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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

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IL VAPORE E LE SUE APPLICAZIONI

CONFERENZA
DI
GIUSEPPE COLOMBO

Due anni sono, invitato a parlarvi di Volta e delle scoperte scientifiche che illustrarono la fine del XVIII secolo e il principio dell'attuale, vi ho detto che quel periodo storico fu segnalato da due grandi avvenimenti, i quali dovevano produrre nelle condizioni economiche e sociali di tutto il mondo la più grande rivoluzione che la storia abbia registrato finora. Questi avvenimenti furono la scoperta della pila, dovuta a Volta, e l'invenzione della macchina a vapore, dovuta a Watt. Dell'una ho avuto l'onore di intrattenervi due anni fa; dell'altra, e delle sue prime applicazioni in Italia, ho la fortuna di potervi parlare quest'oggi.

È la macchina a vapore che ha creato l'industria moderna. Lo scozzese Watt, trovando la prima soluzione pratica del problema di convertire il calore in forza, ha aperto all'attività dell'uomo un orizzonte sconfinato, verso il quale l'umanità si è slanciata con tanto ardore, che oggi il pensatore ha diritto di domandarsi se non si sia battuta una falsa strada e se l'invenzione della macchina a vapore si possa veramente dire, dal punto di vista sociale, un beneficio.

Non è un paradosso l'enunciazione di un simile dubbio. Certo la macchina a vapore ha prodotto un mutamento profondo nella vita sociale e individuale; ha permesso di creare immense ricchezze, ha soppresso le distanze, ha messo a disposizione dell'uomo mille nuove risorse che gli possono render facile e aggradevole la vita; ma ha anche moltiplicato la popolazione, e ha moltiplicati i suoi bisogni. Ormai presso i popoli civili il problema supremo è di continuare a produrre indefinitamente, e a cercare senza posa nuovi consumatori, sotto pena di soccombere sotto la concorrenza e di piombare nella disoccupazione e nella miseria. Se la felicità umana risiede nell'equilibrio fra i bisogni e i mezzi di soddisfarli, è molto dubbio se l'individuo si trovi più felice ora in mezzo a tanto progresso, che ai tempi antichi, quando non esisteva la grande industria, e non si conoscevano nè le macchine a vapore, nè le ferrovie.

La grande industria, come si svolse in questo secolo dopo l'invenzione della macchina a vapore, non esisteva presso gli antichi. C'erano, è vero, manifatture fiorenti, i cui prodotti erano conosciuti e consumati anche a grande distanza, come le ceramiche e le gioiellerie fenicie ed etrusche, i vasi di Egina e di Samo, i ricami frigi, le stoffe d'Egitto; gli studi fatti sugli avanzi dell'antica Falleri, così ben ordinati e raccolti a Roma nel Museo di Papa Giulio, mostrano chiaramente l'esistenza di questo movimento commerciale, e l'influenza dei prodotti importati sullo sviluppo delle industrie locali. Erano prodotti fabbricati a mano, col sussidio di utensili la cui forma ci è trasmessa sino ad oggi, e di quelle poche macchine che l'antichità conosceva e la cui origine si perde nella notte dei tempi. Il trapano è descritto nell'Odissea, ma rimonta certo all'epoca in cui si faceva il fuoco col metodo ancora in uso presso le popolazioni primitive, premendo un pezzo di legno appuntito contro un legno piano, e facendolo girare rapidamente fra le mani come un frullino; i vasi torniti di alabastro e di serpentino provenienti dall'Egitto, che si trovano nel museo di Berlino, dimostrano che 2 o 3 mila anni avanti Cristo si conosceva l'uso del tornio; come le fusarole di pietra o d'argilla e i tessuti trovati nelle palafitte fanno testimonianza dei mezzi meccanici, già quasi perfetti, dei quali disponeva l'industria tessile preistorica. Ma si trattava sempre di industria domestica, press'a poco come quella che esisteva nel Giappone prima che vi penetrasse la civiltà europea; e siccome non vi si impiegava altra forza che quella dell'uomo o al più degli animali, così la produzione non poteva essere che assai limitata.

La grande industria non poteva nascere che colla possibilità di disporre delle forze naturali, come quella delle cadute d'acqua e del vapore. L'antichità lo intravide. Un inventore, rimasto sconosciuto, sostituì pel primo, alcune centinaia di anni avanti l'èra volgare, la forza dell'acqua a quella dell'uomo per la macinazione del grano, e forse per la lavorazione del ferro e del rame; e 120 anni avanti Cristo, un filosofo della scuola alessandrina ebbe la prima idea della forza del vapore, quando immaginò la celebre eolipila, che ancor oggi, a 20 secoli di distanza, si trova in tutti i gabinetti di fisica.

Ma i tempi non eran maturi. La ruota idraulica, cui il poeta greco Antiparo inneggiava come all'invenzione che doveva risparmiare il lavoro alle schiave, rimase fin quasi alla fine dello scorso secolo un motore pressochè esclusivamente limitato, come nell'antichità, alle fucine e ai molini; e l'eolipila restò quella che era ai tempi di Erone, cioè un giocattolo scientifico.

Per spiegare questa lunga inazione, bisogna rammentare innanzi tutto la grande catastrofe delle immigrazioni dei barbari, che travolse, colla caduta dell'impero romano, tutto l'antico organismo sociale. Per qualche tempo, durante il dominio arabo in Europa, l'indagine scientifica si ravviva; ma la scuola d'Aristotile e i sofismi della scolastica immobilizzano e sterilizzano ben presto lo spirito umano. Finalmente, dopo lunghi secoli di oscurità, la scienza trova la sua vera base con Galileo, e può ormai procedere senza vincoli alla ricerca del vero. Colla scuola di Galileo, quando l'enunciazione delle leggi della caduta dei gravi fu il raggio di luce che squarciò le nebbie scolastiche diffuse su tutte le scienze, comincia il metodo di osservazione; ed è appunto coi suoi primi passi che si connette l'invenzione della macchina a vapore.

Per qualche tempo ancora, lo spirito inventivo erra nel vago e nell'indeterminato. Non si possono dimenticare ad un tratto i vecchi errori. La fisica si perde ancora nelle sottigliezze della scolastica; si scrivono volumi per trovare le cause della distruzione del vitello d'oro, o per indagare quante migliaia d'angeli potrebbero stare sulla punta di uno spillo. Fu quella dal 1600 al 1650, l'epoca delle sterili elucubrazioni di Branca in Italia, di De Caus in Francia, e del marchese di Worcester in Inghilterra, tutti più o meno direttamente ispirati dalla Spiritalia di Erone, i quali a torto furono indicati come i precursori dell'inventore della macchina a vapore.

Ma un allievo di Galileo, il Torricelli, dimostra l'esistenza della pressione dell'atmosfera, e ne dà la misura, invano osteggiato dalla vecchia scuola che vorrebbe salvare l'orrore del vuoto e la scienza in parrucca, minacciata dalla fondamenta. Pascal aggiunge altre dimostrazioni di questa pressione; Otto von Guericke inventa a Magdeburgo la macchina pneumatica e mostra con quanta forza agisca la pressione dell'aria sulla parete di un recipiente in cui si faccia il vuoto; ed ecco Papin, il quale, partendo dalla conoscenza di questa forza, si propone di utilizzarla, e usa del vapore per la prima volta per produrre il vuoto, condensandolo con aspersioni di acqua fredda; e poi Savery che ne usa diversamente per sollevare l'acqua dalle miniere di carbone, facendo premere direttamente il vapore sull'acqua da sollevare. Siamo al 1700.

Da questo momento la storia dell'invenzione della macchina a vapore diventa interessantissima, e io vorrei raccontarvela in dettaglio, se ne avessi il tempo. In meno di un secolo, la macchina a vapore moderna è inventata. Dapprima Newcomen e Cowley, un fabbro e un vetraio, si uniscono a Savery e perfezionano la macchina di Papin in guisa che quasi tutti i proprietari di miniere di carbon fossile dell'Inghilterra l'adottano come pompa a fuoco per prosciugare le gallerie sotterranee. Siamo al 1750.

Il fisico Black scopre a Glasgow il calore latente del vapore. Fra i suoi allievi c'è un giovane apprendista di genio, Giacomo Watt, che prende in esame le macchine esistenti, le trasforma radicalmente e ne fa uscire, verso il 1770, la macchina a vapore perfetta quale la vediamo tuttora. Nulla di veramente essenziale vi è stato aggiunto da quell'epoca ad oggi.

Voi sapete quali ne sieno i lineamenti caratteristici. Si mette dell'acqua in una gran caldaia chiusa, e la si riscalda finchè l'acqua comincia a bollire e vaporizzare. Di mano in mano che l'acqua si converte in vapore, la pressione interna dovuta alla forza del vapore, cresce rapidamente e potrebbe anche far scoppiare la caldaia, se questa non fosse robusta e non avesse una valvola di sicurezza. È questa, in sostanza, la famosa pentola di Papin. Allora si apre la comunicazione fra la caldaia e la macchina. Il vapore, giunto nel cilindro della macchina, spinge davanti a se una parete mobile, detta lo stantuffo, il quale è veramente l'organo motore e trasmette poi il movimento a tutte le macchine che si tratta di fare agire.

È così che lo descrive il poeta Zanella nel suo carme sull'industria:

 
… somigliante a domo
Chiuso Titano, cento rote e cento
Volve il vapor, che dall'assiduo stento
Francheggia l'uomo.
 

Esercitata così la sua azione, il vapore viene condensato con dell'acqua fredda, si riduce così ancora in acqua, lasciando il vuoto dietro di sè; e in questo stato d'acqua è ricondotto in caldaia. E adunque un ciclo, come si dice, quello che si compie: cioè è la stessa quantità d'acqua che alternativamente vaporizzata e poi condensata fornisce la forza alla macchina.

Questo risultato finale, cioè la forza della macchina, o, per dir meglio, il lavoro che compie, sia sollevando dei carichi o macinando del grano o lavorando il ferro o movendo un bastimento o un convoglio, ossia facendo un trasporto o una trasformazione qualsiasi della materia, si ottiene bruciando del carbon fossile o un altro combustibile qualunque: si ottiene, cioè, consumando calore. Quindi la macchina a vapore è un mezzo per trasformare calore in lavoro.

 

Vedremo più avanti di farci un'idea più chiara e più completa dì questa trasformazione. Ma per ora soffermiamoci alcuni istanti a esaminare le prove e le più importanti applicazioni della macchina a vapore, che si sieno fatte in Italia nel periodo storico cui si riferisce questa serie di conferenze.

In Inghilterra, lo abbiamo visto, la macchina a vapore non era ancora perfetta, che già trovavasi impiegata per il prosciugamento delle miniere di carbone. Poi il suo uso si estese all'elevazione dell'acqua per diversi altri scopi; ed è anzi da un'applicazione di questo genere alla birreria Whitebread di Londra che nacque la denominazione, diventata poi così comune, di cavallo-vapore per designare la forza delle macchine; poichè la macchina a vapore doveva ivi, come altrove, surrogare il lavoro di un certo numero di quei poderosi cavalli da birrai, così celebri per la loro forza, pressochè doppia di quella dei cavalli comuni. Ma in breve tempo se ne impadronivano pure l'industria tessile, e poi le altre industrie; e così, potendosi disporre, colla macchina a vapore, di forze enormi e quasi illimitate, l'industria casalinga cominciò a cedere il posto alla grande industria esercitata negli opifici.

È difficile di accertare con precisione l'epoca nella quale la macchina a vapore cominciò a penetrare in Italia a servizio dell'industria. Prima del 1830 esistevano certo degli stabilimenti industriali in Italia, ma erano scarsi e mossi tutti dall'acqua. Probabilmente uno dei primi motori a vapore, se non il primo, fu quello applicato nel 1832 alla raffineria di zuccheri Azimonti e Conti di Milano. Certo, ancora nel 1839, secondo ne scrisse Carlo Cattaneo, le macchine a vapore in Lombardia si contavano sulle dita. Nel 1838 il barone Testa fece il primo impianto a vapore per la bonifica di Brondolo su quel di Chioggia con macchine che erano destinate al lago di Garda, e nel 1840 fu fatto funzionare il primo molino a vapore di Bougleux a Livorno, con carbone di Montebamboli. Da allora in poi anche da noi l'industria si svolse sempre più largamente col sussidio di macchine a vapore, per lo più importate dall'estero, finchè per l'opera d'un grande industriale, l'ingegner Tosi, che una mano scellerata sospinse innanzi tempo alla tomba, l'Italia potè per la prima volta non soltanto fornire a sè stessa i motori a vapore, ma farsene esportatrice.

Più che nel campo industriale è facile accertare le date delle prime applicazioni del vapore fatte in Italia per la navigazione e le ferrovie.

La storia della navigazione a vapore è ricca di incidenti. L'americano Fulton lancia nel 1803 un battello a ruote sulla Senna, ma non trovando appoggio in Napoleone, che lo crede un avventuriero, torna in America e inaugura il 10 agosto 1807 un servizio regolare a vapore sulla East River fra New York e Albany. Nel 1816 l'Elise, un battellino a vapore di soli 16 metri di lunghezza, traversa pel primo la Manica, malgrado una tempesta furiosa, in 17 ore; nel 1819 il Savannah di 380 tonnellate traversa l'Atlantico da New York a Liverpool, parte a vela e parte a vapore, in 25 giorni; nel 1825 l'Enterprise fa il primo viaggio alle Indie. Ma la vera navigazione transatlantica non comincia che colla famosa gara del Sirius e del Great Western. Il 5 aprile 1838 il Sirius di 700 tonnellate e 320 cavalli salpa da Cork; tre giorni dopo salpa da Bristol il Great Western di 1340 tonnellate e 450 cavalli, e ambedue arrivano a New York il '23, salutati dai cannoni e dalle campane e da migliaia di imbarcazioni festanti. Le stesse gare si fanno ancora oggi fra i vapori delle grandi Compagnie transatlantiche; ma ora si tratta di vapori di 20 a 30 mila cavalli, capaci di 3 a 4 mila passeggeri, e la traversata di 3000 miglia si compie ormai dai vapori più veloci in meno di sei giorni, cioè colla velocità di 20 miglia all'ora. E le navi moderne da guerra hanno velocità ancora maggiori, sino a 30 e 35 miglia all'ora.

Le ruotaie esistevano già in Inghilterra alla fine del XVII secolo, prima di legno, poi di ferro, pel trasporto dei carboni fossili; ma le prime macchine datano soltanto dal 1804, e non rappresentano che tentativi mal riusciti. Nel 1815 Giorgio Stephenson, il cui nome rimarrà congiunto alla storia delle ferrovie come quello di Watt a quella delle macchine a vapore, costruisce una prima locomotiva soddisfacente pel servizio merci sul tronco fra Darlington e Stockton; ma la vera locomotiva moderna non nasce che col celebre concorso del 1829 per la linea Manchester-Liverpool, vinto da Giorgio e Roberto Stephenson colla macchina Rocket, che ancora si conserva come ricordo del grande avvenimento. Su quella linea si inaugurò per la prima volta il servizio dei passeggeri. In due anni il dividendo dell'intrapresa sale al 10 %, e comincia una sfrenata speculazione ferroviaria, che fu causa in quel tempo di grandi fortune e anche di grandi disastri.

A quell'epoca le locomotive pesavano poche tonnellate, e rimorchiavano sei od otto carrozze con velocità appena maggiore di quella di un buon cavallo, da 20 a 25 chilometri all'ora; ora si fanno locomotive perfino di 100 tonnellate, rimorchianti convogli di migliaia di tonnellate; e i treni diretti vanno a 90 e 100 e perfino 125 chilometri all'ora.

In Italia le grandi intraprese navali cominciarono tardi; ma la navigazione a vapore fluviale e lacuale si svolse poco più tardi che in Inghilterra. Infatti nel 1819 si varò a Genova il primo battello a vapore l'Eridano, costrutto nelle officine di Watt e destinato a navigare sul Po. Ma l'impresa ben presto fallì, e la macchina dell'Eridano fu messa a bordo di un battello varato a Locarno sul Lago Maggiore nel 1826 col nome di Verbano: e nello stesso anno fu varato il Lario destinato al Lago di Como, cui tennero dietro il Plinio e il Falco, e più tardi il Veloce e il Lariano, per la inaugurazione del quale il nobile Lambertenghi scrisse questi versi, per vero dire poco peregrini:

 
Ve' sublime fra tanto navile
Vasto un legno torreggia signor:
Mai quest'onde solcava un simile
In audacia, vaghezza e lavor.
 

A Napoli toccò il vanto di avere la prima ferrovia costrutta in Italia: quella fra Napoli e Portici, inaugurata solennemente da Ferdinando II il 26 settembre 1839, e aperta all'esercizio il 4 ottobre successivo. La cerimonia d'inaugurazione fu un avvenimento; e come particolare curioso riferisce il De Cesare che la signora Cottrau, la quale aveva preso parte alla corsa inaugurale, si sgravò sul treno, durante il ritorno, d'un bambino, che fu quell'Alfredo Cottrau, il quale doveva tanto illustrarsi in materia di ferrovie.

Fu il Genio militare che costrusse quella linea e poi l'altra fra Napoli, Caserta e Capua, e ne diresse l'esercizio. Il Re stesso ne aveva determinato il tracciamento e fissate le stazioni; di gallerie non ce n'erano perchè ritenute pericolose alla morale pubblica e perchè il Re non voleva pertusi. Quando viaggiava il Re, era lui che dava gli ordini, e il capotreno, stando sul predellino della carrozza reale, li trasmetteva al macchinista. Egli amava la gran velocità e faceva fare in mezz'ora i 32 chilometri fra Napoli e Caserta: ma alla Regina Maria Teresa non garbava correre a rompicollo, e perciò raccomandava al macchinista di andar piano come un somarello.

Benchè si trattasse di linee del governo, e il Re stesso si interessasse dall'esercizio, pure venuto l'uragano del 1848, diventarono anch'esse uno strumento di rivoluzione. Così il De Cesare racconta che il 15 maggio di quell'anno, essendosi dato ordine a due reggimenti di portarsi immediatamente da Capua a Napoli, il capo stazione di Capua, affigliato ai Comitati insurrezionali, mentre si preparavano i treni, fece smontare da un uomo di fiducia un tratto di binario, e partì poi egli stesso col primo treno per evitare un disastro; ma intanto riuscì con questo mezzo a trattenere le truppe per un giorno intero.

Alla linea Napoli-Portici succedette immediatamente quella fra Milano e Monza inaugurata il 13 agosto 1840. Nel 1841 cominciò la costruzione della linea Milano-Venezia, compiuta solo nel 1846. Intanto si apriva in Toscana la linea Livorno-Pisa il 14 marzo 1844 sotto la direzione di Roberto Stephenson; il Piemonte non arrivò che più tardi. nel 1848, col tronco Torino-Moncalieri. Dal 1839 al 1850 in tutta Italia si costrussero circa 600 chilometri di ferrovie; ora ne abbiamo 15,500.

Sono ormai più di cent'anni che la macchina a vapore esiste; ed essa, perfezionandosi sempre più, continua a lottare vigorosamente contro tutti i suoi avversari, macchine ad aria calda, a gas, a petrolio, che tentano, ancora invano, di contenderle il primato, cioè di fornire la forza a un prezzo minore. Ma come si è perfezionata? E come potrebbe perfezionarsi ancora?

Qui entriamo nel cuore della questione della trasformazione di calore in lavoro. E una materia astrusa, forse poco adatta alla parte più gentile del pubblico che mi sta ascoltando; ma ormai al giorno d'oggi si può dire che nessuna questione, anche tecnica, non può nè deve esser straniera alle intelligenze educate.

Come si fa a convertire calore in lavoro nella macchina a vapore? Si prende dell'acqua: le si adduce del calore da una sorgente di calore qual è il combustibile ardente; la si converte così in vapore che compie il lavoro colla grande forza che possiede; poi questo vapore viene ridotto di nuovo in acqua raffreddandolo, cioè sottraendogli calore con un refrigerante, che non è altro che dell'acqua fredda. E questo vapore così ridotto in acqua è pronto a compiere un secondo ciclo, anzi una serie indefinita di cicli simili al primo. In sostanza, si attinge vapore da un corpo caldo, che è il combustibile ardente, e si cede calore a un corpo freddo, che è l'acqua refrigerante. Una parte del calore è così semplicemente trasformata dal corpo caldo al corpo freddo, ma un'altra parte è scomparsa, cioè si è convertita nel lavoro fatto dalla macchina.

Ora, come mai il calore si può convertire in forza e lavoro? Considerate un corpo caldo; orbene: secondo l'ipotesi più probabile, l'impressione di calore che esso produce sul nostro senso del tatto non sarebbe che la comunicazione ai nervi di un movimento rapidissimo di vibrazione delle molecole del corpo caldo. Ciò posto, scaldare dell'acqua ossia comunicarle calore, vuol dire impartire alle sue molecole una rapidissima vibrazione. Quando il calore trasmesso è abbastanza forte, la vibrazione diventa tanto intensa, che le molecole dell'acqua non possono più stare insieme e si slanciano libere da tutte le parti; ed ecco che così l'acqua si converte in vapore. Queste molecole, diventate libere, sono come altrettanti proiettili che vanno a colpire le pareti del cilindro in cui il vapore è rinchiuso; se una di queste pareti è mobile, come è appunto lo stantuffo della macchina, questa scarica di proiettili gassosi che vanno ad urtarlo, lo spingeranno avanti, vincendo le resistenze che gli si appongono. Ecco come il calore si converte in forza e lavoro: ciò che costituisce il principio fondamentale della teoria moderna del calore, il così detto primo principio, o principio dell'equivalenza.

Si fa dunque compiere al calore un salto da una temperatura alta a una temperatura bassa, mentre nel compiere questo salto una parte del calore si converte, nel modo che ho detto, in lavoro.

Ora non facciamo noi una cosa analoga quando adoperiamo la forza dell'acqua? Voi avrete visto un molino in montagna, per esempio: arriva l'acqua dal monte a un certo livello, e la si manda sulla ruota del molino; poi quest'acqua lascia la ruota a un livello più basso e va pel suo cammino. L'acqua ha qui compiuto un salto da un livello alto a un livello basso, e ha con ciò fornito del lavoro; ed è chiaro che quanto più grande sarà il salto, tanto maggiore sarà il lavoro ottenuto colla medesima acqua. Orbene: affatto analogamente, quanto più grande sarà il salto di temperatura in una macchina a vapore, più grande sarà l'effetto utile, ossia il lavoro fornito da una medesima quantità di calore. È questo il secondo principio della termodinamica, il famoso principio di Carnot, l'avo dello sventurato presidente della Repubblica francese.

Se si potesse godere di tutto il salto di un corso d'acqua della sorgente fino al mare si caverebbe da quell'acqua tutto l'utile che essa può dare. Egualmente, se noi potessimo godere tutto il salto dalla temperatura del combustibile incandescente, che è la sorgente, sino al freddo assoluto, che i fisici pongono a 273 gradi sotto lo zero, e che è pel calore ciò che il mare è per l'acqua, caveremmo il più gran partito possibile dal calore, ossia dal combustibile consumato. E questo possibile? O entro quali limiti sarebbe possibile?

 

La pressione del vapore cresce assai più rapidamente della sua temperatura; e voi sapete, per le notizie che sentite di tanto in tanto di terribili scoppi di caldaie a vapore, quanto sieno pericolose le alte pressioni. Ma ci si va abituando, e d'altra parte si riesce ora a garantirsi sempre più contro simili eventualità con scelti materiali e una accurata costruzione e sorveglianza. Ai tempi di Watt una pressione di 2 o 3 atmosfere faceva spavento; ora si va a 10, 12, 15 atmosfere, e già si fanno esperimenti a 30 e sino a 35 atmosfere. Ma anche se si adottassero queste enormi pressioni, la temperatura non si eleverebbe a più di 250° circa. È come dire che da questa parte il salto è stato aumentato per quanto era possibile, ma non potrebbe essere elevato molto di più.

D'altra parte, è egli possibile di scendere a temperature più basse di quelle dell'acqua fredda che serve d'ordinario come mezzo refrigerante? È possibile di avvicinarsi di più a quel limite dello zero assoluto, cioè a 273° sotto la temperatura del ghiaccio fondente?

Certo che sarebbe possibile, se adoperassimo vapori diversi da quello dell'acqua. Voi sapete che ormai la fisica è riuscita a liquefare tutti i gas colla pressione e col freddo. Questi gas, in sostanza, non sono che vapori di liquidi sconosciuti nelle condizioni di temperatura e di pressione nelle quali viviamo. Si è liquefatta l'aria, si è liquefatto l'idrogeno; ed ora si tratta l'aria liquida come se fosse dell'acqua comune. Orbene: l'aria liquida ha nientemeno che una temperatura di 190° sotto lo zero; e l'idrogeno liquido ha una temperatura ancora più bassa. E l'aria liquida non è materia nè pericolosa, nè instabile; con certe precauzioni la si può conservare sicuramente per parecchi giorni; essa è tanto fredda che un carbone acceso, immerso in essa brucia con gran violenza, ma, mentre brucia, si copre di brina, poichè l'acido carbonico prodotto dalla combustione gela a temperatura assai più alta di quella dell'acqua liquida; e se voi esponete al fuoco un vaso pieno d'aria liquida, le pareti esterne del vaso si copron di brina, e le stesse fiamme che la lambono diventan neve: neve di acido carbonico, s'intende. E non è neppur difficile di maneggiarla, tanto che si può evaporarla lentamente e così spogliarla dell'azoto che è più vaporizzabile, oppure si può filtrarla come un liquido qualunque e spogliarla dell'acido carbonico che rimane sul filtro come residuo solido. Ecco dunque un refrigerante che si avvicina molto alla temperatura del freddo assoluto; ma non gioverebbe a nulla per una macchina a vapor d'acqua, il cui liquido gela a una temperatura assai più alta; quindi bisogna, per essa, accontentarsi di adoperare dell'acqua fresca alle temperature ordinarie, cioè a 10°, o a 15°. Dunque anche da questa parte il salto di temperatura disponibile per la macchina a vapore è assai limitato.

Son molto migliori, da questo punto di vista del salto di temperatura, le macchine a petrolio e a gas, colle quali si utilizza la forza d'esplosione di una miscela di petrolio o gas e d'aria, che si accende entro la macchina stessa, servendo al tempo stesso da combustibile e da sostanza motrice, cosicchè la temperatura superiore oltrepassa anche i 1000 gradi. Nondimeno la macchina a vapore si è perfezionata tanto, che batte tutte queste sue concorrenti. Mentre una volta doveva consumare 3 o 4 chilogrammi di carbon fossile all'ora per ogni cavallo di forza, essa arriva ora a consumarne anche solo 600 o 700 grammi, che costano 2 centesimi, se si tratta di grandi forze; e così le macchine a gas non possono competere con essa per la spesa, e nemmeno le macchine a petrolio: le quali, se son preferite per le automobili, gli è soltanto in causa dell'assenza della caldaia che difficilmente si potrebbe mettere sopra una carrozza e meno ancora su un triciclo.

Ma appunto nel momento dei suoi più grandi trionfi, la macchina a vapore è, per due cause diverse, minacciata di morte, certo non ingloriosa e nemmeno immediata, ma sicura, e forse più prossima che non si creda. Da una parte si è constatata in modo sempre più preciso l'esauribilità delle riserve sotterranee di carbon fossile e di petrolio; dall'altra si ha la certezza di poter surrogare, quasi dovunque, la forza dell'acqua a quella del carbone.

Una ventina d'anni fa si credette in Inghilterra che le riserve di carbone accumulate sotto terra dai cataclismi cui fu soggetto il nostro globo non potessero durare più di 2 o 3 secoli, tenuto conto della progressione crescente che si verifica nel consumo di carbone in tutto il mondo. Ma quei calcoli non erano attendibili. Prima di tutto non si può ammettere che il consumo di carbone aumenti sempre nella stessa misura, poichè la scarsezza del carbone diventerebbe presto un freno a consumarne di più; questi calcoli, al pari di molti calcoli statistici, sarebbero, come argutamente osservò il celebre socialista George, tanto esatti quanto, il calcolo di colui che dicesse: il mio cane ha un mese di età e una coda lunga 5 centimetri; dunque a 5 anni avrà una coda di 3 metri. Poi bisogna tener conto delle riserve di carbone ancor conosciute. Già negli Stati Uniti si sono verificati dei giacimenti di carbone valutati (s'intende per la parte scavabile, cioè quella che si trova a meno di 1200 metri di profondità) più di 650 mila milioni di tonnellate, contro i 300 mila milioni dei giacimenti europei. Le riserve della China, ormai considerato come il paese delle più straordinarie e misteriose risorse, son stimate più di 600 mila milioni di tonnellate, poste quasi a fior di terra. Queste, intanto, non sono ancora sfruttate, e se lo fossero, potrebbero al più spostare l'asse del mondo industriale, ma poco gioverebbero all'industria europea.

Ma il calcolo più concludente è forse quello fatto recentemente dal celebre Lord Kelvin. Quando la terra era appena uscita dal periodo di incandescenza, ed avviandosi a raffreddarsi, cominciò a coprirsi di vegetazione, l'atmosfera non era composta che di gas inerti, prodotti dalla precedente conflagrazione, cioè di acido carbonico, d'azoto e di vapore d'acqua… Era quell'epoca geologica, quando ancora, come poetò lo Zanella nella «Conchiglia fossile»:

 
Riflesso nel seno
Di ceruli piani
Ardeva il baleno
Di cento vulcani;
 

e l'atmosfera involgeva la terra di quell'umido manto cantato dall'Aleardi:

 
L'aura, bagnata di mortal rugiada
Colle tepide nubi invidiava
Alla giovine terra il blando riso
Delle giovani stelle.
 

La vegetazione cominciò a separarne i componenti, appropriandosi il carbonio e l'idrogeno dell'acido carbonico e del vapor d'acqua e mettendone in libertà l'ossigeno. Così si venne a formare l'ossigeno, che ora costituisce ⅕ dell'atmosfera. I combustibili bruciati da allora in poi e la respirazione degli animali assorbirono una parte di quest'ossigeno, ma la nuova vegetazione ne produsse dell'altro; cosicchè ora l'ossigeno dell'atmosfera è esattamente in proporzione con tutta la materia combustibile che contiene la terra, sia alla superfice sotto forma di vegetazione, sia sotto terra in forma di lignite, di carbon fossile e di petrolio. Calcolandone la quantità in proporzione a quella dell'ossigeno esistente nell'atmosfera, che si conosce (1000 milioni di milioni di tonnellate circa) Lord Kelvin, tenuto conto dell'aumento della popolazione e del consumo e di altre circostanze, ritiene che ce ne sarebbe per non più di 5 secoli, ammesso pure che gli uomini pensino, estendendo a tempo le foreste, a prepararsi l'ossigeno per la respirazione, perchè altrimenti l'umanità, prima di perire di freddo, perirebbe di asfissia. E certo molto prima di mancare del tutto, il carbone costerebbe così caro, che il calore e la forza, che esso può dare, diventerebbero consumi di lusso.