Oscurita’ Perversa

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Oscurita’ Perversa
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Oscurita’ Perversa
Oscurita’ Perversa
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Czyta Caterina Bonanni
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Mentre si affrettava verso la propria auto, si ritrovò a pensare a Meredith e Bill. Entrambi l’avevano implorata di occuparsi di un nuovo caso. E lei stava evitando di dar loro una risposta.

Perché? si chiese.

Era appena corsa via dai giornalisti. Stava scappando via anche da Bill e Meredith? Stava scappando via da chi lei era davvero? Da tutto ciò che doveva fare?

*

Non appena vide la propria abitazione, Riley si sentì felice. Lo spettacolo di morte, a cui aveva assistito quella mattina, le aveva lasciato un vuoto dentro e il viaggio di ritorno fino a Fredericksburg era stato faticoso.

Ma, nell’istante in cui apriva la porta di casa, ebbe la sensazione che qualcosa non andasse nel verso giusto.

Era insolitamente silenziosa. April avrebbe dovuto essere rincasata da scuola, ormai. E dov’era Gabriela?

Riley andò in cucina e la trovò vuota. C’era una nota sul tavolo della cucina. Me voy a la tienda, diceva. Gabriela era andata al negozio.

Riley serrò le mani sullo schienale della sedia, colta da un’onda di panico. Tempo addietro, quando Gabriela era andata al negozio, April era stata rapita da casa di suo padre.

Buio, un barlume di una fiamma.

Riley si voltò e corse in fondo alle scale.

“April” gridò.

Non ci fu alcuna risposta.

Riley corse in cima alle scale. Entrambe le camere da letto erano vuote. Nessuno era nello studiolo.

Il cuore le batteva forte. Benché la mente le dicesse che si comportava da sciocca, il suo corpo non ascoltava la sua parte razionale.

Corse di nuovo al piano di sotto, e uscì sul retro della casa.

“April” chiamò.

Non c’era nessuno a giocare nel giardino del vicino, e non c’erano nemmeno bambini in vista.

Si fece forza per non gridare di nuovo: non voleva che quei vicini la giudicassero pazza. Non così presto.

Infilò la mano in tasca e prese il cellulare. Inviò un sms alla figlia.

Non ricevette alcuna risposta.

Tornò all’interno della casa e si sedette sul divano, stringendosi la testa tra le mani.

Era tornata nel cubicolo, sdraiata nella polvere, al buio.

Ma la piccola luce si stava spostando verso di lei. Riuscì a vedere il suo volto crudele illuminato dal bagliore delle fiamme. Ma non sapeva se l’assassino stesse arrivando per lei o per April.

Riley si sforzò di mantenere separata la visione dalla realtà dal suo presente.

Peterson è morto, ripeté a se stessa. Non torturerà mai più nessuna di noi due.

Si tirò su sul divano, e provò a concentrarsi sul presente. Era nella sua nuova casa, nella sua nuova vita. Gabriela era andata al negozio. April era sicuramente da qualche parte nelle vicinanze.

La sua respirazione rallentò, ma non riusciva ad alzarsi. Temeva che, se fosse uscita, avrebbe gridato di nuovo.

Dopo quello che sembrò un’eternità, Riley sentì aprirsi la porta d’entrata.

April entrò in casa, cantando.

Riley si alzò in piedi di scatto. “Dove diavolo sei stata?”

April sembrò scioccata.

“Che problema hai, mamma?”

“Dov’eri? Perché non hai risposto al mio sms?”

“Scusa, ho messo il cellulare in silenzioso. Mamma, ero soltanto a casa di Cece. Proprio dall’altra parte della strada. Quando siamo scese dall’autobus della scuola, sua madre ci ha offerto un gelato.”

“Come potevo sapere dove fossi?”

“Non pensavo che fossi rientrata.”

Riley si sentì urlare, ma non riusciva a smettere. “Non m’importa che cosa hai pensato. Non stavi pensando. Devi sempre informarmi …”

Le lacrime che rigarono il volto di April finalmente la interruppero.

Riley riprese fiato, corse verso la ragazza e l’abbracciò. All’inizio, il corpo di April era rigido per la rabbia, ma Riley lo sentì rilassarsi lentamente e si rese conto che ora piangevano entrambe.

“Mi dispiace” Riley disse. “Mi dispiace. E’ solo che ne abbiamo passate così tante … tante cose terribili.”

“Ma è tutto finito ora” April rispose. “Mamma, è tutto finito.”

Si sedettero entrambe sul divano. Era nuovo, acquistato quando si erano trasferite lì. Lo aveva preso per la sua nuova vita.

“So che è tutto finito” Riley disse. “So che Peterson è morto. Sto provando ad abituarmici.”

“Mamma, tutto va bene ora. Non devi preoccuparti per me, ogni minuto. E non sono una stupida ragazzina. Ho quindici anni.”

“E sei molto intelligente” Riley aggiunse. “Lo so. Devo soltanto ricordarmelo. Ti voglio bene, April” disse. “Ecco perché vado fuori di testa qualche volta.”

“Anch’io ti voglio bene, mamma” la ragazza disse. “Non dovresti preoccuparti così tanto.”

Riley fu felice di vedere sua figlia sorridere di nuovo.

April era stata rapita, tenuta prigioniera, e minacciata con quella fiamma. Ora sembrava essere tornata un’adolescente perfettamente normale, sebbene sua madre non avesse ancora riacquistato il proprio equilibrio.

Inoltre, Riley non riusciva a fare a meno di chiedersi se i ricordi oscuri ancora popolassero la mente di sua figlia, in attesa di emergere.

Per quanto riguardava se stessa, sapeva che aveva bisogno di parlare con qualcuno delle sue paure e di quegli incubi ricorrenti. E doveva farlo in fretta.

Capitolo Sei

Riley non smetteva di agitarsi sulla sedia, provando a immaginare che cosa dovesse dire a Mike Nevins. Si sentiva turbata e nervosa.

“Prendi il tuo tempo” le aveva suggerito lo psichiatra, facendosi più vicino a lei e guardandola con preoccupazione.

Riley rise sommessamente, con tristezza. “Questo è il problema” rispose. “Non ho tempo. Sto cincischiando e, invece, ho una decisione da prendere. Ho già rimandato troppo. Avresti mai detto che io fossi così indecisa?”

Mike non rispose. Si limitò a sorridere, premendo i polpastrelli delle dita gli uni contro gli altri.

Riley era abituata a quel tipo di silenzio da parte di Mike. Quell’uomo elegante e pignolo aveva ricoperto molti ruoli per lei nel corso degli anni: amico, terapeuta e a volte persino mentore. In passato lo aveva chiamato spesso, per avere un suo parere sulla mente malvagia di un criminale. Ma questa visita era diversa. Lo aveva chiamato la sera precedente, dopo essere tornata a casa in seguito all’esecuzione, ed era andata al suo ufficio di Washington DC quella mattina.

“Allora, che cosa ti preoccupa?” infine le domandò.

“Ecco, immagino di dover decidere che cosa fare per il resto della mia vita: insegnare o essere un’agente sul campo. O magari qualcosa di diverso.”

Mike sorrise lievemente. “Aspetta un minuto. Non dobbiamo pianificare il tuo intero futuro oggi. Concentriamoci sul presente. Meredith e Jeffreys vogliono che tu segua un caso. Soltanto un caso. Non è o/o. Nessuno dice che devi smettere di insegnare. E tutto quello che devi fare è dire sì o no per questa volta. Quindi, qual è il problema?”

Riley rimase in silenzio, a sua volta. Non sapeva quale fosse il problema. Ecco perché era lì.

“Suppongo che tu abbia paura di qualcosa” azzardò Mike.

Riley deglutì forte. Era così. Aveva paura. Aveva rifiutato di ammetterlo, persino a se stessa. Ma ora, Mike l’avrebbe aiutata a parlarne.

“E di che cosa hai paura?” Mike chiese. “Hai detto che stai avendo degli incubi.”

Riley continuò a restare silenziosa.

“Suppongo che tutto questo abbia a che fare con la PTSD” Mike osservò. “Hai ancora dei flashback?”

Riley si aspettava quella domanda. Dopotutto, Mike era colui che più si era adoperato per farle superare il trauma di un’esperienza orribile.

Appoggiò la testa allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Per un momento, si trovò di nuovo nell’oscura prigione in cui l’aveva rinchiusa Peterson e lo vide di nuovo minacciarla con la fiamma al propano.

Per mesi, dopo che Peterson l’aveva tenuta prigioniera, quel ricordo si era costantemente manifestato nella sua mente.

Ma, alla fine, aveva rintracciato Peterson e lo aveva ucciso lei stessa, colpendolo ripetutamente fino a lasciarlo a terra, sfigurato e senza vita

Se non è la fine di questa vicenda, allora non so che cosa sia, pensò.

Ora i ricordi sembravano impersonali, come se stesse assistendo alla rappresentazione della storia di qualcun altro.

“Sto meglio” Riley ammise. “Gli incubi sono più brevi e più rari.”

“E che cosa mi dici di tua figlia?”

Quella domanda fu come una coltellata per Riley. Sentì un’eco dell’orrore che aveva vissuto, quando Peterson aveva catturato April. Poteva ancora sentire risuonare nella mente le grida di aiuto della ragazza.

“Immagino di non avere ancora superato questa cosa” disse. “Mi sveglio, terrorizzata all’idea che sia stata di nuovo rapita. Devo andare in camera sua, e assicurarmi che sia lì e che stia bene e che stia dormendo.”

“E’ per questo che non vuoi seguire un altro caso?”

Riley trasalì profondamente. “Non voglio metterla di nuovo in una situazione simile.”

“Questo non risponde alla mia domanda.”

“No, immagino di no” ammise Riley.

Rimasero di nuovo in silenzio, poi il terapeuta riprese. “Ho la sensazione che ci sia dell’altro. Che cosa ti provoca gli incubi? Che cos’altro ti sveglia di notte?”

Improvvisamente, una paura nascosta si fece strada nella sua mente.

Sì, c’era dell’altro.

Persino ora, ad occhi spalancati, riusciva a vedere il suo volto: il viso infantile, grottescamente innocente di Eugene Fisk con i suoi piccoli occhi brillanti. Riley aveva guardato in quegli occhi durante lo scontro finale, era scesa in profondità …

 

L’assassino aveva tenuto Lucy Vargas con un rasoio alla gola. In quel momento, Riley aveva affrontato le sue paure più grandi. Aveva parlato delle catene: quelle che l’assassino credeva gli parlassero, costringendolo a commettere un omicidio dopo l’altro, incatenando donne e squarciando loro la gola.

“Le catene non vogliono che tu prenda questa donna” Riley gli aveva detto. “Lei non è quello di cui hanno bisogno. Sai ciò che le catene vogliono che tu faccia, invece.”

Con gli occhi ormai gonfi di lacrime, l’assassino aveva annuito e si era dato la morte nello stesso modo in cui aveva ucciso le sue vittime.

Si era squarciato la gola proprio davanti agli occhi di Riley.

E adesso, seduta lì nell’ufficio di Mike Nevins, Riley era quasi annegata nel suo stesso orrore.

“Ho ucciso Eugene” esclamò con un sussulto.

“Intendi dire il killer delle catene. Ecco, non è stato il primo uomo che hai ucciso.”

Era vero: aveva ucciso altre volte. Ma, con Eugene, era stato molto diverso. Aveva pensato alla sua morte molto spesso, ma non aveva mai parlato con nessuno dell’argomento prima d’ora.

“Non ho usato una pistola, una pietra o i miei pugni” rispose. “L’ho ucciso con la comprensione, con l’empatia. La mia stessa mente è un’arma mortale. Non lo sapevo prima. Questo mi terrorizza, Mike.”

L’uomo annuì, con fare comprensivo. “Sai che cosa diceva Nietzsche sul guardare troppo a lungo nell’abisso?” le domandò.

“Anche l’abisso guarda dentro di te” rispose Riley, terminando la citazione familiare. “Ma ho fatto molto di più che guardare in un abisso. Ci ho praticamente vissuto dentro. Mi ci sono quasi abituata. E’ come una seconda casa. E questo mi spaventa a morte, Mike. Uno di questi giorni potrei entrare nell’abisso e non uscirne mai più. E chissà chi potrei ferire o uccidere.”

“Ecco” s’intromise Mike, poggiandosi allo schienale della sedia. “Forse stiamo arrivando da qualche parte.”

Riley non ne era così sicura. E non si sentiva pronta a prendere la sua decisione.

*

Non molto tempo dopo, quando Riley entrò dalla porta d’ingresso, April scese le scale di corsa.

“Oh, mamma, devi aiutarmi! Per favore!”

Riley seguì April in cima alle scale, fino in camera sua. Sul letto c’era una valigia aperta e i vestiti erano tutti sparpagliati intorno.

“Non so che cosa mettere in valigia!” la ragazza esclamò. “Non l’ho mai fatto prima!”

Sorridendo alla mescolanza di panico ed euforia di sua figlia, Riley acconsentì ad aiutarla a preparare il bagaglio. April sarebbe partita l’indomani per una gita scolastica: avrebbe trascorso una settimana nella vicina Washington, DC, insieme ad un gruppo di studenti del corso avanzato di Storia Americana ed ai loro insegnanti.

Quando Riley aveva firmato i permessi e pagato le spese extra per il viaggio, aveva avuto dei dubbi. Peterson aveva tenuto prigioniera April a Washington e, sebbene tutto si fosse svolto nella periferia della città, Riley temeva che la gita potesse far riemergere il trauma.

Ma, in fin dei conti, sembrava che April si stesse comportando bene sia a scuola sia dal punto di vista emotivo. E il viaggio sarebbe stata una splendida opportunità.

Mentre si prendevano in giro allegramente su che cosa mettere in valigia, Riley si accorse che si stava divertendo. Quell’abisso, di cui lei e Mike avevano parlato poco prima, sembrava distante. Aveva ancora una vita al di fuori di quell’abisso. Era una bella vita, e qualunque cosa decidesse di fare, era determinata a mantenerla.

Mentre preparavano la valigia, Gabriela entrò nella stanza.

“Señora Riley, il mio taxi sarà qui pronto, a momenti” disse, sorridendo. “Ho preparato la valigia e sono pronta. Le mie cose sono alla porta.”

Riley aveva quasi dimenticato che Gabriela era in partenza. Visto che April sarebbe stata via, Gabriela aveva chiesto il permesso di andare a fare visita a dei parenti in Tennessee. Riley aveva acconsentito con gioia.

Riley abbracciò Gabriela e disse:“Buen viaje.”

Il sorriso di Gabriela scemò un po’, e la donna aggiunse:“Me preocupo.”

“Sei preoccupata?” Riley le chiese sorpresa. “Perché, Gabriela?”

“Per lei” la governante rispose. “Sarà tutta sola in questa nuova casa.”

Riley scoppiò in una lieve risata. “Non preoccuparti, so badare a me stessa.”

“Ma non è mai stata sola da quando così tante brutte cose sono accadute” aggiunse Gabriela. “Mi preoccupo.”

Le parole di Gabriela destarono leggermente Riley. Erano vere. Dopo la disavventura con Peterson, almeno April era sempre stata presente. Poteva un vuoto oscuro e spaventoso aprirsi nella nuova casa? L’abisso si stava spalancando ora?

“Starò bene” Riley disse. “Vai a goderti la tua famiglia.”

Gabriela fece un ampio sorriso e diede una busta a Riley. “Era nella cassetta della posta” le disse.

Gabriela abbracciò April, poi di nuovo Riley, e andò al piano di sotto ad aspettare il taxi.

“Che cos’è, mamma?” chiese April.

“Non lo so” rispose la madre. “Non è stato spedito.”

Aprì la busta e trovò una tessera di plastica all’interno. Lettere decorative sulla tessera mostravano la scritta “Blaine’s Grill.” Sotto, lesse ad alta voce: “Cena per due.”

“Immagino che sia una tessera regalo da parte del nostro vicino” disse Riley. “E’ un gesto carino da parte sua. Tu ed io possiamo andarci a cenare quando torniamo.”

“Mamma!” April sbottò. “Non significa tu e io.”

“Perché no?”

“Sta invitando te a cena.”

“Oh! Lo pensi davvero? Ma non c’è scritto così qui.”

April scosse la testa. “Non essere stupida. Quell’uomo vuole uscire con te. Crystal mi ha detto che piaci a suo padre. E lui è davvero carino.”

Riley si accorse che stava arrossendo per l’imbarazzo. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui qualcuno l’aveva invitata ad un appuntamento. Era stata sposata con Ryan per molti anni. Dal loro divorzio, si era concentrata sul rifarsi una vita nella sua nuova casa e sulle decisioni da prendere nel suo lavoro.

“Stai arrossendo, mamma” osservò April.

“Prepariamo le tue cose” borbottò Riley. “Ci penserò dopo.”

Tornarono entrambe ad occuparsi dei vestiti. Dopo alcuni minuti di silenzio, April disse: “Sono un po’ preoccupata per te, mamma. Come ha detto Gabriela …”

“Starò bene” la rassicurò la madre.

“Davvero?”

Piegando una camicetta, Riley non era certa di come rispondere. Senz’altro, di recente aveva affrontato degli incubi peggiori di una casa vuota; tra le altre cose, psicopatici assassini l’ossessionavano con catene, bambole e fiamme ossidriche. Ma quei demoni interiori potevano liberarsi, quando sarebbe stata da sola? Improvvisamente, una settimana cominciò a sembrarle un lungo periodo. E la prospettiva di dover decidere se uscire oppure no con l’uomo della porta accanto sembrava spaventosa, in un certo senso.

Ce la farò, si disse.

Inoltre, poteva contare anche su un’altra opzione. Ed era giunto il momento di prendere una decisione una volta per tutte.

“Mi hanno chiesto di lavorare ad un caso” Riley disse ad April. “Dovrei andare subito in Arizona.”

April smise di piegare i vestiti e guardò sua madre.

“Allora ci andrai, non è vero?” le chiese.

“Non lo so, April” la donna rispose.

“Che cosa c’è da sapere? E’ il tuo lavoro, giusto?”

Riley guardò la figlia negli occhi. I momenti difficili tra loro sembravano davvero appartenere al passato. Da quando erano entrambe sopravvissute agli orrori inflitti da Peterson, avevano creato tra loro un nuovo legame.

“Stavo pensando di non tornare al lavoro sul campo” disse Riley.

Gli occhi di April si spalancarono per la sorpresa.

“Come? Mamma, prendere i cattivi è quello che fai meglio.”

“Sono anche brava ad insegnare” aggiunse Riley. “Sono molto brava a farlo. E amo farlo. Dico davvero.”

April alzò le spalle in segno di incomprensione. “Allora vai e insegna. Nessuno ti fermerà. Ma non smettere di prendere la gente a calci nel sedere. E’ davvero importante.”

Riley scosse la testa. “Non lo so, April. Dopo tutti i pericoli in cui ti ho messa …”

April era e si mostrava incredula. “Dopo tutti i pericoli in cui tu mi hai messa? Di che cosa stai parlando? Tu non mi hai messa proprio in niente. Sono stata rapita da uno psicopatico di nome Peterson. Se non avesse preso me, sarebbe toccato ad un’altra. Non devi sentirti in colpa.”

Dopo una pausa, April aggiunse: “Siediti, mamma. Dobbiamo parlare.”

Riley sorrise e si sedette sul letto. April sembrava proprio una madre.

Forse una piccola predica da genitore è davvero quello che mi serve, pensò Riley.

April si sedette accanto a sua madre.

“Ti ho mai parlato della mia amica Angie Fletcher?” April disse.

“Non mi pare.”

“Ecco, siamo state molto legate per un po’, ma poi ha cambiato scuola. Era molto intelligente, un anno più avanti di me, quindici anni. Ho saputo che ha cominciato a comprare la droga da un ragazzo che tutti chiamavano Trip. E’ diventata proprio dipendente dall’eroina. E quando ha finito i soldi, Trip l’ha fatta lavorare come prostituta. L’ha preparata personalmente, l’ha fatta entrare lui nel giro. Sua madre era talmente a pezzi, che a malapena ha notato la scomparsa di Angie. Trip l’ha persino pubblicizzata sul suo sito web, le ha fatto fare un tatuaggio, giurando che sarebbe stata sua per sempre.”

Riley era scioccata. “Che cosa le è accaduto?”

“Ecco, alla fine Trip è stato beccato, e Angie è finita in un centro di disintossicazione dalla droga. E’ successo proprio quest’estate, mentre eravamo a Nord di New York. Non so che cosa ne sia stato di lei, dopo. Tutto quello che so è che ha solo sedici anni ora, e la sua vita è rovinata.”

“Mi spiace molto saperlo” affermò Riley.

April borbottò spazientita.

“Proprio non capisci, vero, mamma? Non hai nulla di cui dispiacerti. Hai passato tutta la vita a impedire questo genere di cose. E hai fermato le persone come Trip, alcune di queste per sempre. Ma, se smetti di fare quello che fai meglio, chi lo farà al posto tuo? Qualcuno bravo quanto te? Ne dubito, mamma. Davvero, ne dubito.”

Riley rimase in silenzio per un istante. Poi con un sorriso, strinse forte la mano della figlia.

“Credo di dover fare una telefonata” disse.

Capitolo Sette

Mentre il jet dell’FBI decollava da Quantico, Riley era certa che avrebbe dovuto affrontare un altro mostro. Si sentiva profondamente a disagio al solo pensiero.

Aveva sperato di stare lontana dagli assassini per un po’ ma, alla fine, accettare questo caso sembrava essere la cosa giusta da fare. Meredith si era dimostrato davvero sollevato, quando lei gli aveva comunicato la sua decisione.

Quella mattina, April era partita per la gita scolastica ed ora Riley e Bill erano diretti a Phoenix. Fuori dal finestrino dell’aereo, il cielo pomeridiano si era fatto buio e la pioggia schizzava contro il vetro. Riley restò inchiodata al sedile, finché l’aereo, dopo aver attraversato le turbolente nuvole grigie, raggiunse il cielo sgombro in alto. A quel punto una superficie morbida apparve sotto di loro, nascondendo la terra dove, probabilmente, le persone stavano spostandosi freneticamente in cerca di riparo dalla pioggia. E, pensò Riley, stavano per vivere i piaceri e gli orrori quotidiani e tutto quello che c’era nel mezzo.

Non appena il volo si fece più tranquillo, Riley si rivolse a Bill, chiedendo: “Che cosa mi devi mostrare?”

Bill mise mano al suo portatile, poggiato sul tavolino di fronte a loro. Aprì sullo schermo la foto di un grosso sacco nero per l’immondizia, che emergeva appena nell’acqua bassa. La mano bianca di un cadavere spuntava dall’apertura del sacco.

Bill spiegò: “Il corpo di Nancy Holbrook è stato trovato in un lago artificiale, parte del sistema idrico di Phoenix. Era una escort di trent’anni, una di quelle molto costose.”

“E’ annegata?” chiese Riley.

“No. Sembra essere morta per asfissia. Poi, è stata messa in un resistente sacco per l’immondizia ed è stata scaricata nel lago. Il sacco per l’immondizia é stato riempito con grosse pietre.”

Riley studiò attentamente la foto. Molte domande si stavano già formando nella sua mente.

 

“L’assassino ha lasciato qualche traccia fisica?” lei chiese. “Impronte, fibre, DNA?”

“Niente.”

Riley scosse la testa. “Non mi convince. Quello che ha fatto del corpo, voglio dire. Perché il killer non ha fatto un piccolo sforzo in più? Un lago di acqua dolce è perfetto per sbarazzarsi di un corpo. I cadaveri affondano e si decompongono in fretta nell’acqua dolce. Certo, potrebbero riapparire in superficie, a causa del gonfiore e dei gas. Ma una quantità adeguata di pietre nel sacco potrebbe risolvere quel problema. Perché lasciarla nell’acqua bassa?”

“Immagino che spetti a noi scoprirlo” rispose Bill.

L’uomo le mostrò svariate altre foto della scena del crimine, ma nessuna la colpi in modo particolare.

“Allora, che cosa ne pensi?” gli chiese. “Abbiamo a che fare con un serial killer oppure no?”

Bill aggrottò le sopracciglia, pensieroso. “Non lo so” disse. “In realtà, abbiamo di fronte un singolo omicidio di una sola prostituta. Certo, altre prostitute sono sparite a Phoenix. Ma non è niente di nuovo. Succede quotidianamente in ogni grande città del paese.”

Il termine “quotidianamente” suonò sgradevole a Riley. Come era possibile che continue sparizioni, all’interno di una certa categoria di donne, venissero considerate una “routine”? Ma sapeva che ciò che Bill stava dicendo era vero.

“Quando Meredith ha telefonato, l’ha fatta sembrare una questione urgente” lei disse. “E ora ci sta persino riservando un trattamento da VIP, facendoci volare direttamente su un jet del BAU.” La donna rifletté per un momento. “Le sue parole esatte erano che il suo amico voleva che lo considerassimo opera di un serial killer. Ma, da quello che mi dici, sembra che nessuno sia sicuro che sia così.”

Bill alzò le spalle. “Potrebbe non esserlo. Ma Meredith sembra davvero affezionato al fratello di Nancy Holbrook, Garrett Holbrook.”

“Sì” disse Riley. “Mi ha detto che hanno frequentato l’accademia insieme. Ma tutto questo è insolito.”

Bill non replicò.

Riley si appoggiò allo schienale del sedile e rifletté sulla situazione. Sembrava evidente che Meredith stesse violando le regole dell’FBI per fare un favore ad un amico. Il che non era affatto nello stile di Meredith.

Ma questo non sminuiva affatto il capo ai suoi occhi. In realtà, ammirava la sua devozione nei confronti dell’amico. Lei si domandava …

C’è qualcuno per cui violerei le regole? Forse, Bill?

Era stato più di un semplice partner negli anni, ed era persino più di un amico. Nonostante tutto, Riley non ne era certa e si trovò a chiedersi quanto si sentisse realmente vicina a coloro con cui lavorava, compreso Bill.

Ma non era in grado di rispondersi ed, infine, Riley chiuse gli occhi e si addormentò.

*

Era una splendida giornata di sole, quando atterrarono a Phoenix.

Appena scesi dal jet, Bill le diede un colpetto con il gomito, dicendo: “Accidenti, che meravigliosa giornata. Forse, almeno, ci faremo una piccola vacanza in questo viaggio.”

In qualche modo, Riley dubitava che si sarebbero divertiti molto.

Era trascorso un lungo tempo da quando aveva fatto una vera vacanza. Il suo ultimo tentativo di andare a New York con April era stato rovinato dal solito omicidio e dal caos, che costituivano una grande parte della sua vita.

Uno di questi giorni, dovrò riposarmi davvero, pensò.

Un giovane agente locale li attendeva dall’aereo, e li condusse in auto all’ufficio di competenza dell’FBI di Phoenix, un impressionante edificio moderno, appena costruito. Mentre parcheggiavano l’auto, commentò: “Bel design, vero? Ha persino vinto un premio, mi pare. Riuscite ad immaginare a che cosa voglia assomigliare?”

Riley osservò la facciata. Era tutta dritta, caratterizzata da lunghi rettangoli e da strette finestre verticali. Si fermò a guardare l’edificio per un istante.

“Sequenza del DNA?” la donna chiese.

“Sì” l’agente rispose. “Ma scommetto che non riesce a immaginare come appaia il labirinto roccioso da lassù.”

Entrarono nell’edificio prima che Riley o Bill potessero provare ad immaginarlo. All’interno, Riley vide il motivo del DNA ripetersi sulle piastrelle del pavimento, accuratamente disposte. L’agente li condusse tra pareti orizzontali e tramezzi dall’aspetto serioso, fino all’ufficio dell’Agente Speciale Responsabile, Elgin Morley, e se ne andò.

Riley e Bill si presentarono a Morley, un ometto sulla cinquantina, con un paio di folti baffi neri e occhiali rotondi: aveva il caratteristico aspetto del topo di biblioteca. Un altro uomo li stava aspettando nell’ufficio: era sulla quarantina, alto, magro e leggermente gobbo. A Riley sembrò stanco e depresso.

Morley disse: “Agenti Paige e Jeffreys, vorrei presentarvi l’Agente Garrett Holbrook. Sua sorella è l’ultima vittima che è stata ritrovata nel Lago Nimbo.”

Si scambiarono una stretta di mano e si sedettero a parlare.

“Grazie di essere venuti” Holbrook disse. “Tutta questa storia è stata sconvolgente.”

“Ci dica di sua sorella” Riley intervenne.

“Non posso dirvi molto” l’uomo rispose. “Non so dire se la conoscevo molto bene. Era la mia sorellastra. Mio padre era uno stronzo libertino, ha lasciato mia madre e ha avuto dei figli da tre donne diverse. Nancy aveva quindici anni meno di me. Abbiamo a malapena avuto contatti negli anni.”

Rimase a guardare il pavimento per un istante con sguardo assente, mentre le dita stringevano distrattamente il bracciolo della sua sedia. Poi, senza sollevare lo sguardo, aggiunse: “L’ultima volta che l’ho sentita, stava sbrigando del lavoro d’ufficio e prendendo lezioni in un centro di formazione professionale. Questo accadeva alcuni anni fa. Sono rimasto scioccato nello scoprire quello che è diventata. Non ne avevo idea.”

A quel punto si azzittì. Riley ebbe la sensazione che l’uomo avesse omesso di dire qualcosa, ma si disse che forse era tutto quello che sapeva. Dopotutto, che cosa avrebbe saputo dire lei della sua sorella maggiore, se qualcuno glielo avesse chiesto? Lei e Wendy avevano perso i contatti da lungo tempo, ed era come se non fossero affatto sorelle.

Nonostante questo, percepiva qualcosa più del dolore nell’atteggiamento di Holbrook e ne era colpita in modo strano.

Morley suggerì che Riley e Bill andassero con lui al reparto di Patologia Forense, dove avrebbero potuto dare un’occhiata al corpo. Holbrook annuì e disse che sarebbe stato nel suo ufficio.

Mentre seguivano l’Agente Responsabile lungo il corridoio, Bill chiese: “Agente Morley, per quale ragione pensiamo di avere a che fare con un serial killer?”

Morley scosse la testa. “Non sono certo che ci sia una ragione precisa” rispose. “Ma, quando Garrett ha scoperto la morte di Nancy, si è rifiutato di lasciar perdere. E’ uno dei nostri migliori agenti e ho provato ad andargli incontro. Ha tentato di indagare, ma non è arrivato da nessuna parte. La verità è che non è stato se stesso per tutto il tempo.”

Riley aveva notato che Garrett sembrava essere terribilmente turbato. Forse più di quanto un agente esperto avrebbe dovuto essere per la morte di un parente. Aveva detto chiaramente che non erano in rapporti stretti.

Morley condusse Riley e Bill nell’area di Patologia Forense, presentandoli al capo della squadra, la Dottoressa Rachel Fowler. La patologa aprì l’unità di refrigerazione, dov’era custodito il corpo di Nancy Holbrook.

Riley trasalì leggermente al familiare tanfo della decomposizione, sebbene l’odore non fosse ancora troppo forte. Vide che la donna era bassa di statura e molto magra.

“Non è stata a lungo in acqua” la Fowler disse. “La pelle stava appena cominciando a raggrinzirsi, quando è stata trovata.”

La Dottoressa Fowler ne indicò i polsi.

“Potete notare delle escoriazioni da corda. Sembra che fosse legata, quando è stata uccisa.”

Riley notò dei segni sull’interno del gomito del cadavere.

“Questi sembrano buchi da ago” disse Riley.

“Giusto. Faceva uso di eroina. Immagino che ne stesse diventando dipendente.”

A Riley sembrava che la donna fosse stata anoressica, il che poteva rafforzare la teoria della dipendenza formulata dalla Fowler.

“Quel tipo di dipendenza non è tipica di una escort d’alto bordo” Bill intervenne. “Come sappiamo che cosa facesse?”

Fowler gli porse un biglietto da visita laminato, conservato all’interno di un sacchetto di plastica per la raccolta delle prove. Vi era stampata una foto provocante della donna morta, il nome “Nanette” e le parole “Ishtar Escorts.”