Oscurita’ Perversa

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Oscurita’ Perversa
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Oscurita’ Perversa
Oscurita’ Perversa
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Czyta Caterina Bonanni
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La richiesta suonò strana a Riley. Spesso le prostitute sparivano senza essere uccise. A volte, decidevano di svolgere il proprio lavoro altrove. O semplicemente lo lasciavano.

“Ha un motivo per pensarla in questo modo?” Riley chiese.

“Non lo so” fu la risposta del capo. “Forse lui vuole pensarla così in modo da coinvolgerci. Ma è vero, come sai, le prostitute sono bersagli abituali dei serial killer.”

Riley sapeva che era vero. Lo stile di vita delle prostitute le esponeva ad alti rischi. Erano visibili ed accessibili, da sole con estranei, spesso tossicodipendenti.

Meredith proseguì: “Mi ha contattato personalmente. Gli ho promesso che avrei mandato i miei migliori uomini a Phoenix. E naturalmente, sei inclusa tu.”

Riley ne fu colpita. Meredith non le avrebbe facilitato un rifiuto.

“La prego, cerchi di capire, signore” lei disse. “Proprio non posso accettare di seguire un nuovo caso.”

Riley si sentì vagamente disonesta. Non posso o non voglio? si chiese.

Dopo che era stata catturata e torturata da un serial killer, tutti avevano insistito affinché prendesse un congedo dal lavoro. Ci aveva provato, ma aveva sentito un disperato bisogno di tornare in pista. Ora, si chiese che cosa avesse davvero significato quella disperato desiderio. Era stata imprudente e autolesionista, ed aveva affrontato un vero inferno per poter tornare a controllare la sua vita. Quando finalmente aveva ucciso Peterson, il suo tormentatore, aveva creduto che tutto sarebbe andato bene. Ma l’uomo ancora la tormentava e Riley aveva incontrato altri problemi nella risoluzione del suo ultimo caso.

Dopo una pausa, la donna aggiunse: “Mi serve più tempo fuori dai giochi. Sono ancora tecnicamente in congedo, e sto provando davvero a rimettere insieme la mia vita.”

Seguì un lungo silenzio. Sembrava che Meredith non intendesse discutere ed ancor meno far pesare la sua autorità su di lei. Ma certo non si sarebbe detto d’accordo con la decisione della donna. Non avrebbe smesso di farle pressione.

Sentì Meredith fare un lungo e triste sospiro. “Garrett è stato diviso da Nancy per anni. Ora, quello che le è accaduto lo sta logorando dentro. Immagino che qui ci sia una lezione, oppure no? Non dare nessuno per scontato nella tua vita. Mantieniti sempre in contatto.”

A Riley quasi cadde il telefono. Le parole di Meredith avevano toccato un nervo, rimasto nascosto, per molto tempo. Riley aveva perso i contatti con la sua sorella maggiore anni prima. Erano rimaste separate e lei non si era nemmeno chiesta di Wendy per molto tempo. Non aveva idea di come la sorella stesse ora.

Dopo un’altra pausa, Meredith disse: “Promettimi che ci penserai.”

“Lo farò” Riley rispose.

La telefonata terminò.

La donna si sentì malissimo. Meredith l’aveva vista affrontare dei momenti terribili, e non si era mai mostrato così vulnerabile di fronte a lei, prima di allora. Odiava deluderlo. E gli aveva appena promesso di pensarci su.

E non importava quando volesse disperatamente farlo, Riley non era certa di poter dire di no.

Capitolo Tre

L’uomo sedeva nella sua auto nel parcheggio, osservando la prostituta, che si avvicinava lungo la strada. La donna si chiamava “Chiffon”. Ovviamente, non era il suo vero nome. E lui era certo che ci fossero tante cose su di lei che ancora non conosceva.

Potrei far sì che lei me le dica, pensò. Ma non qui. Non oggi.

Non l’avrebbe nemmeno uccisa lì oggi. No, non lì, così vicino al suo solito posto di lavoro—la cosiddetta “Kinetic Custom Gym.” Dalla sua postazione, lui poteva vedere i fatiscenti macchinari da palestra attraverso le vetrine—tre tapis roulant, un vogatore e un paio di macchine per i pesi, nessuno di questi funzionante. Per quanto ne sapesse, nessuno si recava in quella palestra per fare realmente esercizio fisico.

Non in un modo socialmente accettabile almeno, pensò con un sorrisetto.

Non aveva bazzicato molto in quel posto, non da quando aveva preso quella brunetta che ci lavorava diversi anni prima. Naturalmente, non l’aveva uccisa lì. L’aveva adescata, per poi condurla in una camera di motel per dei “servizi extra”, e con la promessa di darle molti più soldi.

Non era stato un omicidio premeditato. Il sacco di plastica sulla sua testa avrebbe dovuto aggiungere soltanto un finto elemento di pericolo. Ma, una volta fatto, era rimasto sorpreso da quanto si fosse sentito profondamente soddisfatto. Si era trattato di un piacere epicureo, particolarmente intenso persino nella sua vita di piaceri.

Eppure, nei suoi successivi appuntamenti segreti, era stato ancora più attento e prudente. O almeno era stato così fino alla settimana precedente, quando quello stesso gioco era diventato mortale di nuovo con quella escort—come si chiamava?

Oh, sì, lo ricordò. Nanette.

Allora, aveva sospettato che Nanette non fosse il suo vero nome. Ora non avrebbe mai saputo quello vero. Nel suo cuore, sapeva che la sua morte non era stata un incidente. Non realmente. Aveva avuto intenzione di ucciderla. E la sua coscienza era immacolata. Era pronto a rifarlo di nuovo.

La donna che si faceva chiamare Chiffon si stava avvicinando; era ancora a circa mezzo isolato, avvolta in un top giallo e una microgonna, diretta traballando verso la palestra su tacchi terribilmente alti, mentre parlava al cellulare.

L’uomo voleva davvero sapere se Chiffon era il suo vero nome. Il loro unico precedente incontro professionale si era rivelato un fallimento—per colpa della donna, lui ne era sicuro, non certamente sua. Qualcosa di lei lo aveva deluso.

Sapeva perfettamente che era più vecchia di quanto dichiarasse. Non era soltanto il suo corpo a suggerirlo, persino le prostitute adolescenti avevano cicatrici dalla nascita. E non si trattava delle rughe che la donna aveva sul volto. Le prostitute invecchiavano più rapidamente di qualsiasi altra donna che lui conoscesse.

Non poteva giurarlo. Ma c’era tanto di lei che lo rendeva perplesso. La donna mostrava un certo tipo di entusiasmo fintamente tipico di una giovane donna, che non indicava neppure professionalità—nemmeno per una novizia.

Ridacchiava fin troppo, come una bambina che giocava. Era troppo entusiasta. E - cosa ancora più strana - sospettava che le piacesse davvero il suo lavoro.

Una puttana a cui piace davvero il sesso, pensò, osservandola avvicinarsi di più. Chi lo avrebbe mai detto?

Francamente, questo lo innervosiva.

Ma almeno era certo che lei non fosse una poliziotta sotto copertura. Se ne sarebbe accorto nella frazione di un secondo.

Quando si avvicinò abbastanza da vederlo, l’uomo suonò il clacson della sua auto. La donna smise di parlare al cellulare per un momento e guardò verso di lui, coprendosi gli occhi dal forte sole mattutino. Quando vide di chi si trattava, gli fece un saluto con la mano e sorrise — un sorriso che sarebbe sembrato, a tutto il mondo, completamente sincero.

Poi girò intorno alla palestra, dirigendosi sul retro, verso l’entrata di “servizio”. Lui si rese conto che probabilmente aveva un appuntamento con un cliente. Non importava, l’avrebbe “assunta” un’altra volta, quando sarebbe stato dell’umore per uno specifico tipo di piacere. Intanto, c’erano molte altre prostitute nei dintorni.

Ricordò com’erano andate le cose l’ultima volta. Lei era stata allegra, sorridente e dispiaciuta.

“Torna pure quando vuoi” gli aveva detto.“Andrà meglio la prossima volta. Andremo d’accordo, e le cose si faranno molto eccitanti.”

“Oh, Chiffon” lui mormorò ad alta voce. “Non ne hai idea.”

Capitolo Quattro

Il rumore degli spari risuonava intorno a Riley. Alla sua sinistra, avvertì il suono gracchiante delle pistole. Alla sua destra, sentì armi più pesanti — colpi provenienti da fucili d’assalto e colpi intermittenti di mitragliatrici.

Nel bel mezzo della sparatoria, estrasse la sua Glock dalla fondina che indossava sul fianco, si mise prona ed esplose sei colpi, poi altri tre in ginocchio. Ricaricò abilmente e velocemente, si alzò in piedi e sparò altri sei colpi, e infine s’inginocchiò per esplodere altri tre colpi con la mano sinistra.

Si alzò e infilò la sua arma nella fondina, poi indietreggiò dalla linea di fuoco, levando i paraorecchie e le protezioni per gli occhi. Il bersaglio, a forma di bottiglia, distava quasi ventitré metri. Anche da quella distanza, riusciva a vedere che era andata a segno con discreta precisione. Nelle corsie vicine, i tirocinanti dell’Accademia dell’FBI proseguivano la loro esercitazione, guidati dal loro istruttore.

Era trascorso del tempo da quando Riley aveva sparato, sebbene fosse sempre armata quando era in servizio. Aveva prenotato quella corsia all’Accademia dell’FBI per fare un po’ di pratica con il tiro al bersaglio, e, come sempre, c’era qualcosa di soddisfacente nel maneggiare una pistola, nella sua forza naturale.

Sentì una voce dietro di lei.

“Sei della vecchia scuola, vero?”

La donna si voltò e vide l’Agente Speciale Bill Jeffreys accanto a lei, sorridente. Riley gli sorrise a sua volta. Sapeva esattamente che cosa intendesse l’uomo con “vecchia scuola”. Alcuni anni prima, l’FBI aveva cambiato le prove previste per l’utilizzo della pistola. Lo sparare da una posizione prona aveva fatto parte del vecchio addestramento, ma non era più richiesto ormai. Adesso veniva messa maggiore enfasi nello sparare ai bersagli da vicino, tra i due e sei metri. Questo addestramento era integrato dall’utilizzo della realtà virtuale, dove gli agenti erano immersi in scenari, che proponevano confronti armati a distanza ravvicinata. Ed anche i tirocinanti attraversarono il noto Hogan’s Alley, una cittadina modello di dieci acri, dove combatterono contro finti terroristi con pistole da paintball.

 

“Qualche volta mi piace seguire la vecchia scuola” ammise. “Immagino che un giorno potrà capitare di dover sparare a distanza.”

Per sua stessa esperienza, Riley sapeva che, nella realtà, lo scontro era quasi sempre ravvicinato, diretto e - spesso - inaspettato. Infatti, lei stessa aveva dovuto affrontare due combattimenti corpo a corpo di recente. Aveva ucciso un criminale con il suo stesso coltello, e un altro con una pietra trovata per caso.

“Pensi che qualcosa prepari questi ragazzi ad affrontare la realtà?” Bill chiese, annuendo nella direzione dei tirocinanti, che ora avevano terminato e stavano lasciando la postazione di tiro.

“Non fino in fondo” Riley disse. “Nella Realtà Virtuale, il cervello legge lo scenario come reale, ma non c’è alcun pericolo incombente, niente dolore o rabbia da controllare. Qualcosa al nostro interno è sempre consapevole del fatto che non ci sia una possibilità di venire uccisi.”

“Giusto” Bill disse. “Dovranno scoprire com’è davvero, proprio come facevamo molti anni fa.”

Riley lo guardò sottecchi, mentre si allontanavano sempre di più dalla linea di tiro. Come lei, aveva quarant’anni, denunciati dalle ciocche grigie tra i capelli scuri. Si chiese come mai si stesse trovando a paragonarlo mentalmente al suo vicino, più magro e più slanciato.

Come si chiamava? si chiese. Oh, certo—Blaine.

Blaine era bello, ma non era certa che fosse all’altezza del collega. Bill era robusto, solido e piuttosto bello.

“Che cosa ti porta qui?” gli chiese.

“Ho sentito che saresti venuta” le rispose.

Riley strizzò gli occhi verso di lui con imbarazzo. Probabilmente, questa non era semplicemente una visita di un amico. Dalla sua espressione, lei comprese che non era pronto a dirle che cosa voleva, almeno non ancora.

Bill aggiunse: “Se vuoi finire l’addestramento, ti aspetterò.”

“Lo apprezzerei” Riley replicò.

Si spostarono verso una sezione separata del poligono di tiro, dove lei non sarebbe stata a rischio di venire colpita da proiettili vaganti, esplosi dai tirocinanti.

Con Bill che controllava il cronometro, Riley effettuò attraverso tutte le prove del corso di qualificazione della pistola dell’FBI, sparando ad un bersaglio da due metri, poi da quattro, da sei e da tredici. La quinta e ultima prova era quella che trovava più semplice: sparare da dietro una barricata a ventidue metri di distanza.

Quando ebbe terminato, Riley si tolse la protezione dal capo. Con Bill, raggiunsero il bersaglio e controllarono i risultati del suo lavoro. Tutti i colpi erano ben raggruppati insieme.

“Cento per cento, un punteggio perfetto” Bill esclamò.

“Dovevo farlo!” Riley rispose. Non avrebbe sopportato l’idea di essere arrugginita.

Bill indicò verso la protezione posteriore in terracotta al di là del bersaglio.

“Surreali, vero?” l’uomo disse.

Svariati cervi dalla coda bianca stavano pascolando con soddisfazione in cima alla collina. Si erano radunati lì mentre lei stava sparando. Erano ad una buona portata, persino con la sua pistola. Ma non erano neanche un po’ infastiditi da tutte le migliaia di proiettili esplosi contro i bersagli, proprio al di sotto dell’alto crinale su cui stavano camminando.

“Sì” lei disse, “e belli.”

In quel periodo dell’anno, i cervi si vedevano comunemente lì al poligono. Era stagione di caccia, e in qualche modo sapevano che sarebbero stati al sicuro in quel posto. Infatti, i terreni dell’Accademia dell’FBI erano diventati una sorta di rifugio naturale per molti animali, volpi, tacchini selvatici e marmotte inclusi.

“Un paio di giorni fa, uno dei miei studenti ha visto un orso nel parcheggio” aggiunse Riley.

Riley fece due passi verso la protezione posteriore. I cervi sollevarono la testa, la guardarono e poi scapparono via. Non temevano gli spari, ma non volevano nemmeno che le persone si avvicinassero troppo a loro.

“Come pensi che facciano a saperlo?” Bill domandò. “Che qui è sicuro, intendo dire. I colpi non hanno tutti lo stesso suono?”

Riley scosse semplicemente la testa. Per lei era un mistero. Il padre la portava a caccia quando era piccola. Per lui invece, i cervi erano semplicemente delle risorse—cibo e pelle. Non l’aveva infastidita ucciderli tutti quegli anni prima. Ma ora era diverso.

Sembrava strano, a pensarci. Non aveva problemi a uccidere un essere umano, quando era necessario. Poteva uccidere un uomo in un battito. Ma sparare ad una di quelle creature fiduciose, ora, sembrava impensabile.

Riley e Bill s’incamminarono verso una vicina area relax, e si sedettero insieme su una panchina. Qualunque fosse l’argomento di cui fosse venuto a parlarle, l’uomo sembrava ancora riluttante.

“Come ti vanno le cose da solo?” chiese con voce gentile.

Sapeva che si trattava di una domanda delicata, e lo vide trasalire. La moglie lo aveva lasciato di recente, dopo anni di scontro tra il suo lavoro e la sua vita a casa. Bill aveva paura di perdere i contatti con i suoi figli più piccoli. Ora viveva in un appartamento a Quantico, e vedeva i suoi ragazzi durante i fine settimana.

“Non lo so, Riley” disse. “Non so se mi ci abituerò mai.”

Era chiaramente solo e depresso. Aveva vissuto anche lei quell’esperienza, di recente, con la separazione prima e, poi, il divorzio. Sapeva anche che il periodo successivo alla separazione era particolarmente delicato. Anche se la relazione era stata un fallimento, ci si trovava in un mondo di estranei, sentendo la mancanza di anni di familiarità, senza quasi sapere che fare di se stessi.

Bill le toccò un braccio. Con voce leggermente rotta per l’emozione, le disse: “A volte penso che tutto quello che mi resta nella vita su cui contare sei … tu.”

Per un istante, Riley ebbe voglia di abbracciarlo. Quando lavoravano insieme come partner, Bill l’aveva salvata numerose volte, sia fisicamente sia emotivamente. Ma lei sapeva che doveva stare attenta. E sapeva anche che le persone possono essere molto folli in tempi come questi. Alla fine, una sera aveva telefonato a Bill, da ubriaca, proponendogli di iniziare una storia. Ora la situazione si era capovolta. Riusciva a percepire la sua imminente dipendenza da lei, ora che stava cominciando a sentirsi libera e forte abbastanza da stare da sola.

“Eravamo dei buoni partner” gli disse. Fu poco convincente, ma non riuscì a pensare ad altro da dire.

Bill fece un lungo e profondo respiro.

“Ecco che cosa sono venuto a dirti” ammise lui. “Meredith mi ha detto che ti ha chiamata per dirti del caso di Phoenix. Ci sto lavorando. Mi serve un partner.”

Riley provò soltanto un pizzico d’irritazione. La visita di Bill stava cominciando a sembrare un po’ un tranello.

“Ho detto a Meredith che ci avrei pensato su” gli disse.

“E ora te lo sto chiedendo io” Bill disse.

Il silenzio cadde tra di loro.

“Che mi dici di Lucy Vargas?” Riley chiese.

L’Agente Vargas era una recluta che aveva lavorato a stretto contatto con Bill e Riley al loro caso più recente. Erano rimasti entrambi impressionati dal suo lavoro.

“La sua caviglia non è guarita” Bill le rispose. “Non tornerà sul campo per un altro mese almeno.”

Riley si sentì sciocca ad averlo chiesto. Quando lei, Bill e Lucy erano stati alle costole di Eugene Fisk, il cosiddetto “killer delle catene”, Lucy era caduta e si era rotta una caviglia, facendosi quasi uccidere. Naturalmente, non poteva tornare al lavoro tanto presto.

“Non lo so, Bill” Riley aggiunse. “Questa pausa dal lavoro mi sta facendo davvero bene. Sto pensando di limitarmi all’insegnamento d’ora in poi. Tutto quello che posso dirti è quello che ho riferito a Meredith.”

“Che ci penserai su.”

“Esatto.”

Bill emise un grugnito di scontentezza.

“Potremmo almeno vederci e parlarne insieme?” le domandò. “Forse domani?”

Riley tornò silenziosa per un istante.

“Non domani” fu la risposta. “Domani devo assistere alla morte di un uomo.”

Capitolo Cinque

Riley guardava attraverso il vetro, aperto sulla stanza in cui Derrick Caldwell presto sarebbe morto. Era seduta accanto a Gail Bassett, la madre di Kelly Sue Bassett, l’ultima vittima del serial killer. L’uomo aveva ucciso ben cinque donne, prima che Riley riuscisse a fermarlo.

Aveva esitato ad accettare l’invito di Gail ad assistere all’esecuzione. Si erano incontrate solamente una volta, prima di allora, quando aveva fatto la testimone volontaria seduta tra reporter, avvocati, forze dell’ordine, consiglieri spirituali ed il primo giurato. Ora lei e Gail sedevano tra nove parenti delle donne che Caldwell aveva ucciso, tutti riuniti in uno spazio ristretto, seduti su sedie di plastica.

Gail, una minuta sessantenne con un delicato viso dalle fattezze di uccello, aveva mantenuto i contatti con Riley negli anni. Suo marito era morto, prima che si arrivasse all’esecuzione, e aveva scritto a Riley, dicendo di non avere un’altra persona con cui condividere l’evento importantissimo. Perciò, Riley aveva accettato l’invito.

La camera della morte era proprio lì, dall’altra parte del vetro. L’unico mobile presente nella stanza era la lettiga dell’esecuzione, un tavolo a forma di croce. Una tendina blu di plastica era appesa sopra alla lettiga. Riley sapeva che la flebo e le sostanze chimiche letali erano proprio dietro quella tendina.

Un telefono rosso alla parete era collegato con l’ufficio del direttore. Avrebbe suonato soltanto in caso di una decisione di clemenza dell’ultimo minuto. Stavolta, nessuno si aspettava che questo accadesse. Un orologio sopra la porta della stanza era l’unica altra decorazione visibile.

In Virginia, i detenuti nel braccio della morte potevano scegliere tra la sedia elettrica e l’iniezione letale, ma di solito era quest’ultima soluzione quella prescelta. Se un prigioniero non faceva alcuna scelta, veniva assegnata l’iniezione.

Riley era stata quasi sorpresa dal fatto che Caldwell non avesse optato per la sedia elettrica. Era un mostro impenitente, che sembrava accogliere di buon grado la sua stessa morte.

L’orologio segnava le 8:55, quando la porta si aprì. Riley sentì un mormorio nella stanza, mentre diversi membri della squadra addetta all’esecuzione portavano Caldwell nella stanza. Due guardie lo affiancavano, tenendolo ognuna per un braccio, e un’altra seguiva proprio dietro di lui. Un uomo ben vestito entrò dopo tutti gli altri, il direttore del penitenziario.

Caldwell indossava dei pantaloni blu, una camicia da lavoro dello stesso colore, e sandali senza calzini. Era ammanettato ed incatenato. Riley non lo vedeva da anni. Durante il suo breve periodo da serial killer, l’uomo aveva sfoggiato capelli lunghi e ribelli, una barba disordinata, un look da bohémien che si addiceva ad un artista da marciapiede. Ora, invece, era ben rasato e aveva un aspetto ordinario.

Sebbene non si fosse ribellato, appariva spaventato.

Bene, pensò Riley.

L’uomo osservò la lettiga per un attimo, poi distolse gli occhi. Sembrava che stesse cercando di non guardare la tenda di plastica blu, posta sopra alla lettiga. Per un momento, rimase a fissare il vetro, dietro cui si trovava il pubblico che assisteva. Improvvisamente, apparve più calmo e più controllato.

“Vorrei che potesse vederci” mormorò Gail.

Non era possibile che l’uomo li vedesse, dietro a quel particolare vetro che consentiva di guardare solo in una direzione, e Riley non condivise il desiderio di Gail. Caldwell l’aveva già guardata fin troppo da vicino per i suoi gusti. Per catturarlo, era andata sotto copertura. Si era finta una turista sulla Dunes Beach Boardwalk, e gli aveva chiesto di farle un ritratto. Mentre lavorava, l’aveva riempita di complimenti fioriti, dicendole che era la donna più bella che avesse mai disegnato dopo tanto tempo.

Allora, aveva compreso subito che sarebbe stata la sua prossima vittima. Quella sera, gli aveva fatto da esca, per farlo uscire allo scoperto, facendosi seguire fino alla spiaggia. Quando aveva provato ad attaccarla, gli agenti di scorta non avevano avuto difficoltà a catturarlo.

La sua cattura era stata semplice. La scoperta di come aveva sezionato le sue vittime, per poi tenerle nel suo congelatore, era stata un’altra questione. Assistere all’apertura del freezer era stato uno dei momenti più strazianti della carriera di Riley. Lei provava ancora compassione per le famiglie delle vittime — e per Gail tra loro — che avevano dovuto identificare mogli, figlie, sorelle smembrate.

 

“Troppo bella per vivere” quel mostro aveva detto di ognuna di loro.

Riley era rimasta scioccata dal fatto di essere stata una delle donne che lui aveva visto in quel modo. Non si era mai giudicata bella, e gli uomini, compreso il suo ex marito Ryan, raramente le avevano detto che lo era. Caldwell era una cruda ed orribile eccezione.

Che cosa significava, si chiese lei, che un mostro psicopatico l’avesse trovata così bella? Aveva riconosciuto qualcosa, dentro di lei, mostruosa quanto lui? Per un paio d’anni dopo il processo e la condanna dell’uomo, Riley aveva avuto incubi sui suoi occhi pieni di ammirazione, sulle sue parole smielate e sul suo congelatore, pieno di parti di corpi.

La squadra addetta all’esecuzione fece stendere Caldwell sulla lettiga, gli tolse le manette, le catene, i sandali e lo legò con delle cinghie di pelle: due intorno al petto, due alle gambe, altrettante alle caviglie e ai polsi. I piedi nudi furono rivolti verso il vetro. Era difficile vedergli il viso.

Di colpo le tende si chiusero, oscurando il vetro che dava sulla sala dell’esecuzione.

Riley immaginò che servisse a mantenere riservata la fase dell’esecuzione vera e propria, durante la quale qualcosa poteva (con una certa probabilità) andare storto: ad esempio, poteva essere difficile trovare una vena adatta. Ma, a parte tutto, le parve strano. Alle persone presenti nelle due apposite stanze era consentito di assistere all’esecuzione di Caldwell, ma non era loro permesso di vedere il banale inserimento degli aghi. Le tende oscillarono leggermente, forse mosse da uno degli addetti, mentre si spostava dall’altra parte della stanza.

Quando le tende si riaprirono, le quattro flebo erano al suo posto, collegate alle braccia del prigioniero attraverso i buchi nelle tende di plastica blu. Alcuni degli addetti all’esecuzione si erano ritirati dietro quelle tende, dove avrebbero somministrato la dose letale.

Un uomo tenne il ricevitore del telefono rosso, pronto a ricevere una telefonata che, senza dubbio, non sarebbe mai arrivata. Un altro parlava con Caldwell e le sue parole erano a malapena udibili, attraverso l’inefficiente sistema sonoro: stava chiedendo al condannato se intendeva dire qualcosa per l’ultima volta.

La risposta di Caldwell giunse con una sorprendente chiarezza.

“L’Agente Paige è qui?” chiese.

Quelle parole fecero trasalire Riley.

Non vi fu alcuna risposta. Caldwell aveva alcun diritto a ricevere una risposta.

Dopo un teso silenzio, Caldwell riprese a parlare.

“Dica all’Agente Paige che vorrei che la mia arte avesse potuto renderle giustizia.”

Sebbene Riley non riuscisse a vedere chiaramente il suo viso, le sembrò di sentirlo ridere sommessamente.

“E’ tutto” l’uomo aggiunse. “Sono pronto.”

Riley fu inondata da rabbia, orrore e confusione. Questa era l’ultima cosa che si sarebbe aspettata. Derrick Caldwell aveva scelto di dedicare solo a lei gli ultimi momenti di vita. E seduta lì, dietro a quel vetro indistruttibile, lei non poteva farci assolutamente niente.

Lo aveva consegnato alla giustizia, ma, alla fine, quel mostro si era preso uno strano, malato tipo di vendetta.

Sentì la piccola mano di Gail stringere la sua.

Buon Dio, Riley pensò. Mi sta confortando.

Riley fu colta da nausea.

Caldwell aggiunse un’altra cosa.

“Sentirò quando comincia?”

Ancora una volta, non ricevette alcuna risposta. Riley poté vedere il fluido spostarsi attraverso i tubi trasparenti delle flebo. Caldwell fece diversi altri respiri e parve addormentarsi. Il suo piede sinistro si contorse un paio di volte, poi si fermò.

Dopo un istante, una delle guardie pizzicò entrambi i piedi, e non ottenne alcuna reazione. Sembrò uno strano gesto. Ma Riley si rese conto che la guardia si stava assicurando che il sedativo stesse facendo effetto, e che Caldwell fosse totalmente privo di sensi.

La guardia si rivolse alle persone dietro alla tenda, senza che potesse sentirsi la sua voce. Riley vide un nuovo flusso di liquido passare attraverso i tubi della flebo. Sapeva che quella seconda sostanza gli avrebbe fermato i polmoni. Nell’arco di pochi minuti, una terza sostanza gli avrebbe fermato il cuore.

Mentre il respiro di Caldwell rallentava, Riley si trovò a riflettere su quello cui stava assistendo. In quale modo questa condanna era diversa dalle volte in cui aveva ucciso lei stessa? Nel compimento del suo dovere, infatti, aveva ucciso diversi assassini.

Ma questa non era affatto come le altre morti. In confronto, era controllata, pulita, distaccata, immacolata, in modo bizzarro. Sembrava inspiegabilmente sbagliata. Riley si trovò a pensare …

Non avrei dovuto permettere che questo accadesse.

Sapeva di sbagliarsi, che aveva gestito l’apprensione di Caldwell professionalmente, e come da manuale. Ma, nonostante questo, pensava …

Avrei dovuto ucciderlo io stessa.

Gail strinse forte la mano di Riley per dieci lunghi minuti. Infine, il funzionario accanto a Caldwell disse qualcosa che Riley non riuscì a sentire.

Il direttore della prigione emerse da dietro la tenda, e parlò con una voce abbastanza chiara da essere compresa da tutti i testimoni.

“La sentenza è stata portata a termine con successo alle 9:07.”

Poi, le tende si chiusero di nuovo dall’altra parte del vetro. I testimoni avevano visto tutto quello che c’era da vedere. Le guardie entrarono nella stanza, e invitarono tutti ad andarsene il più in fretta possibile.

Mentre il gruppo defluiva nel corridoio, Gail strinse di nuovo la mano di Riley.

“Mi dispiace per quello che ha detto” Gail le disse.

Riley fu colpita dal pensiero di Gail, che si preoccupava per lei in un momento del genere, quando finalmente giustizia era stata fatta nei confronti dell’assassino di sua figlia.

“Come stai, Gail?” chiese, mentre s’incamminavano rapidamente verso l’uscita.

La donna proseguì in silenzio per un momento. La sua espressione sembrava completamente vuota.

“E’ fatta” disse infine, con voce fredda e distaccata. “E’ fatta.”

In un istante, si ritrovarono fuori, alla luce del giorno. Riley notò due gruppi di persone dall’altra parte della strada, separati gli uni dagli altri e ben controllati dalla polizia. Da una parte si erano riuniti coloro che erano favorevoli all’esecuzione ed esibivano cartelloni con frasi d’odio, alcune delle quali profane ed oscene. Erano indubbiamente contenti. D’altra parte invece, c’erano le persone che protestavano contro la pena di morte, con i propri cartelloni. Erano stati lì fuori per tutta la notte, facendo una veglia con le candele. Erano molto più silenziose.

Riley si rese conto di non provare simpatia per nessuno dei due gruppi. Quelle persone erano lì per se stesse, per mostrare pubblicamente il proprio sdegno e la propria rettitudine, indugiando sul proprio ego. Per Riley era sbagliato che fossero lì, tra persone il cui dolore e la cui disperazione erano fin troppo reali.

Nello spazio tra l’ingresso della prigione e i manifestanti stazionavano gruppi di cronisti, con i rispettivi furgoni televisivi fermi nelle vicinanze. Mentre Riley si faceva largo tra di essi, una donna le si avvicinò bruscamente con un microfono e un cameraman dietro di lei.

“Agente Paige? E’ lei l’Agente Paige?” chiese.

Riley non rispose e provò ad allontanarsi dalla giornalista, che, però, si ostinò a seguirla. “Sappiamo che Caldwell l’ha menzionata nelle sue ultime parole. Potrebbe rilasciarci una dichiarazione?”

Altri giornalisti le si avvicinarono, ponendole la medesima domanda. Riley serrò i denti e si fece largo nel bel mezzo della folla, riuscendo a venirne fuori.