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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

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Dopo essere passato dall'uno all'altro officio, ottenne una grama pensione e soffrì la fame. Migliorò stato entrando come segretario del Principe Poniatowski, ma non vi rimase a lungo. Frattanto il fratello gli moriva e la sorella si votava monaca.

Egli proseguiva negli studi letterari; fondava insieme con altri nel 1813 l'Accademia Tiberina – era quello il tempo delle Accademie, vere cooperative d'incensamento – e imbevuto di poesie romantiche e specie di quelle dell'Ossian, continuava a comporre, oscillando tra varie forme. Il primo suo volumetto stampato fu: La Pestilenza stata in Firenze l'anno di Nostra salute MCCCXLVIII, scritta, secondo afferma lo Gnoli3, nel 1812 e nel 1813.

Ma la sua attività intellettuale non si arrestava allo scriver versi; egli studiava le scienze fisico-chimiche e fisico-matematiche, e ne scriveva; studiava la lingua francese e l'inglese; si addestrava, come un meccanico, a costruire ingegni; leggeva molti libri e ne scriveva sunti ordinati; osservava avvenimenti, vita, costumi, e annotava le osservazioni. Si occupava anche di storia e geografia, e suonava il violino; nè ometteva di copiare lunghi brani dei libri letti.

Tornato in Roma Pio VII nel 1814, egli, che non aveva mai amato ne ammirato Napoleone, acclamò quello in versi, assai violenti contro gli empi.

Di lui intanto si invaghiva la signora Maria Conti, vedova del conte Pichi, ricca ma di dieci anni maggiore. Egli voleva resistere, per non essere mantenuto dalla moglie; ma alla fine, nonostante la contrarietà dei parenti di lei, si piegò per la promessa, dalla Conti stessa ottenuta, di un ufficio presso il Governo, con dieci scudi mensili di stipendio. E così nel 1816 egli si congiunse in matrimonio.

Presso le compagnie il Belli era noto come un burlone, un collettore e arguto raccontatore di aneddoti e facezie, abilissimo nel contraffare altrui.

Acquistata l'agiatezza, egli potè con energia e tranquillità attendere ai suoi studi; intraprese dei viaggi annuali, durante i quali molto osservava ed annotava; e s'innamorò anche di una marchesina, che dapprima parve corrispondergli, poi si maritò per amore. A lei rimase, per altro, legato sempre da amicizia e da affetto: anzi, ebbe cari la figliuola di lei e, quel che è più maraviglioso, lo stesso marito.

Godendo la pensione dell'officio, cui non fu più costretto ad attendere, se la passava lietamente, ed ebbe tempo e piacere di correre, nel carnevale, mascherato per le vie di Roma, dicendo facezie. Mentre viaggiava ed osservava e notava (di Firenze sopratutto scrisse, e comprese quanto la vita sua differisse da quella di Roma), nel Settembre del 1827 acquistò per novantasei bajocchi i due volumi del Porta, che lesse e rilesse, e che valsero forse a volgerlo alla poesia dialettale; alla quale più liberamente potè dedicarsi uscendo, come fece, nel 1828 dalla prigione intellettuale dell'Accademia Tiberina. Ed ecco giunto, quand'egli contava poco meno che quarant'anni, il felice periodo della sua gloria; periodo non lungo, durante il quale scrisse più di duemila sonetti in dialetto romanesco, flagellando Chiesa, clero e costumi; e fu il Belli forte, geniale, celebrato. I sonetti si diffondevano manoscritti per Roma, e tutti li conoscevano e li ammiravano.

Nel 1837 perde la moglie, che lascia anche imbarazzi finanziari, dei quali egli si sgomenta. Il colèra invade Roma e fa strage; e Giuseppe, temendo di morire, affida al Biagini, chiusi in una cassetta, i suoi sonetti; pare che ne desiderasse, in caso di morte, la distruzione… Nel 1838 rientrava nell'Accademia Tiberina; nel 1839 pubblicava, editore il Salviucci, dei versi italiani scritti in quel torno; e nel 1840 si volgeva a quel pontefice Gregorio XVI che aveva flagellato ne' sonetti, perchè gli concedesse un ufficio da lucrare; e a ciò lo persuase il grande, singolare amore che portava a Ciro, figliuolo avuto dalla Conti e divenuto primo pensiero e prima cura della sua vita.

Così si preparava l'evoluzione. Dalla morte della moglie al 1849, ultimo della sua musa dialettale, cioè in 12 anni, il Belli non scrisse che 318 sonetti; mentre dal 1828 (non importa tener conto dei soli quattro sonetti anteriori a quest'anno, nè degli otto senza data) al Luglio del 1837, cioè in 9 anni, ne aveva scritti, salvo errore, 1812.

Ottenuto l'ufficio, che dopo due anni gli rese più di 40 scudi mensili di stipendio, il Belli scrisse ancora sonetti aspri e fieri contro il Pontefice e il Governo; ma la vena si inaridiva. Nel 1845 egli ottenne da Gregorio XVI d'esser giubilato e con l'assegno cui avrebbe avuto diritto se avesse prestato l'opera sua per 37 anni; e fu questo un singolare favore. Ottenuta la pensione, Giuseppe, anzichè tacere dischiuse una nuova fioritura romanesca (in poco più di 3 anni circa duecento sonetti) e continuò a dir male di papa Gregorio, dei Cardinali e dei preti, mentre in lingua italiana pensava e scriveva diversamente.

Partecipò egli pure degli entusiasmi per Pio IX, pontefice liberale; ma le violenze e i torbidi della repubblica che successe compirono la metamorfosi; e dopo il 1849 il Belli divenne reazionario. Nel testamento del 1849 egli rinnegò i sonetti romaneschi; e li consegnò al Tizzani perchè li bruciasse. Ma fu notato che, se avesse voluto bruciarli davvero, li avrebbe bruciati da sè. Il Tizzani li conservò, e così fu possibile l'edizione Barbèra e poi quella completa del Lapi, degnamente curata dal Morandi.

Tornato Pio IX dopo la repubblica, il fiero flagellatore del clero scrisse in lingua italiana un violento sonetto contro il Mazzini e i liberali; e prestò poi l'opera sua alla censura pontificia; e si mostrava più dei preti insofferente ed eccessivo. Attese a volgarizzare gli inni ecclesiastici del Breviario, e nel 1859 scrisse due componimenti in ottave sulla Passione. Ma la trasformazione dei sentimenti e dei pensieri aveva generato anche la trasformazione dell'arte: la splendida parentesi di gloria aperta dal 1828 al 1845 si era chiusa, e il Belli finiva come aveva cominciato: verseggiatore italiano men che mediocre.

Morì nel decembre del 1863; ma il Belli celebre era morto da un pezzo.

III

Dalla narrazione della sua vita, ch'io a bella posta ho riferito semplice e nuda di osservazioni e di giudizî, quale appare a noi la figura morale e intellettuale di Giuseppe Belli?

Dalla gratitudine ch'egli sentì per la moglie, dall'amore sviscerato che portò al figliuolo, dall'affetto che lo strinse agli amici, dalla benevola consuetudine che serbò verso la marchesina e la famiglia sua, dobbiamo dedurre ch'egli fosse d'animo affettuoso e soprattutto aperto ai sentimenti domestici, miti e quieti. Anzi, la sua casa e tutto quanto lo circondava amava così, da non tollerare il più lieve mutamento. Il che significa timidezza di spirito e misantropia e amore grande all'irradiamento dell'io.

Che fosse d'umore melanconico provano le sue lagrime adolescenti nella solitudine della riva del mare, le sue ripetute dichiarazioni e il concetto pessimista che si era formato degli uomini e della vita. Ma non era melanconia elegiaca: la punta della vendetta luccicava nella nera visione del mondo agli occhi suoi: fanciullo, fu lieto dei rovesci del commercio paterno, perchè la nave che doveva condurre lui in Ispagna era stata invece mandata con grano in Africa. L'umore melanconico doveva atteggiarsi dunque più allo scherno e al sarcasmo che al lamento e alle lagrime.

Lo scherno e il sarcasmo tanto più vivi sorgevano quanto più rettamente morale s'era formato l'animo suo e sconciamente immorale appariva l'ambiente.

Lo scherno e il sarcasmo meglio che l'ira e lo sdegno sgorgavano dal cuore del Belli, perchè l'animo era mite e debole ed amava la pace e non sapeva entusiasmarsi.

Chi rammenta la pazienza con cui egli leggeva, annotava, copiava, e la minuzia con cui osservava e il suo diletto negli studi della fisica, della chimica, della meccanica; la scarsa parte da lui presa ai febbrili movimenti della rivolta, all'accesa rigenerazione del pensiero, alle grida di patria e libertà di cui fremeva la nuova aria italiana, sa come la sua non fosse natura ardente e vibrante.

L'indole e il non rigoglioso vigore del corpo e i casi della vita, pei quali fin da fanciullo aveva dovuto tremare nelle tempeste politiche e nei forti venti della rivoluzione, costituirono un carattere timido e fiacco.

La rassegnazione con cui egli, artista, si piegava all'esauriente giogo burocratico e adempiva scrupolosamente il suo dovere di buon impiegato – vada la barbara parola, – mentre ci prova l'onesto fondo della sua coscienza, ci dimostra l'arrendevolezza del suo spirito.

Egli della cosa pubblica non si interessò quanto avrebbe dovuto un buon cittadino. La sua mente non si fermò a riflettere sui grandi problemi del tempo e a risolverli: così che gli mancò la sicurezza piena del pensiero; nè alla deficienza del contenuto politico intellettuale poteva supplire l'impeto santo del cuore e il sentimento generoso, perchè la sua non era tempra passionale. Che avvenne? In quegli anni, nei quali le tempeste ruggivano abbattendo e spazzando, ed ora partivano da mezzodì, ora da settentrione, conveniva avere animo fermo come torre per non piegare ora a dritta ora a sinistra, e conservare sempre il carattere medesimo in mezzo ai più contrarî ambienti. Egli invece, che pensava e sentiva come abbiamo detto, fu il giunco che si piegò: si lasciò colorire dalla luce di fuori, si lasciò plasmare dalla mano del fato e dagli avvenimenti.

 

Dopo ciò, è da maravigliarsi se egli, per quegli affetti domestici che sentiva, sacrificò i politici che non sentiva e immolò la patria al figlio, la geniale musa romanesca alla rettorica dell'Accademia, e chiese l'officio e lo stipendio a quel Gregorio XVI che aveva vilipeso?

Piuttosto è da maravigliarsi che, ottenuto il favore, non tacesse, e continuasse a scrivere sonetti acri e pungenti; e neppur questo gli fa onore, chè il sacrificare definitivamente una cosa all'altra e l'essere, se non buon cittadino, uomo grato era pure da apprezzare. Ma anche pei mutamenti improvvisi e radicali occorrono caratteri; i deboli cercano sempre di conciliare il passato col presente e d'essere quelli che sono, pur non lasciando di essere quelli che erano.

Fu religioso il Belli? Se si pone mente al primo e all'ultimo periodo della sua vita, conviene rispondere di sì; se si pone mente al periodo medio, a quello del Belli geniale, conviene rispondere di no. Il vero è ch'egli in religione come in politica non fu saldo e non ebbe pensieri chiari e certi, come non ebbe sentimenti accesi. Finchè durò intorno a lui l'ambiente favorevole e rimase l'effetto dell'educazione familiare, fu religioso; quando prevalse lo spirito dei tempi nuovi e la letteratura volterriana e l'arte sua fu vivace e peccaminosa, la fede scomparve; quando tornò l'onda reazionaria, e il suo timido carattere ebbe sentito orrore degli eccessi rivoluzionari e la vecchiezza discese, come un tramonto lunare, a velar passioni e fantasie e a destare pensieri e melanconie della futura notte dell'altra vita, il Belli credette di nuovo.

Ma se l'animo del poeta era debole, l'intelletto era vigoroso. Noi che conosciamo ora il suo cuore, sappiamo ch'egli non poteva levarsi alle altezze sublimi del sentimento vivificatore, che non poteva con impeto d'ala accendere gli animi. Ma al suo sguardo sagace nessun aspetto di cosa o movimento d'anima sfuggiva: la sua mente raccoglieva e giudicava, raffrontando e rievocando. Egli sapeva sempre cogliere il particolare caratteristico, la nota significativa; assuefatto a raggruppare e a scegliere, aveva acquistato una rara maestria selettiva così pel fatto, come per l'immagine e per la frase. Minuto e paziente, riusciva maravigliosamente nel lavoro della perfetta composizione e della assidua lima.

Arguto e caustico, trovava sempre il pensiero frizzante; dotato di fine gusto, sapeva sempre dar rilievo di forma al pensiero.

La riflessione, il buon senso, il retto giudizio, se talvolta vietavano gli alti voli, davano un sapore di sagacia e di verità alle sentenze. Della verità e della semplice schiettezza la sua mente chiara e sana era innamorata; e quando essa poteva liberamente esprimersi, senza passare a traverso la trasformazione di pensieri convenzionali e di forme retoriche, manifestava puramente il vero.

Nell'opera sua, dunque, non conviene cercare lampi geniali d'altezze sintetiche, non lusso smagliante di fantasia, non impeti gagliardi di sentimenti; ma potenti rivelazioni di anime, verità ed evidenza insuperabili di rappresentazione, vivacità, arguzia, satira, buon senso, sano giudizio: rilievo e perfezione di forma, fusione d'armonia nel componimento e varietà infinita di particolari.

Per coteste qualità d'animo e di mente scrisse sonetti ne' quali all'impeto prevale l'euritmia, al grande quadro è sostituito il particolare vivace, e l'arguzia finale ha singolare importanza. Per coteste qualità egli non parla mai, ed evita così di esprimere il sentimento suo, ma fa muovere e parlare gli altri, nei quali talvolta si rimpiatta; e la sua timidità gli permette di esprimere così più liberamente il pensiero.

Esaminando fra poco il metodo di cui egli si servì e l'opera sua – intendo sempre parlare dell'opera dialettale, chè della italiana non importa discorrere – vedremo come l'uno e l'altra fossero necessaria conseguenza dell'uomo e del tempo, e come all'uomo e al tempo si attagliassero; e però la poesia del Belli è grande arte.

Ma il Belli, per esprimermi in sintesi, fu più artista che poeta, ed ebbe grande potenza di assimilazione.

IV

Conosciuti così la vita romana del tempo e l'animo e la mente del Belli, cioè la fonte della ispirazione e il generatore dell'opera, sarà agevole intenderla cotesta opera, sia pel proposito che per l'esecuzione.

Del resto, il nostro poeta, nella lettera allo Spada amico suo, da più scrittori riprodotta, ebbe cura di esprimere così chiaramente e compiutamente il proprio pensiero, da risparmiarci il lavoro della interpretazione.

«Vengo carico (così egli scriveva), di nuovi versi da plebe. Ne ho sino ad oggi in centocinquantatrè sonetti, sessantasei de' quali scritti dopo la metà di settembre. A guardarli tutti insieme, e unendovi col pensiere quel di più che potrà uscire dai materiali già raccolti, mi pare di vedere che questa serie di poesie vada a prendere un aspetto di qualche cosa, da poter forse davvero restare per un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i costumi, le usanze, le pratiche, la credenza, le superstizioni, i pregiudizi, le notizie, e tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene, a mio giudizio, una impronta che la distingue d'assai da qualunque altro carattere di popolo. Nè Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di gran cosa, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Di più, mi sembra non iscompagnarsi da novità la mia idea. Un disegno così colorito non troverà lavoro da confronto che lo precedesse… Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso; insomma, cavare una regola dal caso e una grammatica dall'uso; ecco il mio scopo. Il numero poetico deve uscire come per accidente dal casuale accozzamento di correnti e libere parole e frasi, non iscomposte giammai, nè corrette, nè modellate, nè accomodate con modo diverso da quello che ci può mandare il testimonio delle orecchie. Che se con simigliante corredo di colori nativi giungerò a dipingere tutta la morale e civile vita e la religione del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere, non disprezzabile da chi guarda senza la lente del pregiudizio. Non casta, non religiosa talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparrà la materia e la forma; ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e più lasciata senza miglioramento.»

Il disegno, come si vede, era vasto e geniale: ed egli doveva (le qualità dell'animo e dell'ingegno le abbiamo conosciute) colorirlo con perfezione di particolari, sia per la diligenza del raccogliere, sia per l'acutezza dell'osservare, sia pel fine gusto dello scegliere, sia per l'assidua cura della schiettezza, della semplicità e del rilievo di forma.

Il suo metodo è noto, perchè l'ha espresso egli stesso e ne son rimaste le prove: ed è il metodo più pedantescamente verista che si conosca, da disgradarne lo stesso Zola.

Il Belli frequentava le piazze, le strade, le osterie, tutti i luoghi nei quali conveniva la plebe di Roma: e colà guardava, udiva osservava e rammentava. La vista di un tipo, l'audizione di un dialogo o di un racconto, quando egli col suo fine gusto artistico comprendeva che se ne potesse trarre un quadro vivo per carattere e colore, gli offrivano il motivo del sonetto; ed egli lo notava in fogliolini di carta. E v'aggiungeva l'immagine saliente o la frase arguta finale ed anche qualche espressione più significativa per caratteristica naturalezza; immagini, frasi, espressioni udite tutte dalla bocca della plebe. Così in ciascuno di quei fogliolini che egli custodiva con cura stava il germe e lo scheletro d'un sonetto. La polpa ce la metteva egli e senza stento, poi che il pensare, il sentire e il parlare del popolo gli erano passati, dopo tanta consuetudine, in succo ed in sangue.

Tutti i sonetti uscirono da cotesta medesima origine? No certo; come assai note rimasero nei fogliolini senza trasformarsi in sonetti, così è da credere che molti sonetti siano nati dalla fantasia del poeta, senza il soccorso delle note. Ma la sua memoria, per quel continuo esercizio di ascoltare, scegliere e raccogliere, era così piena di vita e di discorsi popolari, e la sua fantasia per quell'assiduo comporre sonetti romaneschi era così atteggiata a quel genere di creazione, che anche i sonetti scritti d'ispirazione e senza fogliolini non erano che l'effetto, più o meno avvertito, di immagini fotografate nel cervello e di materia raccolta e, dopo una trasformazione chimica intellettuale, assimilate.

La prova più convincente che l'io del poeta aveva nella creazione di quell'opera una parte modesta è offerta dalla grigia mediocrità di tutti i versi italiani scritti da lui. Tanta differenza tra il poeta romanesco e il poeta italiano sarebbe incomprensibile, se egli fosse l'unico autore di tutti i suoi versi. Il vero è che la principale autrice del grande poema belliano fu la plebe di Roma, la cui arguzia e il cui umore satirico son celebri nella storia.

Merito singolare del Belli fu d'aver saputo cogliere fra le migliaia di fatti, d'immagini, d'espressioni che gli passavano dinanzi, i tratti essenziali del carattere, con finissimo gusto di scelta, e di averli saputi riprodurre con una verità e con un colorito dei particolari e con una fedeltà ed una schiettezza di rappresentazione, da metterci innanzi il quadro vivente, illuminato dalla genialità dell'arte. E però egli è grande e fra i poeti italiani del secolo occupa un luogo eminente; ma creatore non è.

Si è discorso dell'effetto che deve aver prodotto in lui la lettura del Porta; ed alcuno affermò che il Porta generò il Belli. Io non credo: corre troppo grande differenza tra i due poeti. Che se da vero la lettura del Porta avesse eccitato la produzione dei sonetti del Belli, questi non avrebbero cominciato a piovere nel 1829, quando il Porta era stato letto da lui nel 1827; ma nello stesso anno 1827 o nel 1828. Credo perciò che il Porta possa aver acceso nel Belli il desiderio di scrivere in dialetto; ma non più di questo. Ripeto ancora; il poema belliano è dovuto in gran parte alla plebe di Roma.

V

Ed ora possiamo esaminarlo cotesto poema nella sua maravigliosa varietà; ed apprezzarne i principali motivi e le forme principali4. Ammirandolo, troveremo la prova di quanto abbiamo affermato e intorno alla vita romana e intorno al poeta.

Abbiamo già detto che quell'ambiente, visto da quella mente, attraverso i giudizi del popolo di Roma, doveva generare poesia specialmente satirica. E la satira difatti tinge del suo colore la massima parte della produzione belliana: così che il Belli è universalmente noto come poeta satirico.

La satira, per la vita romana del tempo, doveva esercitarsi e si esercitò massime sulla religione, sul governo e sul clero; e doveva essere, come fu, acre e minacciosa. Ma si esercitò anche sui costumi e sui vizî del popolo, sebbene più blanda, allora, e quasi venata di un humour bonario.

Della religione il Belli scrisse come chi non ha la radiosa visione di Dio, non il dolce conforto della fede, per essere stati spenti l'una e l'altro dalla volgarità della simonia, dalla irrazionalità dei dogmi, dagli eccessi del culto. La sinistra luce che dal prete egli proietta anche sulle più pure concezioni, come Cristo e Maria, spiace, perchè spiace ogni eccesso; ma la fine arguzia, la logica stringente, la frase scultoria abbattono con tale violenza idoli, costruzioni teologiche e precetti preteschi, che, dopo la lettura del Belli, pare che su quel mondo abbia roteato la clava di Ercole.

Un povero popolano invoca per la moglie malata il miracolo di Santa Filomena e offre candele al prete: (III. 339).

 
Lui se l'acchiappa e ddoppo: «Fijjol mio
Me disce, vostra mojje a cche sse trova?
Dico: llì llì ppè ddà ll'anima a Dio.»
E llui: «Dec…i ch'io la fo sta prova?
Rieccheve li moccoli, perch'io
Nun vojjo scredità una santa nova.»
 

Ecco come si ragiona per difendere gli ebrei dall'accusa d'aver crocifisso Gesù: Gesù discese in terra

 
 
Cco' l'idea de quer zanto venardì.
Dunque, seguita a ddì Bbaruccabbà,
Subbito che llui venne pe' mmorì,
Cquarchiduno l'aveva da ammazzà. (IV. 162).
 

E perchè San Gregorio Magno era consigliato dallo Spirito Santo, che nei dipinti figura dipinto all'orecchio suo?

 
Va spargenno pe Rroma un framasone
Ch'er papa san Grigorio tammaturco
Era un furbo e un maestro de finzione.
E pprotenne quell'anima de turco
Che in ne l'orecchia, pe'cchiamà er piccione,
Ce se metteva un vago de granturco. (IV. 223).
 

Perchè il Vicario di Cristo mantiene i soldati, mentre il figliuolo di Dio non li ebbe?

 
«Fijjo, disce, voi sete un iggnorante,
E nun zapete come li peccati
Hanno fatto la cchiesa militante.
Pe' cquesto er Papa ha li surdati sui,
E ssi Ccristo teneva li sordati,
Sarebbe stato mejjo anche pe' llui.» (V. 291).
 

Ma del resto, fiacchi soldati i papalini. Un plebeo che racconta i suoi mali e le sanguigne sofferte, esclama: (II. 325).

 
Venti libbre de sangue! eh? cche ccanajje!
L'esercito der Papa nun ce tiggne
La terra, manco in trentasei bbattajje.
 

La carrozza che portava il miracoloso Bambino Gesù dell'Ara Coeli ribalta: (V. 132).

 
La cosa in zè mmedema nun è ggnente,
Ma a sti tempi che ppoco sce se crede
Va' cche impressione possi fà a la ggente!
Ggesù Bbambino, inzomma, fa sto sprego
De miracoli, e llui non ze tiè in piede!
Prima càrita ssincipi tabbègo.
 

Cotesto proverbio latino mal concio, invocato a sostegno della tesi, è un'uscita geniale. Ne potrebbe essere più comica l'antitesi in Santa Rosa: (II. 366).

 
Santa Rosa era sciuca e annava a scola;
E ffascenno la cacca a la ssediola,
Tirava ggiù mmiracoli a ccarrette.
 

E, prima di riferire qualche saggio di satira politica, importa riprodurre per intiero Er fugone de la sagra famijja, in cui la forza satirica, velata dalla forma burlesca, raggiunge il vertice dell'arte: (II. 19).

 
Ner ventisette de dicemmre a lletto,
San Giuseppe er padriarca chiotto chiotto
Se ne stava a rronfà ccom'un porchetto
Provanno scerti nummeri dell'otto;
 

(sogliono i popolani sperimentare la bontà dei numeri pel lotto, ponendoli la notte sotto il guanciale).

 
Cuanno j'apparze in zogno un angeletto
Cór un lunario che ttieneva sotto;
E jje disse accusì: «Gguarda vecchietto,
Che festa viè qui ddrento a li ventotto.»
Se svejjò San Giuseppe com'un matto,
Prese un zomaro ggiovene in affitto,
E pe' la prescia manco fesce er patto.
E cquanno er giorno appresso uscì l'editto,
Lui co' la mojj'e 'r fio ggià cquatto quatto
Viaggiava pe' le poste pe' l'Eggitto.
 

Nella satira politica (e se ne intende agevolmente la ragione) il Belli è anche più violento ed amaro. Papi, cardinali, monsignori, curati, preti, frati, governatori, decani, favoriti, tutti son frustati; il mal costume, il disprezzo delle leggi, la disonestà delle amministrazioni, i lussi sfrenati, le acerbità del Fisco, le crudeltà delle persecuzioni politiche e la tolleranza dei delitti, gli abusi d'ogni maniera sono immortalmente designati all'odio e al disprezzo degli uomini, in figure che paiono fuse nel bronzo.

Papa Gregorio era un beone.

 
Ho sentito mo ppropio de risbarzo
(Maah! mmosca veh! nun me ne fate utore)
Che Llui, Su' Santità, Nuostro Siggnore
Spesso se scola un quartarolo scarzo. (V. 118).
 

(Riflettete all'antitesi tra Nostro Signore e il quartarolo).

Papa Gregorio aveva fama d'uomo timido, e il Belli scrive cotesto capolavoro:

Er Viatico de l'antra notte. (V. 99)
 
Notte addietro, ar quartier de la Reale
De San Pietro, le scento sintinelle
Strillòrno all'arme! e a lo strillà de quelle
Er tammurro bbattè la ggenerale.
Pènzete er Papa! Bbutta l'urinale
E in camiscia, e ssi e nno ccò le sciafrelle
Va a li vetri; e cche vvede, Raffaelle?
Passà immezz'a ddu torce er Prencipale.
Cor naso mezzo drento e mezzo fora,
Chè ttanto inzin'a cqui llui sce s'arrischia.
Fa' allora: «Eh bbuggiarà! ppropio a cquest'ora!»
Povero frate! è ttanto scacarcione
Che ssi una rondinella passa e ffischia
La pijja pe' na palla de cannone.
 

Il Papa vuol avere la via sotterranea per Castel Sant'Angelo, perchè (V. 290).

 
Drent'a Ccastello ppo' ggiucà a bbon gioco
Er Zanto Padre, si jje fanno spalla
Uno pe' pparte er cantiggnere e er coco.
E ssotto la bbanniera bianca e ggialla,
Po ddà commidamente da quer' loco
Binedizzione e ccannonate a ppalla.
 

Ecco lo specchio del governo:

 
Cuanno er Zommo Pontefisce cià mmostro
Che cqualúnque malanno che sse dia
S'abbi d'arimedià co' un po' d'inchiostro.
Co' un po' d'incenzo e cquattro avemmaria:
Cquanno se vede che lo stato sbuzzica,
E che er ladro se succhia tutto er grasso,
E 'r Governo lo guarda e nun lo stuzzica;
Tu allora, che lo vedi de sto passo.
Di cch'er Governo è ssimil'a una ruzzica.
Che ccurre curre fin che ttrova er sasso.
 

E la parola fu profetica, perchè trovò il sasso e si fermò.

Ridicolo cotesto potere temporale del Capo della Religione, perchè (III. 146).

 
Che bbella cosa sarìa stata ar monno
De vede er Nazzareno a ffà la guerra
E a scrive editti fra vviggijja e ssonno!
 
 
E dde ppiù mannà ll'ommini in galerra,
E mmette er dazzio a le sarache e ar tonno
A Rripa-granne e a la Dogàn-de-terra.
 

Festeggiate la nascita d'un figliuolo? Male: non è da far festa.

 
Poveri scechi! E nun ve sète accorti
Ch'er libbro de bbattesimi in sto stato
Se poterìa chiamà Llibbro de morti? (III. 345).
 

Ecco come si vive a Roma:

Er ventre de vacca. (II. 347)
 
Na setta de garganti che rrameggia
E vvò tutto pe' fforza e ccò li stilli;
Un Papa maganzese che stancheggia,
Promettennosce tordi e cce dà ggrilli;
N'armata de Todeschi che ttraccheggia,
Ecce vò un occhio a ccarzalli e vvestilli:
Un diluvio de frati che scorreggia,
E intontisce er Zignore cò li strilli:
Preti cocciuti ppiù dde tartaruche;
Edittoni da facce un focaraccio.
Spropositi ppiù ggrossi che ffiluche:
Li cuadrini serrati a ccatenaccio;
Furti, castell'in aria e ffanfaluche:
Eccheve a Rroma una commedia a bbraccio.
 

Un ultimo quadro (mi si perdoni se citando il Belli io debbo sovente riferire immagini e parole sconvenienti e rozze; le ho, per quanto era possibile, evitate, ma non del tutto, che son troppo familiari a lui e alla plebe di Roma e troppo caratteristiche) un ultimo quadro di genere e passeremo ad altri argomenti.

Er logotenente
 
Come intese a cciarlà der cavalletto,
Presto io curze dar sor logotenente:
«Mi' marito… Eccellenza, è un poveretto…
Pe' ccarità… cchè nun ha fatto ggnente.»
Disce: «Mettet'a ssede.» Io me sce metto.
Lui cor un zenno manna via la gente:
Po' me s'accosta: «Dimme un pò ggrugnetto:
Tu' marito lo voi reo o innoscente?»
«Innoscente, dich'io;» e llui: «Sciò ggusto:»
E ddetto-fatto cuer faccia d'abbreo
Me schiaffa la man dritta drent'ar busto.
Io sbarzo in piede e strillo: «Eh, sor cazzeo…!»
E llui: «Fijjola, cuer ch'è ggiusto è ggiusto:
Annate via: vostro marito è rreo.»
 

Dei sonetti nei quali il Belli ha dipinto con colori satirici la vita dei chiostri, ne riferirò uno, notevole anche perchè inedito. Ne possiede il manoscritto l'egregio professor Pio Spezi, studioso del nostro poeta e autore di pregevoli scritti sull'opera sua. Eccolo:

Er capitolo
 
Li frati ereno trenta; e ffra costoro
Venuto er giorno de creà er guardiano,
Prima pranzorno, eppoi, doppo lo spano,
Calorno in fi'a tutt'e ttrenta in coro.
Ellì, a uno a uno, ognun de lóro
(Comincianno, s'intenne, dar più anziano)
Co una cartina siggillata in mano,
Annò a fficcalla in un bussolo d'oro.
Fatto questo se venne a la lettura:
Frà Mmatteo, frà Ttaddeo, frà Bbenedetto,
Frà Elia, frà Bbeda, frà Bbonaventura…
Inzomma un doppo l'antro un terremoto
De nomacci, e' r guardiano nun fu eletto
Perchè tutti li frati ebbeno un voto.
 
7 marzo 1836.

Abbiamo detto che la satira del Belli non si arrestò alla Chiesa, ma, sebbene non senza bonarietà, si esercitò anche sui costumi della borghesia e della plebe.

La rozzezza e l'ignoranza, l'apatia e l'accidia, la prodigalità dissennata, il pettegolezzo e la maldicenza, la dissolutezza del costume, l'indulgenza verso il reato, l'inganno nel commercio sono effigiati in vive ligure.

Una popolana dà pegni al Monte di Pietà:

 
Pe' annà a Ttestaccio a divertisse un po' (IV. 290).
 

e una famiglia va a chiedere l'elemosina per poter bagordare il Martedì Grasso:

 
Pe mme vvojjo annà a lletto a ppanza piena;
E prima me daria la testa ar muro,
Che cchiude un carnovale senza scèna. (III. 28).
 

Uno dei più bei gusti è quello di deturpar le mura:

 
Tutta la nostra gran zoddisfazzione
De noàntri quann'èrimo regazzi
Era a le case nove e a li palazzi
De sporcajje li muri còr carbone
 
 
Quelle so bbell'età, per Dio de leggno!
Sibbè ch'adesso puro me la godo,
E ssi cc'è mmuro bbianco io je lo sfreggno. (III. 399).
 

E come s'educano i figliuoli?

3Il poeta romanesco G. G. Belli e i suoi scritti inediti nella Nuova Antologia, VII, 1879.
4Mi asterrò dalle citazioni del 1º volume perchè questo contiene i sonetti meno perfetti e da quelle del 6º volume, perchè contiene i sonetti più osceni.