberi e nelle strade più nascoste, in cerca di lei.

Quando il sole fu ancora più alto nel cielo – erano trascorse inutilmente altre ore – Sage infine risolse che cercare non fosse più di alcuna utilità. Avrebbe dovuto aspettare finché lei non fosse apparsa, o finché non fosse giunto il momento di scovarla, di nuovo.

Sage era esausto, in un modo a lui prima di allora sconosciuto. Sentiva le forze vitali abbandonarlo. Sapeva che gli restavano pochi giorni di vita, e provò un dolore a petto, braccia e spalle, sentiva che stava morendo dentro. Era consapevole che presto avrebbe lasciato questo mondo –  aveva fatto pace con questo. Voleva soltanto trascorrere gli ultimi giorni con Scarlet.

Non aveva altri luoghi in cui cercare, dunque Sage girò intorno alla vasta proprietà di famiglia sull'Hudson, guardando in basso. Volò di nuovo intorno, e ancora, come un'aquila, chiedendosi se l'avrebbe rivista per l'ultima volta. Non sapeva quale fosse il punto. Tutti lo odiavano ora per non aver portato loro Scarlet; e, dovette ammetterlo, anche lui li odiava. L'ultima volta che era andato via, sua sorella stava morendo tra le sue braccia, e Lore era sulle tracce di Scarlet, per provare ad andare a ucciderla. Non voleva più affrontarli.

Ma, nonostante tutto, non aveva un altro posto dove andare.

Mentre volava, Sage sentì un rumore forte, e guardò in basso, notando diversi suoi cugini che mettevano delle assi di legno alle finestre e martellavano. Finestra dopo finestra, stavano sigillando la loro villa ancestrale, e Sage scorse molti altri cugini spiccare il volo. Ne fu incuriosito. Chiaramente, qualcosa stava accadendo.

Sage doveva scoprirlo. Una parte di lui voleva sapere dove fossero diretti, che cosa ne sarebbe stato della sua famiglia—e una parte più forte ancora di lui voleva sapere se avessero un'idea di dove fosse Scarlet. Forse, uno di loro aveva visto o sentito qualcosa. Forse, Lore l'aveva catturata. Doveva saperlo; era l'unica pista che aveva.

Sage si abbassò, diretto alla villa di famiglia, atterrando nel cortile posteriore in marmo, davanti ai grandi scalini che conducevano all'entrata posteriore, composta dalle alte e antiche porte francesi.

Quando si avvicinò ad esse, si aprirono improvvisamente, e lui vide entrambi i genitori farsi avanti, guardandolo con uno sguardo severo e di disapprovazione.

“Che cosa ci fai qui dietro?” sua madre chiese, come se fosse un intruso indesiderato.

“Ci hai uccisi una volta,” il padre disse. “La nostra gente potrebbe essere sopravvissuta, se non fosse stato per te. Sei venuto per ucciderci di nuovo?”

Sage li guardò male; era così stufo della disapprovazione dei suoi genitori.

“Dove state andando tutti?” Sage domandò.

“Dove pensi?” il padre esplose. “Hanno convocato il Gran Consiglio per la prima volta in mille anni.”

Sage lanciò loro uno sguardo scioccato.

“Al Castello di Boldt?” lui chiese. “Siete diretti alle Mille Isole?”

I genitori lo guardarono con rimprovero.

“Che cosa t'importa?” la madre disse.

Sage non riusciva a credere alle proprie orecchie. Il Gran Consiglio non si era riunito sin dall'inizio dei tempo, e, per la loro gente, riunirsi in un posto non poteva portare alcunché di buono.

“Ma perché?” lui chiese. “Perché convocarlo, se moriremo tutti comunque?”

Il padre avanzò e sorrise, mentre sollevò un dito e lo affondò nel petto di Sage.

“Noi non siamo come te,” lui ringhiò. “Non moriremo senza combattere. Il nostro sarà il più grande esercito mai conosciuto, per la prima volta saremo tutti riuniti in un solo posto. L'umanità la pagherà. Avremo la nostra vendetta.”

“Vendetta per cosa?” Sage domandò. “L'umanità non ha nulla a che fare con voi. Perché fate del male a degli innocenti?”

Il padre gli sorrise.

“Stupido fino alla fine,” l'uomo disse. “Perché non dovremmo? Che cosa abbiamo da perdere? Perché, che cosa faranno, ci uccideranno?”

Il padre rise, e la madre si unì a lui, mentre insieme, l'uno sotto il braccio dell'altra, gli passarono davanti, urtandogli le spalle bruscamente, preparandosi a spiccare il volo.

Sage urlò loro: “Ricordo quanto eravate nobili,” disse. “Ma ora, non siete niente. Siete meno di niente. Questo vi fa fare la disperazione?”

Loro si voltarono e fecero una smorfia.

“Il tuo problema, Sage, è che, sebbene tu sia uno di noi, non hai mai capito la nostra razza. La distruzione è tutto ciò che abbiamo sempre voluto. Sei solo tu, soltanto tu, ad essere diverso.”

“Tu sei il figlio che non abbiamo mai capito,” la madre disse. “E non hai mai fallito nel deluderci.”

Sage sentì un dolore attraversarlo, e fu troppo debole per rispondere.

Quando si voltarono per andarsene, Sage, sussultando, raccolse le forse per gridare: “Scarlet! Dov'è? Ditemelo!”

La donna si voltò ed esplose in un grosso sorriso.

“Oh, non preoccuparti per lei,” la madre disse. “Lore la troverà, e ci salverà tutti. O morirà provandoci. E quando sopravviveremo, non osare pensare che ci sarà un posto per te.”

Sage arrossì per la rabbia.

“Ti odio!” lui gridò. “Vi odio entrambi!”

I genitori si limitarono a voltarsi, sorridendo; raggiunsero la ringhiera di marmo e spiccarono il volo nel cielo.

Sage restò immobile e li osservò andarsene, sparire nel cielo, mentre i cugini che restavano si unirono a loro. Lui se ne stette lì, tutto solo, davanti alla sua casa ancestrale oramai tutta sigillata; non gli restava più niente lì. La sua famiglia lo odiava—e lui ricambiava questo sentimento.

Lore. Sage si sentì travolgere dalla determinazione, mentre pensò a lui. Non poteva permettere che trovasse Scarlet. Nonostante tutto il dolore dentro di lui, sapeva che doveva ricorrere alla sua forza per l'ultima volta. Lui doveva trovare Scarlet.

O morire provandoci.

CAPITOLO QUATTRO

Caitlin era seduta dal lato passeggero nel loro pickup, esausta, distrutta, mentre Caleb guidava incessantemente sulla Route 9, su e giù oramai da ore, cercando in ogni angolo. L'alba stava nascendo, e Caitlin guardò attraverso il parabrezza un cielo insolito. Si meravigliò che fosse già giorno. Avevano viaggiato per tutta la notte, lei con il marito davanti, dietro Sam e Polly, tenendo gli occhi puntati sui lati della strada, cercando Scarlet ovunque. Una volta, si erano fermati improvvisamente ad un segnale di stop, perché Caitlin aveva pensato di averla vista – per scoprire poi che si trattava soltanto di uno spaventapasseri.

Caitlin chiuse gli occhi per un istante; le palpebre erano così pesanti, gonfie. Anche con gli occhi chiusi, continuò a vedere le luci delle auto con i fari che passavano, un immenso flusso di traffico, che aveva visto per tutta la durata della notte. Aveva voglia di piangere.

Caitlin si sentiva così svuotata, come una cattiva madre che non era stata abbastanza presente per Scarlet – che non aveva creduto in lei, che non l'aveva capita, che non le era stata accanto nel momento del bisogno. In qualche modo, Caitlin si sentiva responsabile per tutto. E si sentiva morire all'idea di non rivedere mai più la figlia.

Caitlin cominciò a piangere, poi aprì gli occhi e si asciugò velocemente le lacrime. Caleb allungò il braccio e le afferrò la mano, ma lei si sottrasse alla stretta. Caitlin si voltò e guardò fuori dal finestrino, cercando privacy; voleva stare da sola – voleva morire. Senza la sua piccola nella vita, comprese di non avere altro per cui vivere.

Caitlin sentì una mano rassicurante sulla sua spalla. Si voltò e vide Sam, proteso verso di lei.

“E' tutta la notte che giriamo,” lui disse. “Non c'è alcun segno di lei, da nessuna parte. Abbiamo coperto ogni centimetro della Route 9. Anche i poliziotti sono qua fuori, con più auto ancora. Siamo tutti esausti, e non abbiamo idea di dove possa essere. Potrebbe persino essere a casa ad aspettarci.”

“Sono d'accordo,” Polly aggiunse. “Dico di tornare a casa. Abbiamo bisogno di riposare.”

Improvvisamente si sentì un forte colpo di clacson e Caitlin, alzando lo sguardo, vide un camion dirigersi proprio verso di loro, che erano sul lato sbagliato della strada.

“CALEB!” Caitlin gridò.

Caleb improvvisamente, sterzò, scansandosi all'ultimo secondo e tornando sul lato giusto della strada; avevano evitato il camion per un pelo.

Caitlin guardò il marito, col cuore in gola, e un esausto Caleb ricambiò lo sguardo, con gli occhi iniettati di sangue.

 

“Che cos'hai?” lei chiese.

“Mi dispiace,” lui disse. “Devo essermi addormentato.”

“Questo non sta facendo del bene a nessuno,” Polly disse. “Dobbiamo riposare. Abbiamo bisogno di tornare a casa. Siamo tutti esausti.”

Caitlin prese in considerazione la decisione, e finalmente, dopo un lungo istante, annuì.

“Benissimo. Portaci a casa.”

*

Caitlin si sedette sul divano, mentre il sole tramontava, sfogliando un album che conteneva delle foto di Scarlet. La mente cominciò a vagare, ripensando a tutti i ricordi che riguardavano Scarlet nel corso degli anni. Caitlin fece scivolare il pollice sulle foto, desiderando, più di ogni altra cosa al mondo, di potere avere Scarlet con lei in quel momento.  Avrebbe dato qualunque cosa, persino il suo cuore e la sua anima.

Caitlin tirò su la pagina strappata dal libro che aveva preso dalla libreria, l'antico rituale, quello che avrebbe salvato Scarlet, se solo Caitlin fosse tornata in tempo, quello che avrebbe curato la ragazza dal vampirismo. Caitlin fece la pagina a piccoli pezzi, e li gettò a terra. Atterrarono vicino a Ruth, il grande husky, che guaì e si accucciò accanto a Caitlin.

Quella pagina, quel rituale, che una volta avevano significato così tanto per lei, adesso erano davvero inutili. Scarlet si era già nutrita, e nessun rituale poteva salvarla ora.

Caleb, Sam e Polly erano anche loro nella stanza, ognuno perso nel proprio mondo; seduti sul divano o su una sedia, dormivano o erano mezzi addormentati. Rimanevano lì in profondo silenzio, tutti in attesa che Scarlet entrasse dalla porta – e tutti sospettavano che non sarebbe mai accaduto.

Improvvisamente, il telefono squillò. Caitlin saltò, e lo afferrò, con mano tremante. Fece cadere il ricevitore diverse volte, per poi finalmente tirarlo su e portarlo all'orecchio.

“Pronto, pronto, pronto?” lei disse. “Scarlet, sei tu? Scarlet!?”

“Signora, sono l'Agente Stinton,” rispose una voce maschile.

Il cuore di Caitlin sprofondò, quando capì che non si trattava di Scarlet.

“La chiamo per informarla che non abbiamo ancora alcun segno di sua figlia.”

Le speranze di Caitlin svanirono. Strinse il telefono più forte, disperata.

“Non ci state provando abbastanza,” la donna disse, fremendo di rabbia.

“Signora, stiamo facendo tutto ciò che possiamo—”

Caitlin non attese il resto della risposta del poliziotto. Riagganciò il telefono, un grosso apparecchio degli anni '80, lo afferró, staccò il cavo dal muro, lo tirò su al di sopra della sua testa, e lo scaraventò a terra.

Caleb, Sam e Polly saltarono tutti in piedi, destati bruscamente dal sonno, guardandola, come se fosse pazza.

Caitlin guardò il telefono e capì che forse stava impazzendo davvero.

Caitlin uscì dalla stanza, aprì la porta sul grande porticato anteriore, e andò a sedersi su un dondolo. Era l'alba, e faceva freddo, ma a lei non importava. Si sentiva insensibile al mondo.

Si strinse forte le braccia sul petto, e si dondolò e dondolò nella fresca aria di novembre. Guardò verso la strada vuota, che si estendeva illuminata dalla prima luce del giorno, non c'era anima viva in giro, nessuna automobile si muoveva, tutte le case erano ancora buie. Ogni cosa era immobile. Una strada suburbana perfettamente silenziosa, non si muoveva una foglia, ogni cosa appariva pulita, proprio come doveva essere. Perfettamente normale.

Ma niente, Caitlin lo sapeva, era normale. Improvvisamente, lei odiò quel luogo che aveva amato per anni. Odiò la quiete; odiò la tranquillità; odiò l'ordine. Avrebbe dato qualunque cosa pur di avere il caos, rompendo la quiete, ottenendo suoni, movimento, ma soprattutto il ritorno di sua figlia.

Scarlet, lei pregò, mentre chiudeva gli occhi, che le si riempirono di lacrime, torna da me, piccola. Ti prego, torna da me.

CAPITOLO CINQUE

Scarlet Paine si sentì fluttuare nell'aria; le sembrò di avvertire il battito di un milione di piccole ali nelle sue orecchie, mentre si sentì sollevare più in alto, sempre più in alto. Guardò davanti a sé e capì che veniva trasportata da uno stormo di pipistrelli, un milione di pipistrelli, che la circondavano, afferrandola dalla parte posteriore della camicia e portandola con sé in aria.

Scarlet venne trasportata in alto, attraverso la più bella alba che avesse mai visto, tra le nuvole sparse nel cielo color arancio in fiamme. Non capiva che cosa stesse accadendo, ma, in qualche modo, non era affatto spaventata. Sentiva che quegli animali la stavano portando da qualche parte, mentre gridavano e volavano tutti intorno a lei. La sorreggevano in aria nel cielo e si sentiva come se fosse una di loro.

Prima che Scarlet potesse elaborare che cosa stesse accadendo, i pipistrelli la misero giù, gentilmente, davanti al castello più grande che avesse mai visto. Era circondato da antiche mura di pietra e l'avevano posata proprio davanti ad un'immensa porta ad arco. I pipistrelli volarono via e poi sparirono davanti ai suoi occhi.

Scarlet era ferma davanti alla porta, che si aprì, lentamente. Una luce ambrata fuoriuscì dall'apertura e Scarlet si sentì invitata ad entrare.

Attraversò la soglia della porta, superò la luce ed entrò nella stanza più grande che avesse mai visto. All'interno, allineato in perfetta attenzione, di fronte a lei, c'era un intero esercito di vampiri, tutti vestiti di nero. Lei volse lo sguardo su di loro, comportandosi come se fosse il loro leader.

Come un'unica entità, tutti sollevarono i palmi e li batterono contro il petto.

“Hai dato vita ad una nazione,” esclamarono tutti insieme, come se fossero una sola voce, che riecheggiò sulle pareti. “Hai dato vita ad una nazione!”

I vampiri emisero un grosso grido, e, in quel momento, Scarlet si sentì soddisfatta: sentiva che, finalmente, aveva trovato la sua gente.

Gli occhi di Scarlet si aprirono, quando si svegliò al suono del vetro infranto. Si ritrovò a faccia in giù, riversa sul cemento, con le guance contro il pavimento, freddo, bagnato e umido. C'erano delle formiche che camminavano verso di lei, e lei mise i suoi palmi sul duro cemento,  si tirò su, e le scacciò via.

Scarlet aveva freddo, era dolorante, e il collo e la schiena le dolevano perché aveva dormito appunto in una posizione scomoda. Soprattutto, si sentiva disorientata, spaventata perché non riconosceva il luogo in cui si trovava. Era sotto un piccolo ponticello, riversa sulla pavimentazione sotto di esso, mentre il sole albeggiava sopra di lei. Si sentiva odore di urina e di birra sgasata laggiù, e Scarlet vide che il cemento era tutto segnato da graffiti; mentre studiava la zona, vide lattine di birra vuote, rifiuti, aghi usati. Si rese conto di essere in un brutto posto. Si guardò intorno, battendo le palpebre, e non aveva alcuna idea di dove fosse, o di come ci fosse finita.

Si sentì di nuovo il rumore di vetri rotti, accompagnato da quello di qualcuno che camminava trascinando i piedi, e Scarlet si voltò rapidamente, con i sensi in stato di allerta.

A circa tre metri di distanza, c'erano quattro vagabondi vestiti di stracci, che sembravano ubriachi o sotto l'effetto di droghe – o intendevano semplicemente fare violenza. Erano uomini più anziani di lei e non sbarbati, che la guardavano come se fosse il loro giocattolo, con sorrisi lascivi sui loro volti, rivelando svariati denti gialli e guasti. Ma erano forti, lei poteva vederlo, robusti e alti; mentre si avvicinavano, uno di loro lanciò una bottiglia di birra, scaraventandola sotto il ponte, e Caitlin seppe in un istante che le loro intenzioni non erano gentili.

La ragazza provò a ricordare come fosse finita in quel posto. Era un luogo in cui non avrebbe mai provato ad addentrarsi. Ci era stata portata? La sua prima idea era che, forse, era stata stuprata; ma abbassò lo sguardo, e vide che era completamente vestita, e capì che non le era accaduto niente di simile. Si sforzò, provando a ricordare la notte precedente.

Ma era completamente confusa. Scarlet ricordava gli eventi, frammentati: un bar sul lato della Route 9 … una lite … Ma era tutto fin troppo annebbiato. Non riusciva a rammentare i dettagli.

“Sai di essere sotto il nostro ponte, giusto?” uno dei vagabondi disse, mentre tutti si avvicinavano sempre di più. Scarlet mosse freneticamente mani e ginocchia, e si alzò in piedi, affrontandoli, non intendendo voler apparire spaventata.

“Nessuno viene qui senza pagare il pedaggio,” un altro disse.

“Mi dispiace,” lei disse. “Non so come sono arrivata qui.”

“Hai commesso un errore,” intervenne un altro dei vagabondi, con una profonda voce gutturale, sorridendole.

“Per favore,” Scarlet disse, provando a sembrare dura; ma aveva la voce rotta mentre indietreggiava, “Non voglio problemi. Sto andando via adesso. Mi dispiace.”

Scarlet si voltò per andarsene, con il cuore che le batteva forte nel petto, quando improvvisamente, sentì qualcuno correre, e poi sentì un braccio intorno alla gola,  proprio un coltello alla gola, e sentì il cattivo alito di birra sulla sua faccia.

“No, tesoro,” lui disse. “Non abbiamo neanche cominciato a conoscerci.”

Scarlet lottò, ma l'uomo era troppo forte per lei, la sua barba corta le graffiava la guancia, mentre strofinava la sua faccia contro la sua.

Presto, gli altri tre apparvero davanti a lei, e Scarlet gridò, mentre si dimenava, per poi sentire  delle mani viscide scorrere lungo il suo stomaco. Uno di loro raggiunse il suo giro vita.

Scarlet si dimenava e contorceva, provando a scappare—ma quelli erano troppo forti. Uno di loro si allungò, le tolse la cintura, e la gettò via, e lei sentì il rumore del metallo che cadeva sul cemento.

“Vi prego, lasciatemi andare!” Scarlet urlò, mentre si divincolava.

Il quarto vagabondo si allungò e le afferrò i jeans, per la vita e cominciò ad abbassarglieli, provando a sfilarglieli. Scarlet sapeva che, nell'arco di pochi istanti, se non avesse fatto nulla, le avrebbero fatto del male.

Scattò qualcosa dentro di lei. Non capiva di che cosa si trattava, ma la sopraffece completamente, un'energia la inondò, dalla testa ai piedi, passando dalle gambe fino al petto. La ragazza sentì come una sorta di calore ustionante, colpire spalle, braccia, finendo fino alla punta delle dita. Il suo viso divenne arrossato, tutti i peli le si sollevarono, e Scarlet sentì come un fuoco bruciare dentro di lei. Provò una forza che non comprendeva, che la fece sentire più forte di tutti quegli uomini, più forte dell'intero universo.

Poi, ci fu dell'altro: una rabbia primordiale. Era una nuova sensazione. Non intendeva più scappare via – ma ora, voleva restare lì e farla pagare a quegli uomini. Distruggerli, da un arto all'altro.

E infine, sentì ancora un'altra cosa: fame. Una fame profonda e incredibile, che le fece venir voglia di nutrirsi.

Scarlet si piegò all'indietro e ringhiò, un verso che spaventò persino lei; i canini si allungarono, mentre si piegava indietro e diede un calcio all'uomo, che le stava per sfilare i jeans. Il calcio fu così feroce, che fece volare l'uomo in aria, a una buona distanza di sei metri, finché finì con la testa nel muro. L'uomo collassò, privo di sensi.

Gli altri indietreggiarono, rilasciando la presa, con la bocca aperta per lo shock e la paura, mentre stavano a guardare Scarlet. Sembrava che avessero realizzato di aver commesso davvero un grande errore.

Prima che potessero reagire, Scarlet saltò intorno e diede una gomitata all'uomo che la teneva, spaccandogli la mascella, e facendolo girare due volte, per poi cadere svenuto.

Scarlet si voltò, ringhiando e guardando gli altri due, come una bestia che osserva la sua preda. I due vagabondi se ne stavano lì, con gli occhi spalancati per il terrore, e Scarlet sentì un rumore, e vide uno di loro pisciarsi nei pantaloni.

Scarlet si abbassò, raccolse la sua cintura dal pavimento, e avanzò a caso.

L'uomo indietreggiò, pietrificato.

“No!” lui frignò. “Ti prego! Io non intendevo farlo!”

Scarlet balzò in avanti, e avvolse la cintura intorno al collo dell'uomo. Poi, lo sollevò con una sola mano, e lui stette in aria a penzoloni, ansimando, con la cintura che gli stringeva la gola. Lei lo tenne lì, oltre la sua testa, finché quello smise finalmente di muoversi e crollò a terra, morto.

Scarlet si girò e affrontò l'ultimo vagabondo, che stava piangendo, troppo spaventato persino per correre via. Le zanne si allungarono, lei avanzò e le affondò nella gola dell'uomo. Lui si  agitò nella sue braccia, poi nell'arco di pochi istanti, giacque lì in una piscina di sangue, privo di vita.

 

Scarlet sentì un movimento veloce a distanza, e poi lei vide che si trattava del primo vagabondo che si stava risvegliando, lamentandosi, tornando lentamente in piedi. Lui la guardò, con gli occhi spalancati per la paura, e mosse rapidamente mani e ginocchia, provando a fuggire.

Lei si avvicinò rapidamente a lui.

“Ti prego, non farmi del male,” si lamentò, piangendo. “Non intendevo farlo. Non so che cosa sei, ma non intendevo.”

“Sono certa che sia così,” lei rispose, con una voce cupa, soprannaturale. “Proprio come io non intendo fare ciò che sto per farti.”

Scarlet lo afferrò dalla parte posteriore della sua camicia, lo fece girare, e poi lo lanciò con tutta la forza di cui era dotata—proprio in alto.

L'uomo finì per volare come un missile, andando a sbattere sotto il ponte, con testa e spalle scaraventate nel cemento, e fuoriuscendo dall'altra parte, col rumore dei detriti che cadevano ovunque, mentre lei lo fece volare a metà strada attraverso il ponte. Lui era appeso lì, bloccato, con le gambe penzolanti.

Scarlet corse in cima al ponte con un solo balzo, e poi lo vide, con la parte superiore del dorso bloccato, mentre urlava, con testa e spalle esposte, incapace di muoversi. Ondeggiava, provando a liberarsi.

Ma non ci riuscì. Era un bersaglio perfetto, per qualunque auto si trovasse a passare di là.

“Fammi uscire di qui!” lui la pregò.

Scarlet sorrise.

“Forse la prossima volta,” lei disse. “Goditi il traffico.”

Scarlet si voltò e balzò, volando in cielo, mentre il suono delle urla dell'uomo diveniva sempre più lontano e lei volava sempre più in alto, lontano da quel posto, non avendo alcuna idea di dove fosse, sebbene non le importasse più. Aveva una sola persona in mente: Sage. Il suo volto le apparve davanti agli occhi, il suo mento perfettamente scolpito, le sue labbra, i suoi occhi profondi. Poteva percepire il suo amore per lei. Che lo ricambiava.

Non sapeva più dove fosse la sua casa in quel mondo, ma non le importava, purché potesse stare con lui.

Sage, lei pensò. Aspettami. Sto arrivando da te.

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