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La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I

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Queste parole e le altre che parvero di colore oscuro, scritte nel proclama di Moncalieri, agitarono profondamente gli animi già agitati di quel tempo: che si voleva? che si chiedeva? che si minacciava? Poichè ormai si comincia anche fra noi a formare una leggenda intorno agli avvenimenti primordiali del risorgimento nostro, dice codesta leggenda che l'effetto del proclama di Moncalieri sarebbe stato grande e fulmineo. Le testimonianze che si possono raccogliere affermano invece il contrario: fu uno stupore, ma non si ebbe una vittoria immediata. Anzi venne la vittoria, quando lo stupore cessò e la gente incominciò a ragionare: a poco a poco si comprese che si era veramente giunti sull'orlo del precipizio, e che bisognava prontamente, energicamente ritirarsi: si comprese che il Re, pure iniziando un grande movimento di conservazione, rimetteva alla coscienza del popolo il giudizio intorno alla condotta del governo e la deliberazione intorno alle sorti dello Stato. E il popolo, che incominciava ad amare il Re finalmente lo intese e come doveva rispose.

La nuova Camera sorse appunto colla missione di chiudere la triste istoria del passato e di preparare il futuro. Si era salvi: e la salvezza parve opera della Nazione ed era. Ma chi aveva guidato la Nazione, chi aveva eletta la buona via in momenti supremi d'angoscia, chi aveva creduto quando nessuno più credeva, chi non aveva disperato mentre tutti disperavano?

Tale il primo periodo fortunoso e tempestoso d'un Regno, cui il destino apparecchiava tante glorie e tanti trionfi: pure è illuminato da una poesia triste e virile, e se poi, per effetto di grandi avvenimenti, il Re parve più grande, mai fu grande veramente come in questi primi istanti di cimento e di pericolo, nei quali fu mestieri che il giovane principe dimostrasse tutta quella costanza, tutta quella fermezza, tutta quella lucida conoscenza e degli uomini e delle cose che solamente gli anni e le prove e l'esperienze e anche gli errori insegnano, ma che in lui, per fortuna della nostra patria, erano natura.

* * *

Da allora in poi cominciarono tempi nuovi: fu una vigilia operosa, lieta, fortunata, nè la storia conosce sin qui un periodo che le si possa paragonare pur da lontano: il piccolo Regno trascorre da audacia in audacia, sorgono nello Stato intelletti poderosi, anime gagliarde, si preparano e si compiono gesta meravigliose; il Re subalpino, il parlamento subalpino diventano l'oggetto dell'attenzione sempre crescente, dell'ammirazione di tutta Europa: si aspetta, si teme, si spera dovunque alla vigilia d'un discorso della Corona: le parole che pronunziano alla tribuna Massimo d'Azeglio o Camillo di Cavour, provocano le polemiche della stampa, i dibattiti delle altre assemblee, le manovre della diplomazia, i raggiri delle Corti, le dimostrazioni dei popoli, le note, le proteste, le lodi, gl'inni, gli entusiasmi, i biasimi, i rancori, le paure. Il duello che incomincia fra lo Stato piemontese che assume il diritto di parlare in nome d'Italia al cospetto di tutti i popoli, e l'Austria possente d'armi, orgogliosa di vittorie, ordinata mirabilmente come strumento di minaccia e di repressione, diventa lo spettacolo più drammatico e più bello che si sia mai rappresentato sulla scena del mondo. Formidabile partita, formidabile in quanto le forze sono enormemente sproporzionate, in quanto, ad ogni tratto, uno degli avversari pare stia per rovesciarsi contro l'altro per distruggerlo, per schiacciarlo, mentre quello che pare più debole non cede mai, anzi provoca ed offende e colpisce. Pare il Piemonte si faccia ad ogni istante più forte e più temerario, nel fervore e nell'emozione della lotta: un'aura di poesia e di giovinezza avvolge tutta la politica, sono parole vibranti, sono atti virili, sono promesse e sorrisi. Sintetizzate le immagini di quel tempo, e non vedrete che un ondeggiare festoso di bandiere al vento e sotto il sole, e non udrete che plausi ed acclamazioni frenetiche di gioia, mentre fra i silenzi profondi delle altre regioni italiane, tutti si volgono tacitamente sperando verso la Reggia di Torino e salutano e aspettano.

Innanzi a tutti è il Re, il Re popolare, il Re cacciatore, il Re soldato, il Re giovane e robusto, il Re che scende fra la folla, parla e scherza nel dialetto nativo, sale sulle vette ardue delle patrie montagne, diventa l'idolo dei pastori e dei contadini, com'è l'idolo dei soldati e degli operai. È Re sul trono, talvolta severo, talvolta terribile, e il suo sguardo sdegnato è di quelli che non si possono sopportare: ma più spesso, colla bontà e colla schiettezza dei modi e delle parole avvince i cuori, persuade le coscienze, supera gli ostacoli, appiana le difficoltà, rompe gl'indugi, fa tutto quello che vuole. Il ministro ch'egli ama, di cui si fa l'amico e il compagno, è Massimo d'Azeglio. «Ciao, Massimo…» gli dice o gli scrive: lo ha avuto al suo fianco nei gravissimi giorni delle prime prove, lo vorrebbe sempre al suo fianco, cavalleresco, spiritoso, esperto della vita, spregiatore d'ogni cosa volgare, spregiatore (e quanto!) del denaro, galante colle signore, anima di soldato, che si mette a capo della forza armata, vestito da colonnello di cavalleria per reprimere una dimostrazione tumultuosa. Vede sorgere Camillo di Cavour e pone sull'avviso l'amico: l'empio rivale, come lo chiamerà poi il d'Azeglio, batte alla porta: «Non è il suo tempo, verrà il suo tempo» dice il Re, e quando il d'Azeglio lo propone a lui, consenzienti gli altri ministri, come ministro di Agricoltura e Commercio, il Re dice ai suoi consiglieri: «Giacché lor signori lo vogliono, non ho difficoltà a nominarlo, ma questo signore li manderà via tutti.» Si divide con rincrescimento e dopo molta riluttanza dal d'Azeglio, che lo aveva battezzato Re galantuomo. – Massimo gli disse un giorno: «Ve ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie.» E il Re gli chiede: «Ho da fare il Re galantuomo?» Massimo soggiunse: «Vostra Maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all'Italia, non al Piemonte; continuiamo di questo passo a tener per fermo che, a questo mondo, tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola e che a quella si deve stare.» Il Re pensa un istante, e poi dice risoluto: «Ebbene, il mestiere mi par facile.» E Massimo afferma lietamente: «Abbiamo il Re galantuomo.»

Ma Camillo di Cavour, col favore anche di una certa indolenza, di un certo signorile scetticismo che governavano il d'Azeglio, specialmente nelle faccende d'ogni giorno, era diventato tutto: da ministro di Agricoltura e Commercio, ministro delle Finanze e reggeva di fatto la presidenza del Consiglio. Mentre il d'Azeglio parlava di rado e di mala voglia e di rado correva alla pronta risoluzione d'un dibattito, il Cavour sempre stava sulla breccia e d'ogni questione indovinava l'aspetto politico e sopra ogni questione esprimeva quello che gli altri credevano il pensiero del gabinetto e in realtà era pensiero suo e suo solamente: i colleghi lo ascoltavano prima meravigliati, poi impacciati, e in fine non osavano ribellarsi e accettavano ogni cosa; spirito indemoniato, infaticabile, provvedeva a tutte le combinazioni della politica, a tutte le necessità d'ordine parlamentare, cercando, finché gli riusciva, di procedere di conserva cogli altri ministri, ma spesso facendo a suo modo, con una scioltezza e una strana libertà di azione, che facevano di lui il collega pili simpatico e insieme più incomodo che fosse al mondo.

La sua ora s'avvicinava veramente, anzi era di già suonata, e il Re comprese a tempo che l'uomo era necessario a lui, al Piemonte, all'Italia. E gli serbò inalterata fiducia sino all'armistizio di Villafranca. Camillo di Cavour circondava il Re d'un rispetto profondo, e, così grande com'era, desiderava piuttosto apparire l'inspirato che l'inspiratore ed anche in questo, come in tutto, riusciva. Certo è che talvolta gli prendeva la mano quel suo temperamento passionale e le parole correvano a fiotti e s'agitava e fremeva, e, distratto per eccellenza, d'ogni cosa si dimenticava, anche di alcune regole elementari di etichetta: ma sotto lo sguardo fiero ed ardente del Re subito si vinceva, e si rammentava che il Re era la prima e fondamentale condizione della sua politica.

E che cosa fosse veramente il Re mostrarono le lotte fra lo Stato e la Chiesa, che talvolta ebbero un'acutezza quasi inesplicabile per noi: la Corte vaticana non voleva tollerare in Piemonte quello che sopportava tranquillamente, anzi riconosceva in tutti gli altri Stati civili: non voleva sapere nè di abolizione di foro ecclesiastico, nè di matrimonio civile, nè di soppressione di corporazioni religiose; e la coscienza cristiana del Re soffriva fieri assalti; s'agitavano nell'ombra confessori e prelati, si minacciavano scomuniche, le pie regine supplicavano «Ma mère et ma femme» scriveva il Re «me font dire qu'elles se meurent de chagrin à cause de moi: vous comprenez le plaisir que cela me fait.» E muoiono a pochi giorni di distanza e muore il duca di Genova, il forte capitano che pareva predestinato a condurci alla vittoria: quanti di noi hanno amato e sofferto possono comprendere che grandezza d'animo era necessaria per resistere a così terribili e replicati colpi del destino e trionfarne, mentre bugiardi sacerdoti osavano dire che questi erano castighi di Dio! Ma altro Dio era quello di Vittorio Emanuele, Dio di giustizia e di verità, di cui adorava i decreti, sempre ascoltando l'austera voce del dovere che gli favellava nell'animo. Anche questa volta vinse, anche questa prova vinse, e con lui fu vittorioso Camillo di Cavour, l'inspiratore e l'autore della grande politica nazionale e liberale, che tanto innalzava il Piemonte al cospetto d'Europa.

E vennero i giorni di Crimea, le vittorie militari, i marziali eroismi, la causa d'Italia per la prima volta sostenuta in faccia ai rappresentanti delle potenze di questo mondo, in faccia al rappresentante dell'Austria dalla parola del grande ministro: avemmo un esercito, un'amministrazione, una diplomazia, fiorirono industrie e commerci, s'iniziarono opere gigantesche, quali il traforo del Cenisio e l'arsenale di Spezia, si preparò e si ottenne la guerra all'Austria coli' alleanza francese. Il Re annunzia di non essere insensibile al grido di dolore che d'ogni parto d'Italia si leva verso di lui, e, quando l'ora sta per suonare, ritraendosi Napoleone III dalle sue promesse per maligno influsso di cortigiani e per naturale e quasi morbosa incertezza d'animo, egli grida che farà come suo padre e rinunzierà alla corona e diventerà puramente e semplicemente Monsù Savoia e diventerà repubblicano. Finalmente l'Austria commette lo sperato errore, e dopo lunga provocazione provoca a sua volta noi. Il feldmaresciallo Giulay, duce supremo dell'esercito austriaco in Italia, manda alle sue milizie un ordine del giorno ove questo si legge:

 

«L'imperatore vi ha chiamati sotto le armi onde abbassare per la terza volta l'albagia del Piemonte e snidare dal loro covo i fanatici sovvertitori della quiete generale d'Europa.»

E il Re scrive al Cavour:

«Caro Cavour,

«L'ordine del giorno è una vera dichiarazione di guerra. Credo che di conferenze non si discorrerà più. Sono pieno d'ira! La prego di mandare in mio nome un dispaccio cifrato al principe Napoleone così concepito: Ti comunico l'ordine del giorno dato all'esercito austriaco dall'Imperatore: fa' le opportune riflessioni. Caro Cavour, mi scriva qualche cosa. Vorrei fare le cannonate questa sera.»

E giungono a Torino gl'inviati austriaci coll'ultimatum: la Camera si riunisce in tornata straordinaria, il Cavour propone siano dati al Re pieni poteri. Con un impeto, notato nelle pagine del resoconto ufficiale, ma di cui a tant'anni di distanza, indoviniamo tutta la potenza, tutta la commozione, l'uomo immortale esclama: «E chi, chi può essere miglior custode della nostra libertà? Chi più degno di questa prova di fiducia della Nazione? Egli, il cui nome dieci anni di regno fecero sinonimo di lealtà e d'onore, egli che tenne sempre alto e fermo il vessillo tricolore italiano, egli che ora si apparecchia a combattere per la libertà e per la indipendenza!» E uscendo dal palazzo Carignano, traversando la folla che gridava freneticamente «Viva il Re!» disse: «Esco dall'ultima tornata dall'ultima Camera piemontese, la prossima sarà quella della Camera del Regno d'Italia.»

E il Re tornò soldato e lo videro lanciarsi a Palestro sulle schiere austriache, invano rattenuto dagli zuavi francesi, e lo videro a San Martino guidare le nostre fanterie all'ultimo cimento. A Villafranca tutto parve perduto: Cavour si ritrasse pieno di sdegno e d'amarezza, egli restò al suo posto, fidente nella stella che i suoi avi avevano atteso, e che suo padre aveva salutato fra i martirii e le speranze. Lo videro poi trionfante le città della penisola, Milano, Parma, Modena e questa gloriosa Firenze e poi Napoli immensa e Palermo ridentissima: e mentre, promessa del destino, aspettavano Venezia e Roma, il parlamento italiano lo consacrava Re d'Italia.

* * *

Questo, dirò ancora una volta, è finora il capitolo più bello della nostra storia: nulla è mancato a noi: nè il genio degli statisti, nè la virtù dei guerrieri, nè la sapienza civile, nè la maravigliosa concordia, nè il trionfo rapido, insperato, grandioso. Lo aveva divinato nelle stupende pagine del Rinnovamento Vincenzo Gioberti, lo aveva compreso Daniele Manin convertito, mentre la sventura lo assaliva e non l'opprimeva, alla fede nella monarchia nazionale; lo aveva intuito Giuseppe Garibaldi che innalzò il grido «Italia e Vittorio Emanuele» col quale si è ricostituita la patria. Fu un grande capitolo: e di fronte a questo, gli altri appaiono o scialbi piccoli o cattivi. Tutte l'energie che l'Italia aveva accumulate in secoli di dolore si sprigionarono d'un tratto, e sorse un'Italia che nessuno conosceva. Ma tutto il capitolo rimarrebbe inesplicato, ove non apparisse il protagonista, l'eroe che seppe e volle, che sperò per tutti, che soffrì per tutti, che vinse per tutti. Gli altri grandi principi fondarono Stati: egli fondò una Nazione: ecco la parola della sua gloria: ecco perchè questa gloria è immortale.