Ritorno a casa

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CAPITOLO TRE

Danielle sapeva che la sua vita in passato era stata sballata, guidata dal suo pessimo gusto in fatto di uomini, dalla sua debolezza per gli eccessi di alcool e droghe, e dal disprezzo per l’autorità. Lo sapeva e non lo rinnegava. Sapeva che ammetterlo era un passo fondamentale per poter andare avanti, ma una delle cose buone del suo torbido passato era che l’aveva tenuta in continuo movimento: da una casa all’altra, da uno Stato all’altro.

Tra i diciassette e i venticinque anni, aveva vissuto in nove città e cinque Stati diversi. Ecco perché sapeva dell’esistenza di Millseed, in Texas.

Millseed era un buco. Quando aveva vissuto lì, quattro anni prima, il paesino era in piedi per miracolo. I meno di quattrocento abitanti erano appena sufficienti a sostenere il minimarket e il negozio di alimentari che sorgevano al centro della città come due mosche spiaccicate su un parabrezza polveroso.

Non esisteva nemmeno una vera e propria zona residenziale. Diverse case spuntavano qua e là lungo le strade a due corsie prive di segnaletica orizzontale poi, proprio a ridosso dei confini del paese, che sembravano promettere luoghi di gran lunga migliori, si trovavano due parchi per roulotte. Danielle aveva vissuto in uno di quelli per circa sette mesi della sua vita. La metanfetamina era diffusa in tutto il parco, e come fosse riuscita ad evitare il richiamo di quella particolare droga andava oltre la sua comprensione. L’uomo con cui viveva all’epoca ne era diventato dipendente e, attualmente, si trovava in prigione per molteplici accuse di spaccio.

Al suo arrivo a Millseed, poco meno di due giorni fa, Danielle aveva guidato dritta in quel campo per roulotte. In realtà era piuttosto sorpresa che quel posto fosse ancora in piedi. Si era avventurata lungo la stradina per poco meno di un chilometro, fino a un edificio che, a quanto aveva sentito, era un ex mattatoio. Si trattava di un edificio insignificante, nascosto su un lotto di terreno ricoperto di erbacce, rampicanti e cespugli spinosi. L’edificio aveva un’aria ancora peggiore di quanto ricordasse; il suo aspetto insipido e triste rendeva evidente che un tempo era stato usato per scopi nefasti; dopo la macellazione di migliaia di maiali, era stato utilizzato anche per la creazione di metanfetamina e di ecstasy di seconda scelta. Lo sapeva per via della gentaglia che frequentava all’epoca, e che l’aveva attirata lì a Millseed.

Ma ora Danielle si chiedeva se fosse stata portata a Millseed per qualche altro motivo, magari per qualche ragione mistica. Odiava che fosse il primo posto ad esserle venuto in mente quando aveva sviluppato il suo piano, ma sembrava perfetto.

In piedi fuori dal macello, guardando il campo incolto, rifletté su come la vita a volte sembrasse un cerchio che la riportava in un posto da cui era appena fuggita. Stava fumando una sigaretta, cosa che non faceva da quando aveva lasciato quella sottospecie di città, pensando a cosa fare dopo.

Aveva portato lì suo padre per ucciderlo, e adesso era arrivata al punto di non ritorno. Gran parte di lei voleva chiamare Chloe e metterla al corrente. Come minimo, voleva che sua sorella sapesse di essere al sicuro. Immaginava di doverle almeno quello.

Inoltre... quello che aveva appena fatto riguardava entrambe. Per quanto riguardava Danielle, credeva che non sarebbe mai sfuggita a ciò che aveva fatto...che ne avrebbe affrontato le ripercussioni per il resto della sua vita. Ma per Chloe sarebbe stato diverso. Il trauma per lei sarebbe stato completamente diverso, poiché avrebbe vissuto il resto della sua vita cercando di capire perché sua sorella aveva fatto una cosa del genere.

Danielle odiava il fatto che Chloe le mancasse. Aveva vissuto quasi dieci anni della sua vita senza sua sorella e se l’era cavata. No, era un eufemismo bello e buono. Era sopravvissuta in quegli anni, niente di più.

Fece un’ultima tirata dalla sigaretta, la lasciò cadere a terra e la pestò. Odiava il sapore del tabacco, ma quella sensazione familiare sembrava adeguata alla situazione, in qualche modo. Aveva fumato mezzo pacchetto nelle ultime ventiquattr’ore e, se da un lato l’aveva aiutata a restare calma, dall’altro l’aveva convinta ulteriormente che, una volta portato a termine quel compito, non sarebbe mai riuscita a riprendere il vizio.

Quando tornò dentro il mattatoio, fu come entrare in un altro mondo. Uno di quei mondi post-apocalittici che andavano tanto di moda in TV in quel periodo. Ad un certo punto, l’ufficio del mattatoio era stato demolito e portato via a pezzi; frammenti di calcestruzzo e rottami di ferro erano ancora visibili all’estremità del campo, quasi consumati dalla fitta e rigogliosa vegetazione. L’unica cosa che era rimasta intatta era il grande rettangolo di cemento dove avvenivano le macellazioni. C’erano delle macchie sul pavimento, tutte dirette verso le grate metalliche arrugginite del pavimento. Persino nel suo stato d’animo attuale, Danielle trovava difficile immaginare cosa fosse passato attraverso quelle grate.

Attraversò quella che doveva essere stata la sala di macellazione e arrivò in una delle due grandi stanze sul retro dell’edificio. Erano separate dall’area dove avvenivano le uccisioni soltanto da una mezza parete, che creava stanze separate con un facile accesso alla sala.

All’interno di questa stanza, Aiden Fine era appeso per le braccia a una corda che era collegata a una guida metallica nel soffitto. Danielle presumeva che il sistema di guide e rotaie servisse un tempo per legare i maiali e spostarli lentamente verso la loro morte. Adesso, però, tenevano suo padre fermo sul posto. Le sue braccia erano tenute quasi perfettamente in verticale, grazie alla corda legata intorno ai polsi.

“Danielle. “Per favore...ripensaci. Non devi farlo.” La sua voce era tirata e rauca. Almeno aveva smesso di piangere. Dio, l’aveva odiato quando si era messo a piangere appena erano entrati in Texas; i suoi singhiozzi dal bagagliaio coprivano persino la sua musica a tutto volume.

“Ancora con questa storia?” replicò Danielle. Si sedette su una bassa pila di vecchi bancali di legno abbandonati nell’angolo più lontano. Guardò suo padre, si rese conto di essere lei la responsabile di tutto quello, e si chiese che razza di mostro stesse diventando.

“Danielle, io...”

“Tu cosa?”

“Mi dispiace.”

Si avvicinò a lui e lo guardò negli occhi. Aiden soffriva per il modo in cui le sue braccia erano tirate verso l’alto, ed era chiaramente esausto. I piedi erano ben saldi per terra, ma l’angolazione forzata delle braccia doveva sicuramente essere dolorosa.

“Scusa per cosa?” chiese Danielle.

Lui sembrò pensarci un momento. Danielle si domandò se stesse effettivamente considerando l’idea di confessare tutti i suoi crimini. Ma alla fine non disse nulla. Danielle annuì con espressione accigliata e si diresse verso il lato della stanza dove aveva lasciato un sacchetto di plastica con dentro bottiglie d’acqua e cracker. Aprì una delle bottiglie e si avvicinò a lui.

“Apri la bocca.”

Lui la guardò con gli occhi stretti a fessura e, per un breve istante, Danielle credette di scorgevi della rabbia; ma presto si trasformò in una sorta di pacata pietà, mentre apriva la bocca per ricevere il primo sorso d’acqua da oltre ventiquattro ore.

Versò lentamente il liquido nella sua bocca, che lui trangugiò avidamente. Danielle continuò fino a quando Aiden non cominciò a tossire. Una volta finito, rimise il tappo alla bottiglia e ritornò alla sua seduta improvvisata.

“Che cosa vuoi?” chiese Aiden. “Non so cosa credi che abbia fatto, ma...”

“Non fare il finto tonto, papà. Ti meritavi tutto questo da un bel po’. So che ti spezza il cuore che io non sia più una bimbetta di otto anni con cui puoi fare il prepotente. Deve bruciarti sapere che non puoi più dominarmi. Dio... cosa avrei dato per poterti fare questo allora...”

“È per tua madre?” Sembrava quasi sorpreso e questo fece infuriare Danielle ancora di più.

“In parte. Gran parte. Sappiamo tutto, papà. Abbiamo letto il diario.”

“Quale diario?”

Danielle scese lentamente dai bancali, gli andò incontro e gli sferrò uno schiaffo violento sul viso. Il suo corpo ondeggiò leggermente per la potenza del colpo, e la trave a cui era appeso con la corda scricchiolò.

“Ritenta.”

Aiden Fine si guardò intorno nella stanza vuota, spaventato e chiaramente alla ricerca di qualche stronzata da dire per tenerla buona.

“Non ci provare” disse Danielle. “Voglio la verità. Abbiamo il diario e l’abbiamo letto. Lo sappiamo, papà. Sappiamo tutto.”

Lo osservò mentre i suoi occhi cercavano di focalizzarsi su di lei. Vide diverse emozioni alternarsi nel suo sguardo: rabbia, paura, risentimento. Alla fine, scelse la vulnerabilità.

“Ti prego, Danielle. Rifletti bene.”

“L’ho fatto. Credimi, l’ho fatto” rispose voltandogli le spalle. “Forse anche troppo.”

Tornò alla sporta di plastica e ne tirò fuori altri due oggetti: uno straccio nuovo e il diario di sua madre. Mise il diario sulla pila di bancali e si avvicinò al padre con lo straccio. Lentamente, glielo premette contro la bocca e lo spinse con forza. Quando fu ben tirato, glielo legò dietro la testa, creando un rozzo ma efficace bavaglio.

Poi tornò sui bancali, sedendosi e aprendo il diario. “Quale parte vuoi sentire per prima? Quella in cui la mamma era quasi certa che ti scopassi un’altra nel vostro letto – che sarebbe poi Ruthanne Carwile, nel caso te lo fossi dimenticato – o magari quando era terrorizzata che potessi ucciderla?”

Danielle si gustò con estremo piacere i lamenti che suo padre fece attraverso il bavaglio. Le fece pensare che il suo piano sarebbe andato a buon fine. Si era sbarazzata del cellulare, lanciandolo dal finestrino in un punto imprecisato delle campagne della Virginia. La sua auto era parcheggiata dietro il vecchio mattatoio, nascosta dalle erbacce in quella che doveva essere stata una piazzola per i camion delle consegne.

 

Era praticamente invisibile, a quel punto. Aveva un registratore a nastro per raccogliere le sue confessioni e una pistola per infilargli un proiettile in mezzo agli occhi. Non si illudeva che avrebbe confessato tanto facilmente, e per lei andava bene. Non le dispiaceva farlo sudare un po’. L’unico interrogativo era quanto sarebbe durata la sua pazienza.

Iniziò a leggere. Lo fece in modo accorato, come se leggesse a un bambino la storiella della buonanotte. Lo osservava per vedere se sentire quelle parole lo mettessero a disagio. Sì, voleva che stesse male; non aveva problemi ad ammetterlo. Ma questo la indusse anche a chiedersi se si fosse spinta troppo oltre, se infine si fosse allontanata a tal punto dalla logica che non c’era modo di tornare indietro.

CAPITOLO QUATTRO

Quando Chloe arrivò nell’ufficio di Johnson, vide che Rhodes era già lì. Sembrava che si fosse appena seduta e si stava ancora sistemando su una delle sue famigerate scomodissime sedie per gli ospiti, dal lato opposto della scrivania. Rivolse a Chloe uno sguardo piuttosto eccitato. Chloe dovette ricordare a se stessa che, se non fosse stata invischiata fino al collo nei suoi drammi privati, sarebbe stata entusiasta di essere chiamata per quello che sembrava essere un caso prioritario.

Chloe si accomodò sull’altra sedia accanto a Rhodes. Johnson le rivolse un cenno del capo dall’altro lato della scrivania, mentre finiva di scrivere qualcosa sul suo MacBook. Con un sospiro e un’esagerata scrollata di spalle, si appoggiò allo schienale della poltrona e le guardò.

“Grazie a entrambe per essere venute così velocemente e con così poco preavviso. Abbiamo un caso in cui credo che voi due ve la cavereste egregiamente. Abbiamo due uomini uccisi nel giro di quattro giorni, entrambi nella periferia di Baltimora. Erano tutti e due uomini di mezza età, sposati. Finora, la polizia brancola nel buio. Appena il fascicolo è arrivato sulla mia scrivania, ho pensato immediatamente a voi due.”

Chloe guardò Rhodes. Sul suo viso c’era un’espressione che ricordava a Chloe un toro da rodeo che spingeva contro il cancello, aspettando che si aprisse per potersi scatenare. Questo rendeva ancora più difficile quello che stava per dire.

“Signore, temo di non poter accettare un caso, in questo momento.” Faceva male dirlo; le parole sembravano filo spinato che le usciva dalla gola.

Johnson sorrise, e non era un sorriso divertito. “Chiedo scusa?”

“Non avrei voluto che la questione si intromettesse nel mio lavoro, ma mia sorella è scomparsa, signore. Sono passate quasi 48 ore. Anche mio padre è scomparso.”

Johnson sbatté le palpebre più volte, come se volesse schiarirsi le idee. Era evidente che si stesse sforzando di capire in che modo i suoi problemi personali fossero legati al caso. Il direttore Johnson era un nobiluomo e l’aveva sempre trattata con rispetto, ma era anche il tipo di uomo che credeva fermamente che il lavoro venisse prima di tutto.

Dopo un attimo, annuì. “Lo so. Ho ricevuto una telefonata da un mio amico, un certo detective con cui credo che abbia appena parlato. Mi ha chiamato per informarmi di cosa stava accadendo, non perché lei era coinvolta, ma perché è una gentilezza che a volte mi concede, quando indaga su casi che potrebbero essere collegati al Bureau. Quindi sì...so tutto di sua sorella, di suo padre e delle poche prove trovate sulla scena.”

Chloe fu assolutamente atterrita nel sentirlo. Tanti saluti al tenere in gabbia i miei demoni personali, pensò.

“Allora mi capisce” disse Chloe.

Johnson si spostò sulla sedia, alquanto a disagio. “Quello che capisco è lei ha un interesse personale nel caso, quindi sta superando i limiti. Secondo quanto mi dice il detective Graves, c’è stata certamente una sorta di alterco nella villetta, ma sostenere che si tratti di rapimento, cosa che lei suggerisce, è un azzardo, nella migliore delle ipotesi.”

“Signore, sicuramente la penserebbe diversamente, se conoscesse tutta la storia e...”

“Invece non la conosco. Ed è per questo che mi fido di Graves e della polizia. Se viene fuori che credono ci sia qualcosa di più in gioco, me lo faranno sapere. Non possiamo trattarlo diversamente da qualsiasi altro caso di polizia, Fine.”

Chloe sentiva la rabbia montare in lei ma, allo stesso tempo, il suo lato più saggio subentrò, assumendo il controllo. Capiva quello che Johnson stava facendo e, in modo curioso, quasi lo apprezzava. Stava cercando di tenerla impegnata, tentava di distrarla con il lavoro, mentre la polizia scovava in cerca di risposte sulla scomparsa della sorella e del padre. Il fatto che sembrasse esattamente il tipo di caso in cui lei e Rhodes avrebbero potuto dare il meglio, non faceva che rendere il tutto ancora più perfetto.

“Fine...deve lasciare che i poliziotti facciano il proprio lavoro” proseguì Johnson. “E mentre loro fanno il loro, lei deve concentrarsi sul suo. Inoltre, se anche decidessi di chiudere un occhio e lasciarla andare a cercare sua sorella, non potrei mai permetterle di immischiarsi in un caso che non rientra nemmeno nella giurisdizione dell’FBI.”

“Ma potrei dare una mano.”

“Non ne dubito. E se per qualche motivo il caso finisce nelle mani dell’FBI, forse le lascerò persino supervisionare le indagini.”

“Ma signore...”

“Odio fare lo stronzo, Fine, ma si ricordi qual è il suo posto. Ha un lavoro e mi aspetto che lo svolga. Se vuole prendersi del tempo libero, prego. Sarò felice di concederglielo. Ma se poi scopro che sta indagando sul caso di sua sorella...”

Lasciò la frase in sospeso, lasciandole immaginare la conclusione. Sapeva che aveva ragione lui, ma era ancora irritata da quanto sembrasse incurante del fatto che la sorella di uno dei suoi agenti fosse scomparsa.

“Quindi ci sono due opzioni per lei, Fine. O si prende qualche giorno di permesso e aspetta che la polizia trovi delle risposte, oppure va a Baltimora con Rhodes e vede se ci riesce a trovare un assassino.”

Fu così che Chloe si sentì messa con le spalle al muro. Sapeva che, se si fosse presa un permesso, avrebbe finito per indagare sulla scomparsa della sorella. E, fino a quando non fosse diventata una faccenda di competenza del Bureau – sempre ammesso che così fosse – si sarebbe potuta mettere in seri problemi per aver interferito in un caso che non spettava all’FBI risolvere.

Oppure poteva tenersi occupata con il lavoro. Era una scelta facile da fare, anche se il suo cuore sembrava essersi fatto di piombo, a quel pensiero. “Voglio il caso” disse infine.

“Bene. Mi dispiace per lei, sul serio. Ma finirei nei guai esattamente quanto lei, se si lasciasse coinvolgere in quel caso.”

“Lo so, signore.”

Lui annuì e attese un istante, come per assicurarsi che Chloe non avesse nient’altro da dire in proposito. Chloe guardò Rhodes, notando che la sua partner era stata messa piuttosto a disagio dalla conversazione. Sembrava una bambina seduta sul divano che aspettava di vedere se il piccolo litigio tra mamma e papà sarebbe diventato qualcosa di serio.

“Come stavo dicendo” riprese Johnson. Due uomini morti in quattro giorni, entrambi sposati. Nessun indizio, nessuna pista... A parte il fatto che vivevano nella stessa zona, a non troppi chilometri di distanza l’uno dall’altro, credo.”

Mentre Johnson esponeva i dettagli del caso, che come al solito non erano molti, Chloe fece del suo meglio per concentrarsi, ma i suoi pensieri non si allontanarono mai da Danielle e da quello che forse stava passando. Immaginava che non sarebbe mai riuscita a non pensarci, indipendentemente dal tipo di caso che le veniva assegnato.

Chloe si ritrovò, non per la prima volta nella sua giovane carriera, profondamente angosciata che la sua famiglia sballata avrebbe messo a repentaglio il suo futuro in modi che sfuggivano al suo controllo.

CAPITOLO CINQUE

Dopo una notte insonne a casa, Chloe incontrò Rhodes nel parcheggio del Bureau la mattina seguente, e salirono insieme su un’auto di servizio. Partirono alle sei del mattino, in modo da evitare il terribile traffico della tangenziale. Chloe notò che Rhodes si sforzava di non sembrare troppo gasata – anche se non era riuscita a nasconderlo in modo discreto, con lunghe sorsate di caffè e fingendo di concentrarsi sulla guida.

“Tranquilla” disse Chloe. “Adesso ci siamo dentro insieme, quindi puoi chiedermi tutto quello che vuoi.” Si strinse nelle spalle mentre entrava in tangenziale per raggiungere il Maryland. “Credo che tu abbia colto il succo della questione, nell’ufficio di Johnson, ieri sera. Danielle è scomparsa. Non è davvero niente di così insolito...È così che ha trascorso la maggior parte della sua adolescenza e dei suoi vent’anni, andando e venendo ogni volta che le pareva. Ma questa volta è diverso, perché non ho nemmeno idea di dove si trovi mio padre.”

“Ha senso che t’immagini il peggio” disse Rhodes. “Considerato tutto ciò che hai passato nell’ultimo anno. Il che mi porta all’ovvia domanda: perché non ti sei presa qualche giorno di permesso?”

“Perché avrei finito per immischiarmi nel caso. Preferirei continuare ad avere un lavoro al Bureau lavorando attivamente su un caso e confidando che la polizia di Washington capisca dove si trova mia sorella, piuttosto che essere licenziata per non essere rimasta fuori dalle indagini durante i miei presunti giorni di permesso.”

“Insomma, sei fregata in ogni caso” sospirò Rhodes.

“Qualcosa del genere.”

“Ma, a rischio di farti incazzare, penso che Johnson abbia ragione. Se non è di competenza del Bureau, devi solo fidarti dei poliziotti.”

“Lo so. Ma è più difficile di quanto sembri, quando la persona scomparsa è tua sorella.”

“Non fingerò di sapere cosa si provi” disse Rhodes. L’emozione nella sua voce era sincera, era chiaro che lo pensasse davvero.

“Grazie, lo apprezzo” disse Chloe.

Quella conversazione, onestamente, non fece altro che turbare Chloe ancora di più. Tuttavia, le venne anche da chiedersi se stesse reagendo in modo eccessivo. Johnson aveva fatto sembrare che l’intera faccenda non fosse poi così grave, e ora ecco Rhodes che sembrava in pratica essere della stessa opinione.

Rimasero in silenzio per un po’, mentre Rhodes guidava verso nord. Poco prima di arrivare a Baltimora, iniziò a scendere una leggera pioggerellina. Riuscirono a entrare in città appena prima che il traffico mattutino invadesse le strade. Chloe esaminò le scarse informazioni in loro possesso, solo poche pagine fresche di stampa in una cartellina che Johnson aveva consegnato loro. L’indirizzo della vittima più recente era già stato inserito nel navigatore, un piccolo centro abitato a circa tre miglia dal centro di Baltimora.

“Fine, puoi promettermi una cosa?” chiese Rhodes mentre si avvicinavano a destinazione.

“Non faccio promesse” rispose Chloe. Voleva dirlo a mo’ di scherzo, ma le uscì in tono piuttosto duro. “Però posso fare del mio meglio per mantenere la mia parola.”

“Va bene, mi accontenterò. Voglio solo che tu sia sincera con me e mi dica quando i tuoi problemi famigliari iniziano ad essere troppo pesanti per te. Per una volta, vorrei che tu ed io riuscissimo ad arrivare sulla scena e risolvere un caso entro ventiquattr’ore. Senza complicazioni o battute d’arresto.”

“Sì, su quello posso darti la mia parola.”

Questo sembrò spezzare la tensione che aleggiava tra loro nell’abitacolo. Quando arrivarono nel quartiere, Chloe si sentiva quasi tornata normale. Pensava a Danielle ogni due secondi, certo, ma ricordava anche quanto Danielle fosse stata volubile in passato. Tenendo conto di quello, il fatto che fosse scomparsa non era poi così strano.

Vero, ma anche papà?

Allontanò quel pensiero, mentre Rhodes parcheggiava l’auto davanti a una casa a due piani che era essenzialmente la copia sputata di ogni altra abitazione sulla strada. Non che non fosse splendida. Era semplice ma in modo grandioso, come quelle che si vedevano in televisione, nelle trasmissioni di ristrutturazioni di case.

 

“Sei pronta?” fece Rhodes.

Chloe trattenne la risposta sarcastica che aveva sulla punta della lingua. Se Rhodes aveva intenzione di trattarla con i guanti per la situazione di Danielle, non era più così sicura che sarebbe riuscita ad affrontare quel caso.

“Prontissima” fu tutto ciò che disse uscendo dall’auto sotto la pioggia battente.

***

Il detective che si era occupato del caso era uno spilungone di nome Anderson. Era seduto al tavolo della cucina, quando Chloe e Rhodes entrarono in casa. Alzò lo sguardo dallo schermo dell’iPad che stava consultando, quindi lo mise da parte come a scusarsi e si alzò. Chloe diede una sbirciata allo schermo e vide che stava guardando le foto della scena del crimine proprio di quella casa.

“Ben Anderson” si presentò tendendo la mano.

“Agenti Fine e Rhodes” disse Chloe, stringendola. “È molto che aspetta?”

“Solo una decina di minuti. Naturalmente, sono già stato qui tre o quattro volte nelle ultime sedici ore, solo per cercare di farmi un’idea del posto.”

“Era sulla scena anche quando il corpo era ancora qui?” volle sapere Chloe.

“Sulla seconda scena sì.”

“Dove si trovava il corpo?” chiese Rhodes.

Anderson fece loro cenno di seguirlo, mentre afferrava l’iPad. Iniziò ad attraversare la cucina, aprendo una porta che conduceva fuori. “Qui fuori, nel portico sul retro...anche se non c’è molto da vedere.”

Uscirono sul portico posteriore. Chloe inizialmente non vide nulla di minimamente interessante. Era un bel portico che affacciava su un acro di rigogliosa vegetazione. Una griglia si trovava nell’angolo più lontano, protetta da un telone con impresso il logo dei Baltimore Ravens. I pochi mobili da giardino erano belli, ma niente di speciale – probabilmente erano stati acquistati da Wayfair o in un ipermercato Costco. Piovigginava ancora, e sul pavimento in legno si intravedevano minuscole goccioline d’acqua. Chloe notò una chiazza di sangue a forma di virgola sulle assi, della giusta misura per circondare parzialmente la testa di qualcuno.

“La vittima si chiamava Bo Luntz” disse Anderson. “Sua moglie, Sherry, lo ha scoperto rientrando dal lavoro. Era il loro anniversario. Lo ha trovato qui fuori, nel portico sul retro, sdraiato sul pavimento. Per un po’ è rimasta svenuta. Non si era nemmeno accorta che gli era stato infilato un calzino nero in bocca, quasi fino in gola. Dice di essersene resa conto solo vagamente, ma...era sotto shock, come è comprensibile.”

“Il sangue” disse Chloe, accucciandosi “Indica che non è stato solo strangolato. C’erano segni di colluttazione?”

“No. Niente mobili ribaltati, niente di insolito. L’unico elemento che abbiamo è il colpo che ha subito al cranio, proprio lungo la fronte.”

Detto questo, consegnò a Chloe l’iPad che aveva con sé. Aveva aperto una foto del cadavere. Chloe zoomò sulla fronte di Bo Luntz. C’era una netta rientranza e un livido che si andava formando. Dalla forma della cavità, pensava che potesse essere stata causata da qualcosa con un’estremità piatta, larga forse dodici o quindici centimetri.

“I lividi sembrano freschi” sottolineò Rhodes, guardando da sopra la spalla di Chloe. “Quando è stata scattata questa foto, quanto tempo era passato dal rinvenimento del corpo?”

“Circa un’ora, direi. E, in base a quello che ci ha detto la signora Luntz, il sangue era ancora umido quando ha trovato il corpo. Quindi pensiamo che sia stato ucciso al massimo una o due ore prima del suo ritorno a casa.”

“Nessuna impronta sul calzino in gola?” chiese Chloe.

“No. Lo stesso dentro casa. Nessun segno di effrazione...niente di niente.”

Rhodes iniziò a sfogliare i documenti che avevano ricevuto da Johnson, chinandosi in avanti per proteggere i fogli dalla pioggia col suo corpo. “Bo Luntz, cinquantadue anni, un figlio, impiegato della Mutual Telecom. Nessun precedente penale. Ha qualcosa da aggiungere, detective Anderson?”

“Stando a quanto è emerso dai colloqui preliminari con vicini di casa e amici, tutto quello che sappiamo è che era un uomo molto apprezzato. Era un vigile del fuoco volontario, e prendeva parte a iniziative benefiche ogni volta che poteva. Faceva da assistente allenatore per una squadra di football amatoriale. Ho sentito io stesso cinque persone e abbiamo almeno una dozzina di testimonianze in archivio. Quell’uomo era completamente pulito.”

Chloe annuì, ma aveva già sentito quella versione in numerose occasioni. Quasi tutti riuscivano a dare l’impressione di essere perfettamente puliti. Ma lei sapeva che bastava scavare un po’ per trovare crepe nella superficie, che spesso poi portavano alla scoperta di oscuri segreti.

“Nessuna idea del perché gli sia stato infilato un calzino in gola?” chiese Chloe.

“No, nessuna. Abbiamo controllato i suoi cassetti al piano di sopra, pensando che forse avremmo trovato l’altro calzino, ma non è stato così.”

“Detective, possiamo avere il nome e il numero del coroner che ha in custodia il corpo?”

“Certo” disse, prendendo il telefono e scorrendo tra i contatti per recuperare le informazioni.

“E della prima vittima che ci dice?” chiese Chloe.

“Il suo nome era Richard Wells. Viveva a una ventina di chilometri di distanza, a Eastbrook. Un quartiere abbastanza simile a questo. Se ne sta occupando la polizia di Eastbrook, ma conosco alcuni dettagli, se vi interessa.”

“Sì, grazie.”

“Praticamente è una copia di quanto accaduto qui. Wells è stato trovato morto nella sua camera da letto, con il cranio sfondato e un calzino nero in bocca. Dal punto di vista della personalità, però, i due erano molto diversi. Wells aveva divorziato l’anno scorso. Si dice a causa di un problema di alcolismo. Lavorava come appaltatore privato e i suoi pochi dipendenti sono gli unici da cui siamo riusciti a ottenere informazioni. L’ex-moglie è già fidanzata con un altro e vive a Rhode Island. Entrambi i genitori sono morti, non aveva fratelli...non c’è nessuno a cui poter porre domande più approfondite.”

“Quindi un vicolo cieco, in pratica?” chiese Rhodes.

“In pratica, sì” convenne Anderson.

Chloe tornò a osservare le assi che formavano il pavimento del portico. Studiò la macchia di sangue, incapace di togliersi dalla mente l’immagine del sangue che aveva visto sul bollitore del padre. Quell’immagine affondò i suoi artigli dentro di lei, e Chloe provò un gelo improvviso, come quando si lascia il tepore di una casa per uscire durante una tempesta di neve. E in quel momento, seppe con certezza che non sarebbe riuscita a liberarsene; la scomparsa di Danielle l’avrebbe assillata fino a quando non fosse riuscita a parlare con lei, a prescindere dal caso.

La cosa peggiore di tutte era che stava iniziando ad avercela con Danielle per tutto quello, preoccupata che la ragazza sbandata che era stata un tempo stesse riemergendo.

Se la trovo, forse posso impedirlo, pensò Chloe.

Era un’idea allettante, ma mentre continuava a guardare il sangue di Bo Luntz, realizzò che se si trattava di salvare sua sorella, era esattamente come salvare la vita di Luntz, ovvero troppo tardi.

***

Secondo l’esperienza di Chloe, i medici legali di solito si dividevano in due tipologie: silenziosi e a tratti scontrosi, oppure entusiasti e forse un po’ troppo zelanti nel loro lavoro. La donna che incontrarono nell’ufficio del coroner e che aveva avuto il compito di esaminare Bo Luntz apparteneva alla seconda tipologia. Si chiamava Gerda Holloway e sembrava uscita da uno di quei reality dove bisogna conquistare uno scapolo, piuttosto che qualcuno che si occupava di cadaveri. Persino Chloe, quando la donna andò loro incontro nell’atrio, dovette riconoscere quanto fosse bella, con i capelli raccolti in una coda di cavallo e gli occhi incorniciati da occhiali in stile da bibliotecaria.

“Agenti Rhodes e Fine” disse Rhodes dopo che Holloway si fu presentata.