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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

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E passiamo ai minori.

Intendo i minori per fama, perchè alcuni – e non vi dirò d'altri – spesso gli furono eguali per valore. In tutti i varii indirizzi a volta a volta riappaiono, secondo i bisogni della moda, del committente e del tema, e quello che nell'Hayez fu graduale evoluzione sincera, in loro o è incertezza di convinzione o destrezza di opportunismo eclettico.

Qui in Toscana è tempo che nomini Francesco e Giuseppe Sabatelli figli di quel Luigi Sabatelli che già vi segnalai come emulo del Camuccini e cui nella direzione dell'Accademia milanese succedette l'Hayez. Il padre li vide morir tutti e due. Francesco, maggiore di dieci anni, mandato giovanissimo da Leopoldo II a studiare in Roma, dopo soli diciotto mesi di permanenza e di amoroso lavoro, tornò a Firenze a finire la sala dell'Iliade cominciata dal padre a Palazzo Pitti, quando quella d'Ulisse era stata dipinta da Gaspero Martellini e quella di Prometeo da Giuseppe Colignon e mentre Pietro Benvenuti dipingeva tutta la cupola della Cappella dei Principi in Piazza Madonna. Da questi sincronismi è facile supporre quale sia stato il carattere della sua arte. Migliore, cioè altrettanto ariosa nella composizione ma più franca nel colore è, nella minuscola cappella a sinistra del coro in Santa Croce, la figurazione di Ezelino da Romano ai piedi di Sant'Antonio. Del fratello Giuseppe, anche chi non ha cercato a San Firenze la misera cupoletta ormai cadente della Cappella della Madonna, o all'Accademia la Battaglia del Serchio con Farinata e Buondelmonti, rammenta le affettuose parole del Duprè nel cui studio ogni mattina egli si riposava andando al lavoro: «Era magro e pallido, e i mustacchi neri facevano ancora apparire più pallido quel viso mansueto e serio; dal suo labbro non uscivano che poche e benigne parole; la sua compagnia era mite e soave; e la memoria di lui mi ritorna mestamente serena come il ricordo di un bene smarrito ma non perduto.»

E altri due fratelli, non fiorentini questi, ma sanesi, Luigi e Cesare Mussini. Luigi che come ho detto, cominciò con l'essere un purista minardiano, si inromantichì presto nel suo Decamerone sanese, e più nell'Eudoro e Cimodocea di questa Accademia, un quadro derivato da Chateaubriand, color di rosa e color di cenere, levigato e mantecato e illuminato non si seppe mai da che parte. Cesare fu un coreografo anche più complicato in quella Congiura dei Pazzi che verso il '45 era stimato uno dei massimi quadri moderni di Toscana e che poco dopo fu giustamente definita la «sintesi dell'impossibile.»

Per restar sempre tra i più noti, rammenterò il freddo e compassato Pollastrini che dopo aver fatto accademicamente melodrammaticamente morire Ferruccio a Gavinana, uccise anche Lorenzino de' Medici con altrettanta sapienza scenica e l'un dopo l'altro cacciò in nome del vittorioso Cosimo primo i sanesi da Siena. Ho detto un dopo l'altro: come nei Mussini così in tutti questi altri romantici le figure sono viste a una a una, e il chiaro e lo scuro è reso, non nell'insieme, ma su ciascuna di esse singolarmente e speciosamente.

Il Bezzuoli, che era di quarant'anni più vecchio di lui, verso il quaranta, dipinse un'Eva che aveva qualche floridezza e qualche freschezza di carni, ma subito ricadde nella coreografia trionfale con la gran tela figurante l'ingresso di Carlo ottavo in Firenze, che ebbe l'onore di essere incisa dal Morghen. Andatela un giorno a vedere, all'Accademia, e mi perdonerete se sessant'anni dopo io ometta anche di criticarla.

Tra l'Emilia e la Romagna due nomi compendiano questo periodo: il Malatesta e il Guardassoni. Del Guardassoni non è di voi chi non conosca almeno un'oleografia dell'Innominato da lui più volte ripetuto, perchè le migliori opere di questo periodo sono state dalla Provvidenza destinate ad essere appunto riprodotte nel modo a loro meglio convenevole, cioè con l'oleografia. Certo per l'avveduta onestà della pennellata, per una certa vivezza di colore, per la disinvoltura del disegno, il quadro appare superiore a molti dell'Hayez, ma, ahimè, mostra anche tutto il gelo del Delaroche; e ciò basta a giustificare l'oblio. A Bologna cento chiese – San Giuseppe ed Ignazio, la Trinità, San Giuliano, Santa Caterina, San Bartolomeo, Santa Maria Maddalena, Santa Dorotea, Santa Maria Maggiore, San Gregorio, San Giorgio, SS. Filippo e Giacomo, San Salvatore, Sant'Isaia, Santa Caterina di Saragozza, la Madonna dei Poveri, San Giuseppe – hanno pitture sue eseguite prima e dopo il '50, con una mano sempre più facile e anche sempre più trascurata, celeremente, per poco danaro, alla brava.

Il Malatesta, modenese, nato nel 1818 morì nove anni fa. Dipinse con grande chiarezza molti ritratti, con minore arte quadri sacri e quadri storici, fra i quali il più noto è quello in cui i soldati della lega guelfa fanno prigioniero Ezzelino terzo alla battaglia di Cassano d'Adda. Un titolo, come udite, un po' lungo, e veramente io penso a trovarne di altri anche più esplicativi e più lunghi, che cosa dovessero valere quei quadri per chi non sapesse leggere o almeno non sapesse di storia.

Se nel Veneto più dello Schiavoni, del Lipparini, del De Min, del Gregoletti, del Gazzotto che illustrò Dante a penna, sono oggi memorabili solo i nomi del Molmenti e dello Zona, ben altro avviene in Piemonte. Nel 1842 in un salone del palazzo d'Oria di Cirié in via Lagrange si apriva la prima esposizione della Promotrice, con centocinquanta opere di autori viventi e quello fu il terzo grande avvenimento artistico del regno di Carlo Alberto, dopo l'apertura della Pinacoteca e la restaurazione dell'Accademia Albertina. Giuseppe Camino, i due Morgari padre e figlio, Francesco Gonin, Francesco Gamba erano tra gli espositori. Ma non è questo il momento di definir l'opera di tali valorosi, cui pochi anni dopo si deve la riscossa, – e non solo in arte. Ora rammento solo artisti più vecchi: Ferdinando Cavalieri, amico dell'Hayez, che nel '45 era venuto a Roma a dirigere la scuola dei pensionati del re di Sardegna, e nel 1846 mandava di là per la sala dei paggi nel Reale Palazzo un quadro rappresentante Il conte Amedeo III che giura la sacra lega in Susa; il Biscarra che scendeva dall'Olimpo davidiano dei suoi Achilli, dei suoi Alessandri e dei suoi Mosè per romanticheggiare con una veramente misera Morte del conte Ugolino; Pietro Ayres che avrebbe dovuto limitare la sua attività ai ritratti; Amedeo Augero, l'autore del Voto e più l'autore di molti ritratti privi di luce ma di nitidissimo segno; e infine l'Arienti, che sebbene fosse nato presso Milano, pure è da iscriversi tra i piemontesi per essere stato dal '43 al '60 professore di pittura all'Accademia di Torino. Un'altra Congiura dei Pazzi, il Federigo Barbarossa cacciato da Alessandria che è in quel Palazzo Reale, e l'incomprensibile episodio della Lega Lombarda, che è nell'ultima sala della Pinacoteca bolognese, sono opere che raccolgono bellamente tutti i difetti suoi e dei tempi, ma hanno un certo fare largo ed energico, che l'Arienti deve a Luigi Sabatelli maestro suo.

A Roma vanno rammentati il Podesti e il Gagliardi. Che memoria resta di loro? Io che son cresciuto fra gli artisti, e fin da bimbo ho udito pronunciare questi due nomi con venerazione, quando un giorno mi son determinato entrando nelle stanze di Raffaello in Vaticano a fermarmi nella prima stanza detta della Concezione e tutta affrescata dal Podesti con una squallida intonazione tra color di rosa e color di legno, con una compassata scolastica composizione che non si può più nemmeno dire teatrale; quando nella minuscola pinacoteca di Ancona sua patria invece di correre ad adorare la piccola madonna del Crivelli ho voluto guardare con qualche attenzione i cartoni, i quadri e i quadretti del tanto lodato «decano dell'arte romana», ho provato una delusione tale, che oggi non oso con esatte parole ripeterla. Il pittore de Sanctis che di lui morto parlò nell'Accademia di San Luca, affermò che tra il '50 e il '60 «il nome del Podesti risuonava alto nella pittura come quello di Verdi nella musica», un paragone che a noi di un'altra generazione oggi sembra irriverente addirittura. Pure la sua fama fu immensa; e da quando nel 1830 espose in Campidoglio nella prima Esposizione degli amatori e cultori di belle arti il Martirio di Santa Dorotea fino a che per commissione di Carlo Alberto eseguì il Giudizio di Salomone; da quando per don Alessandro Torlonia nella villa fuori Porta Pia dipinse a fresco le imprese di Bacco e nel Palazzo di piazza Venezia il mito di Diana fino a che per Pio nono eseguì la stanza della Concezione; dal quadro dell'Assedio di Ancona che nelle esposizioni mondiali di Parigi e di Londra ebbe due medaglie d'oro e oggi sarebbe rifiutato in una promotrice provinciale fino a tutti gli innumerevoli soggettini romantici a figure terzine, egli fu venerato a Roma anche più di quel che l'Hayez fosse stimato a Milano o il Bezzuoli a Firenze. E come l'Hayez, morì novantenne.

Il Gagliardi è negli affreschi della chiesa di San Rocco a Roma più virile e ha un colore più franco, ma anche egli non sente la luce e tanto meno il chiaroscuro, e così non riesce al rilievo; le quali due accuse sono, in realtà, le massime contro tutta la pittura d'allora. Tanto che tutte quelle figure teatrali e i soliti guerrieri coi cimieri azzurri e i pennacchi rossi e le corazze turchinette e giallette, che modellan muscolo a muscolo la carne e i soliti toni di cobalto e di roseo alla Sassoferrato, fanno della Crocifissione cui allora stupefatta accorse tutta Roma, un quadro meschino presso le ampie figure zuccaresche dell'abside, ornamentali e baroccamente violente.

In Lombardia, oltre il Bertini, il d'Azeglio. Giuseppe Bertini che nato nel '25 è morto quest'anno conservatore della Pinacoteca di Brera, sebbene sia più noto come primo maestro di qualche grande, pure meritò per la mobilità del suo stile dal Selvatico questa lode «or sa farsi Ghirlandajo, ora Tiepolo» dove il contrasto è così palese che la lode sembra un biasimo. L'arte di Massimo d'Azeglio invece fu protesa verso l'avvenire che egli bene intravvide, ma nel quale, come pittore, non riescì ad entrare. Più che la Sfida di Barletta o il Brindisi di Ferruccio o la Battaglia di Gavinana o lo Sforza che gitta l'accetta su l'albero o tutti i quadri di origine ariostesca, oggi ci importano i suoi paesaggi che egli studiava e, come diceva lui, finiva sul vero. Dei quadri supposti storici, dei quali ora più ci occupiamo, egli si gloria che avessero il gran merito – o piuttosto la condizione sine qua non di tutto quanto aveva fatto d'un po' significante – di servire cioè al pensiero italiano.

 

Ora questo per lui si può dir che sia quasi sempre vero: ma per gli altri lo fu? E se lo fu, questa pittura romantica raggiunse lo scopo, cioè affrettò la rivoluzione verso la unità e per la libertà individuale e nazionale? Lo stesso d'Azeglio che da giovane aveva veduto domare la rivoluzione francese e l'aristocrazia e il re tornare a Torino e i cardinali e Pio VII tornare a Roma, parlando dell'Alfieri e delle sue tragedie in odio ai tiranni, osserva con ironia: «Quale appare secondo esse la via più breve onde condurre un popolo alla perfetta felicità, libertà, prosperità ecc. ecc.? Nascondersi dietro un uscio e far la posta al tiranno; quando passa, tonfete!, una buona botta sul capo, e tutto si trova fatto, compito e terminato; tutti sono contenti, tutti sono indipendenti, tutti sono liberi, felici, virtuosi, eguali, fratelli amorosi, insomma un popolo si trova diventato d'un colpo il paese della cuccagna! E il mondo va egli così? E tutto questo è egli vero, e mette forse in capo idee vere?»

E, aggiungo io, non si potrebbe dir lo stesso della pittura romantica e di tutte le Leghe Lombarde e di tutte le Congiure dei Pazzi e di tutte le Disfide di Barletta che furono dipinte allora? Invece di dire al vicino «La tua casa brucia» quei bravi artisti gli dicevano, ad esempio: «Brucia la Biblioteca d'Alessandria, o il Tempio di Diana in Efeso.» E ciò, come si capisce facilmente, poteva essere rettorico e, verso la polizia, comodo, ma poteva anche essere inutile. Eran ricordi di scuola, finzioni di mondi passati, spesso mai esistiti, favole non umane, irrealità e atteggiamenti e affettazioni, forme che non sprizzavano direttamente dal pensiero e dalla passione vivi ma li viziavano e li impacciavano come paludamenti. La pittura fu, come disse il de Sanctis di quella letteratura, «un'Arcadia con licenza dei superiori,» Permettete a chi forse ammira troppo il tempo in cui vive di constatare che anche in franchezza, per fortuna, noi abbiamo progredito.

* * *

Prima di accennarvi come i fatti brutali e magnifici spinsero tutti gli animi a questa franchezza e lacerarono le maschere prudenti, e i pittori di Federigo Barbarossa e d'Ettore Fieramosca divennero o meglio dovettero divenire i pittori di Carlo Alberto, di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, vi dirò qualche parola su la scultura e gli scultori. E più che poche parole vorrei dirvene, poichè ho la ventura di parlare nella patria di Lorenzo Bartolini.

 
E tu giunto a compièta,
Lorenzo, come mai
Infondi nella creta
La vita che non hai?
 

Prima di lui la scultura classica del Canova, o più propriamente inclinata alle semplicità del purismo nel Thorwaldsen e nel suo nobile allievo il nostro Tenerani, era in ogni modo stata regina in Europa. Per un momento tutta la nostra gloria artistica parve affidata a lei. Nè Dannecker nè Rauch in Germania, ne François Rude o David d'Angers Aimé Millet in Francia raggiunsero lo splendore d'onori, la fecondità pure diligente, la fattura squisita dei nostri. Per confrontare Thorwaldsen al conte Tenerani basta a Roma in San Pietro andare dal monumento di Pio settimo Chiaramonti a quello di Pio ottavo Albani; ma la castigatezza e il fermo modellare sì del maestro che del discepolo sono schiacciati dalle dorate vòlte pompose e ventose così, che al confronto il Gregorovius potè dire che le due tombe sembrano fra tanta sontuosità di cattolicismo due monumenti protestanti. È stato detto che il Minardi fu il Tenerani della scultura. Sì, ma il Minardi non seppe nè dipingere nè coi disegni commuovere; il Tenerani seppe e scolpire e commuovere. Dalla Psiche abbandonata che piacque tanto al Giordani fino all'altra Psiche svenuta che egli dovè ripetere quindici volte, dal rilievo della Deposizione dalla Croce che è tra gli ori candido vanto della Cappella Torlonia in Laterano fino al colossale San Giovanni Evangelista pel San Francesco di Paola a Napoli, dal troppo classico Monumento pel conte Orloff al Monumento per Bolivar o alla statua di Pellegrino Rossi, egli ha mostrato veramente un'anima geniale e una scienza tecnica di polita gentilezza e un'abilità di panneggiare insuperata dallo stesso Thorwaldsen. E basta leggere una pagina della sua biografia scritta dal Raggi, per sentire quanto il mondo fosse allora pieno della sua fama.

Intanto il Marocchetti di Biella empiva l'Europa di cavalli e di cavalieri purtroppo ancora visibili, nessuno dei quali per fortuna nostra vale l'Emanuele Filiberto di piazza San Carlo a Torino. Però nessuno, e tanto meno lui, ebbe il virile animo e la tenacia diritta e la forza combattiva del vostro Bartolini.

Lo stesso Giusti, che per lui scriveva i versi detti poco fa, sembra che anche per lui abbia cantato:

 
In corpo e in anima
Servi il reale,
E non ti perdere
Nell'ideale,
 

parole chiare che diverranno una divisa di coraggio.

Francesco Hayez è vissuto tra il 1791 e il 1882, Lorenzo Bartolini tra il 1777 e il 1850. Confrontateli: versatile, opportunista, già dimenticato il primo; rigido, intollerante, austero, ogni giorno più vivo e più degno di vivere il secondo. Figlio d'un magnano, fattorino di bottega, commesso d'un sarto, garzone d'un vetraio e d'un marmista, suonatore di violino nelle più buie orchestre di Firenze o di Parigi, il Delaborde in un articolo che la Revue des Deux mondes pubblicava quarantaquattr'anni fa, narra come il David stesso anche prima che il Bartolini scolpisse il bassorilievo della battaglia d'Austerlitz per la colonna Vendôme restasse stupito e soggiogato dal sentimento semplice, dall'ingenua larghezza, dalla sincerità mai volgare di quella giovenile arte di lui, che la natura voleva interpretare direttamente senza infrapposizioni di morte bellezze officiali.

Pochi giorni fa in un giornale d'arte romano di verso il '40 leggevo una sua caratteristica polemica, quando dette per tema agli scolari il bassorilievo d'Esopo, egli che, morto Stefano Ricci, autore del monumento a Dante, già insegnava scultura all'Accademia fiorentina, aveva scritto: «Diverse figure adattate per esercizio del nudo, servono a dimostrare che tutta la natura è bella, quando però è relativa al soggetto, e che colui il quale saprà meglio imitarla potrà quindi eseguire qualunque tema gli venga proposto.» Un anonimo nel Diario di Roma, un tale Zanelli nell'Album, combatterono questa affermazione rivoluzionaria, questa ostentazione di massime antiaccademiche, questa franca glorificazione di tutta la vita. Dicevan gli avversarî che nei fiori, negli alberi, nel paesaggio la natura può prendersi qual'è, ma non nel corpo umano perchè esso ha peccato. E gli citavan Platone e il prototipo generato e Raffaello e Guido Reni e naturalmente anche Winckelmann; infine, a difesa del bello ideale, gli proponevano: «dipingete o scolpite cento vecchie e cento giovani con egual maestria, tutti guarderanno le giovani.» Il Bartolini sul Commercio rispondeva: «Come saranno brutte quelle giovani se l'avrete inventate voi!»

La sua ammirazione per Napoleone con quella sua misteriosa corsa all'isola d'Elba in pieno 1814 quando caduto l'imperatore la folla gli penetrò nello studio e gli infranse gessi e marmi furiosa, è un indice del suo cuore. La sua amicizia per Ingres con cui aveva studiato e vissuto a Parigi e che lo ritrattò, e per Byron e per M.me de Staël i cui busti egli scolpì, è un indice della sua mente.

Delle sue opere – poichè, se ne togli il gran Napoleone che è a Bastia vòlto al mare d'Italia e la genuflessa Fiducia in Dio che è a Milano nel palazzo Poldi-Pezzoli e l'Astianatte impetuoso che pure a Milano è su la terrazza di palazzo Trivulzio sono tutte a Firenze – è inutile parlare. Chi di voi non conosce nella sala dell'Iliade a Palazzo Pitti, la Carità educatrice, in piazza Demidoff, il Monumento a Nicola Demidoff, o in Santa Croce la statua giacente della vecchia contessa Zamoyska che veramente sembra addormentata in un marmoreo sonno di morte? Chi non ha visto nel refettorio del convento di San Salvi i gessi dei ritratti in busto plasmati da lui, massimo quello dell'attore Vestri il cui marmo è alla Certosa di Bologna? Non dobbiamo dimenticare che egli nascendo all'arte trovò il mondo della scultura popolato di dèi e di semidei e di omerici eroi tutti belli. E quand'egli morì, l'Italia aveva il Vela e il Duprè, e si potè in Santa Croce sotto il suo monumento scrivere la insegna della sua vita Natura lumen artium.

Senza il Bartolini, nè Vincenzo Vela, nè Giovanni Duprè sarebbero stati. Come lui essi sorsero dal popolo, energici e fiduciosi; più bellicoso e saldo e taciturno il primo, più timido e gentile il secondo. Ma, se l'Abele del Duprè è del 1842, la Pietà è del 1862 e lo Spartaco del Vela appare nel 1879. Così che l'esame dell'opera di questi due grandi, spetta a chi un altr'anno vi descriverà l'arte italiana dopo il '48.

* * *

Il quarantotto – lo ripeto – è una pietra miliare donde non solo una nuova politica si parte ma anche una nuova arte, più libera e franca sotto il sole.

Lentamente, da quel momento, l'arte e la vita tendono a riunirsi e nel 1843 Vincenzo Gioberti pubblica il Primato, nel 1844 Cesare Balbo le Speranze d'Italia, e d'Azeglio, il romanziere e il pittore di Ettore e di Ginevra, l'opuscolo Dei casi di Romagna subito dopo i moti di Rimini e di Bagnacavallo, il quale opuscolo, è ancora mite e quasi dottrinario rispetto al famoso libro su I lutti di Lombardia. Egli è ferito a Vicenza. Le cinque giornate di Milano, la difesa di Venezia, la difesa di Roma. Guerrazzi e Montanelli vogliono stabilire la repubblica a Firenze; Mazzini a Roma. Dopo Novara, il d'Azeglio accetta di essere ministro per la pace, e da quel giorno è ecclissato da Cavour. Il Conte di Cimié emissario d'Austria quindici anni prima, tentando di spingere Carlo Alberto alla reazione con l'incitargli contro i tumulti della piazza più impetuosi, aveva detto: – Bisogna fargli assaggiar del sangue, altrimenti egli ci sfugge! – E il sangue, il sangue è apparso e non più quello dipinto con pallidi vermigli nei più tragici quadri romantici sul petto di uomini mascherati alla medievale, ma il rosso caldo sangue dei figli, dei fratelli, il sangue stesso di quelli artisti cui dai franchi occhi cadde il velo della rettorica e folgorò tra i lampi dell'armi la visione della patria quale doveva essere, – visione precisa, limpida, come un segnale dall'alto.

La scuola mazziniana democratica opposta alla liberale lombardo-piemontese – Campanella a Genova, Farini in Romagna, La Farina in Sicilia, Guerrazzi in Toscana, Carlo Poerio a Napoli – fece direttamente e indirettamente il '48 e l'insurrezione calabrese e la rivoluzione di Palermo, e le difese di Roma e di Venezia e le resistenze di Bologna e di Brescia, e Garibaldi. Il romanticismo – e Pellico e d'Azeglio e Balbo e Rosmini – cade dal governo incontrastato delle menti. E la pittura romantica è morta. S'è vista e s'è toccata la salda ardente realtà. Anche prima che in letteratura così il realismo comincia in pittura. Luigi Mussini finirà a fare il ritratto di Vittorio Emanuele, l'Hayez che ha dipinto il Bacio di Giulietta e Romeo finirà a dipingere il Bacio del volontario che parte, come pochi anni prima il vecchio Camuccini aveva per Carlo Alberto dipinto Furio Camillo che caccia i Galli dal Campidoglio.

Tutta la tecnica si rinnova. E prima di tutto, nei quadri di paese. In Francia Rousseau, Corot, Troyon, Diaz, Daubigny, Millet, e accanto a loro tutti gli sfavillanti orientalisti di Francia da dieci o da venti anni attendono di predicar con le loro opere il vangelo della luce d'Italia. Dal Piemonte, prima che da ogni altra regione, partono per varcar le Alpi il Valerio, il Perotti e il Gamba, i quali hanno il torto di credere che il cammino più breve verso Parigi sia attraverso la Svizzera cioè attraverso l'imitazione della buja e piatta e scenografica scuola del Calame. Così che i rivelatori – quelli che, come fu detto con una frase troppo chirurgica, toglieranno le cateratte agli occhi della pittura italiana, – saranno napoletani.

 

Di Napoli io non ho ancora parlato. E chi avrei potuto indicarvi in quel gelo se non l'accademicissimo Tommaso De Vivo, o Giuseppe Mancinelli, che nell'Aiace e Cassandra del Palazzo Reale ancora venera in ginocchio il Camuccini e nel San Francesco di Paola a Capodimonte, non fa che voltarsi a venerare il Podesti? Filippo Palizzi e Achille Vertunni e, quando dopo il '48 avrà abbandonato i suoi primi flebili amori coi puristi, anche Domenico Morelli: ecco quei rivelatori che solo un altr'anno vi saranno rivelati.

Il sentimentalismo dei romantici, per questa restaurazione della vita nell'arte, diverrà emozione sincera in due forme di pittura: una larga e, direi, sonora che al quadro teatrale e romantico sostituirà il quadro realmente storico ed eroico con gli Iconoclasti del Morelli, coi Dieci del Celentano, con la Stuarda del Vannutelli, col Sordello del Faruffini, alla Brera, coi Martiri gorgomiensi del Fracassini, in Vaticano; una più intima e più placida che sarà detta pittura di genere.

I fratelli Induno crearono la pittura di genere. Ambedue studiarono all'Accademia milanese sotto il Sabatelli, ambedue cominciarono a camminare sotto il giogo dell'Hayez. Ed è relativamente a questi inizii, e al loro tempo, che devono essere giudicati. E nell'uno e nell'altro il 1848 interruppe la vita artistica e cacciò Domenico ad esulare in Isvizzera e in Toscana, e Girolamo, più giovane di dodici anni, a combattere a Roma. I Contrabbandieri, il Pane e lagrime, il Dolore del soldato, la Questua, il Rosario dipinti da Domenico, furono le tele che prime persuasero gli artisti non derivar solo dalla storia l'ispirazione, ma anzi la massima sincerità essere nella immediata contemporanea realtà del soggetto, e la sincerità di un'opera d'arte essere in rapporto diretto con la sua potenza emotiva. Per lui Pietro Selvatico scrisse quel saggio Su la opportunità di trattare in pittura anche soggetti tolti alla vita contemporanea, che aveva per epigrafe ancora un verso del nostro Giusti:

 
Di te, dell'età tua prenditi cura.
 

A Milano tra il museo del Risorgimento e l'Associazione patriottica e il Palazzo Reale e le ultime gelide sale di Brera5, voi potete trovare le maggiori tele di Girolamo, e Crimea e Magenta e Palestro e la Partenza del coscritto, le quali, come dicono i titoli, sono tutte posteriori al '50. E anche in quel Palazzo Reale potete trovare il Cader delle foglie di Domenico, che a me è sempre sembrato il suo più bel quadro con quell'etica pallida che si spegne in conspetto della larga campagna autunnale, quando sui monti azzurrini del fondo già biancheggiano le prime nevi. Certo la pennellata franca e avvolgente è migliore del colore ancora roseo e bigio, secondo la fievole intonazione che da mezzo secolo smorza ogni sole; ma, quando il modello è vicino e lo accende, egli è capace di creare il magistrale Ritratto d'uomo nella galleria d'arte moderna a Roma, d'un colore così affocato ed intenso e d'un'espressione, negli occhi stanchi, così dolorosa e lancinante che nessun altro ritratto là dentro regge al confronto.

* * *

Signori, con questo nuovo periodo l'arte italiana è libera – libera dal servile plagio degli antichi che è mille volte più dannoso della imitazione dei contemporanei, libera da ogni polveroso pregiudizio e da ogni angusto impaccio d'accademia, libera da quella che Ruskin disse l'insolenza della fede. L'individuo, diviene, almeno in arte, il padrone di sè stesso, e tutti – artisti, critici, pubblico, quali si sieno i loro gusti e le loro opinioni – sanno che l'arte vera non è mai fissata o definita, ma è un continuo divenire come la religione e come la scienza. Lasciatelo dire a un ottimista: l'arte, il giorno in cui essa è tornata, nelle sue aspirazioni se non nella sua attualità, alla spontaneità anche violenta e anche intemperante, il giorno in cui si è compreso che le pitture più belle non sono le più pittoresche ma le più sincere, l'arte, dico, in quel giorno è tornata al suo massimo cómpito – cioè a farci amare la vita che ella stessa ha amato, poichè ha cercato di comprenderla e di renderla e di interpretarla per la nostra più precisa delizia. E questa è la sua funzione nella società.

«Quando leggo Omero, tutti gli uomini ai miei occhi divengono giganti,» diceva un grande poeta. Ahimè, non gli eroi omerici che il cavalier Camuccini si illuse di rappresentare, ci daranno questa sensazione di magnificenza e di ampiezza e di eternità, ma una quieta pianura dipinta dal Vertunni o un semplice ciuffo d'erbe dipinto dal Palizzi o una nuvola sul tramonto dipinta dal Fontanesi, perchè questi hanno visto e hanno reso la natura con semplicità d'amore.

5Mentre correggo queste prove di stampa, le ultime sale di Brera dove eran rifugiati i quadri moderni, sono da mesi sossopra, perchè due delle sale sono state cedute alla Galleria antica. Pare che nel 1901 essi saranno novamente e più ordinatamente ricollocati nelle sale residue.