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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I

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Si narra che da prima tentasse entrare nelle Guardie Nobili del Papa e che risaputosi della sua infermità, il comandante, principe Barberini, non lo volesse ammettere. Erano gli ultimi guizzi degli antichi ardori cavallereschi, e si spensero così! Oramai l'ultima sua speranza erano il sacerdozio e la prelatura, quest'ultima la gran via degli onori e della fortuna nella Roma d'allora. Ma il Mastai, sempre più infervorato di idee religiose, cominciò bene la sua carriera, offrendosi ad un modestissimo ufficio di carità pei poveri orfani dell'ospizio di Tata Giovanni (Papà Giovanni vuol dire, in dialetto romanesco), un ricovero fondato già da un povero muratore, che si chiamava Giovanni Borghi.

In quella vita di sagrificio e di abnegazione operosa, la sua salute migliorò notabilmente, siccome gli avea presagito Pio VII, i cui incoraggiamenti ve l'avevano spinto, ed il giovine Mastai, ammiratore devoto di questo Papa, che le violenze di Napoleone aveano circondato d'un'aureola di santità e di martirio, ebbe il presagio in conto di profezia e di miracolo, e si fece prete.

Com'è di tutte le nature ardenti e impulsive (ed il Mastai certamente lo era) ben presto le quattro mura dell'ospizio di Tata Giovanni gli parvero anguste alla nuova energia morale, risvegliatasi in lui, e gli sorrise un più vasto campo di lotta, la predicazione, la missione evangelica in terre di barbari e di idolatri ed, occorrendo, la persecuzione e il martirio. Si provò prima, come oratore sacro, nella chiesetta dell'ospizio, poi dinanzi a pili vario uditorio in San Carlo al Corso, ed il successo non fu nè piccolo, nè grande. Pure si parlò di lui e qui viene a collocarsi nella sua vita un aneddoto singolare e che allo studio dell'uomo, qual era, importa non poco.

Una delle ultime forme delle Sacre Rappresentazioni medievali, dalle quali ebbe origine il teatro moderno, e che più specialmente si riattacca, mi pare, a quelle, che nella magistrale opera del D'Ancona su questo argomento, sono dette i Contrasti, era un genere di predica popolare, fatta per lo più sulle piazze e di cui si valevano i missionari, la qual predica si faceva in due o tre contemporaneamente, disputando fra essi in una specie d'azione dialogizzata fra un dotto e un ignorante, fra un peccatore indurito e il prete, che vuol convertirlo, e via dicendo. Or bene, il cardinale Testaferrata, vescovo di Sinigaglia, volle nel 1822 organizzare una di tali rappresentazioni in quella città e (caso o disegno che fosse) nella compagnia dei Missionari, colà spedita, fu scritturato il Mastai. Pochi anni prima Sinigaglia l'avea conosciuto, come dissi, sotto ben altre spoglie e ben altre sembianze. Rivederlo ora sul trespolo dei missionari, accanto a un gran crocifisso, sotto la zimarra del prete; udirlo esortare e minacciare i peccatori colla voce tremula, il gesto agitato, lo zelo, la passione d'un apostolo, in cui gli uditori subodoravano la contrizione d'un convertito, produsse un effetto incredibile, e qui pure la malevoglienza ha intrecciato leggende d'ogni fatta: bische e taverne invase a furor di popolo: sante Terese in estasi; Maddalene, penitenti, innamorate, impazzate. A noi basta notare l'antitesi drammatica significantissima anche in questo episodio della vita del Mastai.

Ne segue un altro nel 1823 di ben più vaste proporzioni: una sua missione mezzo tra diplomatica e apostolica al Chilì. Non più ora la modesta piazza d'una città delle Marche, ma un più vasto orizzonte s'apre dinanzi alla fantasia del giovine e del prete: l'Oceano infinito, i monti mostruosi, la vegetazione dei tropici, selvaggi da convertire alla fede, repubblichette ringhiose e sanguinarie da ammansare, e, chi sa? forse il trionfo, forse invece la schiavitù, il martirio! Capo della missione era un monsignor Muzi, vescovo in partibus e compagno al Mastai un prete Sallusti, che ha narrato il viaggio in quattro grossi volumi, illeggibili veramente, nonostante che il viaggio fosse in realtà disastrosissimo, e i rischi corsi, e i patimenti sofferti non pochi nè lievi. Tutto però si riduce a mal di mare, tempeste, quarantene, nulla di molto romanzesco, voglio dire, nè come missione apostolica, perchè non si sa d'alcun idolatra convertito dall'eloquenza del Mastai, nè come missione diplomatica, perchè non si sa d'alcun importante negoziato condotto a termine da monsignor Muzi.

Ad ogni modo un immenso viaggio (di cui è certo esistere una narrazione scritta dallo stesso Mastai, ma ancora inedita e sconosciuta da tutti) un immenso viaggio per quei tempi da Roma a Santiago e da Santiago a Roma, ove furono di ritorno nel 1825, e trovarono morto da tempo Pio VII e succedutogli il Della Genga col nome di Leone XII, per fortuna del Mastai assai benevolo a lui. Difatto lo nominò tosto Presidente dell'Ospizio di San Michele, asilo di vecchi e penitenziario di donne, in cui il Mastai, quanto era stato tenero, indulgente, pietoso nell'ospizio di Tata Giovanni, altrettanto si mostrò orgoglioso, severo, inflessibile; contraddizione singolare, che anch'essa dice non poco dell'indole dell'uomo e di parecchie sue gesta future. Due anni dopo era nominato Arcivescovo di Spoleto, ed ivi è il suo primo contatto colla Rivoluzione Italiana.

Dissi già che la Rivoluzione Bolognese del 31 avea spinte le sue squadre, sotto il comando del Sercognani, vecchio soldato di Napoleone, sino ad Otricoli. Non osò correre su Roma e si fermò dinanzi a Rieti, dove Gabriele Ferretti, un vescovo con atteggiamenti guerreschi alla medio evo e che fu poi Segretario di Stato di Pio IX, stava con bande armate sugli spaldi della città. Il Sercognani retrocedette sino a Spoleto ed ivi l'arcivescovo Mastai riescì a disarmare e sciogliere le truppe del Sercognani.

È d'uopo sceverare ancora la leggenda dalla realtà. C'è chi ha dipinto il Mastai in questa occasione un politico sopraffino e senza scrupoli, che fa di Spoleto la Capua del Sercognani e dopo averlo ammollito nelle delizie e versandogli l'oro a piene mani, lo induce a disarmare e sciogliere le sue truppe, le quali alla spicciolata, credendo ridursi alle proprie case con un salvacondotto, cascano invece in mano agli Austriaci, che s'avanzavano a grandi giornate da Bologna ed Ancona. C'è invece chi ha dipinto il Mastai, come già intinto di pece rivoluzionaria e amoreggiante coi liberali, laonde poi sarebbe caduto in disgrazia di Gregorio XVI e tramutato ad Imola. Quanto all'oro intascato dal Sercognani, parli per questo povero soldato la sua fine. È morto esule e miserabile in uno spedale di Parigi. Quanto all'arcivescovo Mastai, la sua condotta in quel frangente non merita:

 
Ni cet excès d'honneur, ni cette indignité.
 

Dinanzi ai primi subbugli di Spoleto egli si era prudentemente allontanato. Tornò, perchè il Governo Pontificio avea messo nelle mani di lui anche il potere civile e allora si conformò pienamente a quello che aveva fatto il cardinale Benvenuti colla capitolazione d'Ancona. Il Sercognani, cioè, che retrocedeva da Rieti, sapendo già della capitolazione di Ancona e dell'intervento austriaco, capitolò esso pure nelle mani del Mastai. Che colpa ebbero il Mastai e il Sercognani, se la capitolazione fu disdetta? Tuttociò si vede chiaro nelle lettere del Mastai al Bernetti e al Benvenuti, che sono pubblicate, e da esse risulta soltanto che il Mastai fu mite ed onesto fra tanta gente senza onore e senza pietà. È molto; ma non è quello che amici e nemici si sono piaciuti d'immaginare!

Ed ora torniamo ai cospiratori di Bologna, che lasciammo nella primavera del 43, aspettanti per muoversi l'annunziata rivoluzione di Napoli, dove avevano spedito per informarsi il conte Livio Zambeccari.

Figlio d'un areonauta, che, dopo prove e riprove, s'era accoppato precipitando, come Icaro, dal cielo, mentre stava cercando il punto d'appoggio nell'aria e la direzione dei palloni volanti, nel conte Livio s'era travasato non poco del fantastico genio del padre. Emigrato nel 21, cavaliere errante di repubblica, prima in Ispagna, poi nell'America meridionale, appena tornato, s'era rimesso all'opera rivoluzionaria, nella Giovine Italia. Spedito ora a Napoli dal Comitato bolognese, scriveva tosto colà mirabilia, assegnando persino il giorno che la rivoluzione sarebbe scoppiata, cioè l'ultimo di luglio, festa di Sant'Ignazio. Non gli fu creduto! E poichè trovavasi in Bologna a quei giorni, sotto finto nome, il Ribotti, esule nizzardo, partecipò tanto egli stesso, uomo di grande ardire e di buon ingegno, ai dubbi che tormentavano il Comitato sulla veracità di quelle asserzioni, che si profferse d'andare in persona ad accertarla.

Intanto però il Governo Pontificio era già sull'intesa e, per cominciare, fece accerchiare da birri e soldati la villa, in cui dimoravano i fratelli Pasquale e Saverio Muratori, principalissimi fra i congiurati. Essi scamparono colle armi in mano, e messa insieme una guerriglia cui si unirono altri usciti da Bologna (non tutti purtroppo brava e onesta gente, com'erano i fratelli Muratori), presero a Savigno la via dei monti, batterono a Castel del Rio una squadra di Papalini, e quindi aiutati da Don Verità, prete di Modigliana, dal Montanelli e da altri amici di Toscana, poterono finalmente raggiungere il mare, imbarcarsi e rifugiarsi in Corsica.

Svanita ogni speranza d'un moto napoletano, benchè in realtà una preparazione vi fosse stata in Malta, iniziata da Nicola Fabrizi e mezzo secondata e mezzo avversata dal Mazzini (il che spiega le illusioni del povero Zambeccari), svanita, dico, ogni speranza d'un moto napoletano, il Ribotti, tornato a Bologna e per sfruttare il fermento, che durava ancora vivissimo dopo il tentativo dei fratelli Muratori, ne pensò un altro, più rischioso ancora, se possibile, in Settembre.

Villeggiavano tra Imola e Castelbolognese tre cardinali, l'Amat, il Falconieri e Giovanni Maria Mastai, creato già Cardinale da Gregorio XVI fino dal 1840. Parve al Ribotti da tentare un bel colpo: sorprendere i tre Eminentissimi, sostenerli in ostaggio, ribellare quindi le Romagne, le Marche e l'Umbria e marciar dritti su Roma. Detto e fatto. L'8 settembre 1843, a notte chiusa, aduna al ponte di Savena, presso Bologna, un duecento compagni, armati alla meglio, alla peggio, e s'incammina verso Imola. Dovevano per via trovare altri aiuti e nessuno comparve. A Imola silenzio sulle mura e porte sbarrate. A Castelbolognese lo stesso. Nella villa, che accoglieva i tre Cardinali, la gabbia aperta (come s'esprime in certe sue Memorie uno dei congiurati) e i tre cardellini volati via.

 

Non per questo il Ribotti si perse d'animo. Sbandati i suoi compagni, cercò altre trafile rivoluzionarie (ce n'erano tante!), si provò quasi da solo di sommuovere Ancona e le Marche, osò penetrare sino in Roma: figura arditissima di cospiratore, cui fa riscontro in questi moti del 43 quella di Felice Orsini, che apparisce ora per la prima volta nel dramma tenebroso delle cospirazioni politiche romagnuole, e vi dovea poi acquistare purtroppo così terribile celebrità.

Il Governo infierì con Commissioni di sanfedisti spietati, nelle quali è rimasto infame il nome d'un colonnello Freddi, che le presiedeva, e colpì di morte, di galera, di esilio un numero grandissimo di persone, mescolando ad arte nei giudizi e nelle sentenze i patriotti coi colpevoli di delitti comuni.

Nei tentativi dell'anno dopo, 1844, si compromisero il Galletti, che fu poi Ministro di Pio IX, Pompeo Mattioli ed altri, gettati tutti in Castel Sant'Angelo, mentre dall'estremo della Calabria giungeva l'eco della tragedia dei fratelli Bandiera, pietosa tanto, che il Mazzini fece di tutto per togliersene di dosso ogni responsabilità.

Contuttociò non un anno, come vedete, passava nelle Romagne senza che il fermento rivoluzionario in un modo o nell'altro si provasse a prorompere.

Il moto però, che seguì nel 1845, mentre per certi rispetti somiglia a quello del 1832, ha tuttavia un carattere tutto suo e che lo distingue così dai tentativi antecedenti, come dai posteriori di pura derivazione mazziniana.

Dissi già del Memorandum delle cinque Potenze per indurre a riforme il Governo Pontificio. Rimasto lettera morta, i cospiratori del 1845 lo ripresero a loro insegna, sperando così propiziarsi l'Europa e indurla con essi in una specie di morale complicità.

L'idea in sè non val molto, ma indica però che l'inutilità degli sforzi tentati sino allora avea generato negli animi una reazione e che anche fra gli accecamenti delle cospirazioni un'opinione moderata s'andava formando, come ho già fatto notare, la quale sentiva, se non altro, la necessità di spinger gli occhi al di là delle chiuse muraglie delle sètte.

Di qui il Manifesto di Rimini, opera di Luigi Carlo Farini (lo stile lo dice) in collaborazione col Montanelli, con le parole rimaste celebri: «Non è di guerra lo stendardo, che noi inalziamo, ma di pace, e pace gridiamo e giustizia per tutti e riforme di leggi e garanzia di bene durevole… Preghiamo e supplichiamo i principi a non volerci trascinare alla necessità di addimostrare che quando un popolo è abbandonato da tutti e ridotto agli stremi, sa trovare salute nel disperare salute.»

Con questo programma, che parlava ai sordi, si sollevò in Rimini Pietro Renzi nel Settembre del 1845, ma alla sollevazione di Rimini, finita subito, non rispose che un ardito combattimento di Pietro Beltrami e di Raffaele Pasi alle Balze e poi tutti scamparono in Toscana, il refugium peccatorum d'allora, come lo chiamava Massimo d'Azeglio.

Fra i propositi riformisti d'una opinione politica moderata e queste audaci e frammentarie prove di sommossa a mano armata v'ha una contraddizione palese ed è quello che si studiò di persuadere a tutti Massimo d'Azeglio, viaggiando ora a piccole giornate e raccogliendo poi la sostanza delle sue osservazioni e dei suoi consigli nel celebre opuscolo, che intitolò: I casi di Romagna, ammonimento d'amico ai cospiratori, requisitoria terribile contro il Governo Pontificio, e portavoce, sto per dire, di tutta quell'aperta, libera e pubblica cospirazione letteraria, di cui l'opuscolo del D'Azeglio è l'ultimo atto e il più pratico, perchè non foggia e non architetta sistemi storici o disegni politici, bensì espone fatti e accusa e difende persone. Vi si sente però l'eco della scuola romantica e liberale lombarda, come di chi, frapponendosi fra oppressi ed oppressori, consiglia ai primi la rassegnata, ma operosa, pazienza manzoniana, ed intima ai secondi il: «Dio vi ha abbandonati e non vi temo più» del Padre Cristoforo a Don Rodrigo.

Dal 1820 al 1848 la letteratura italiana è tutta una vasta cospirazione politica, che inspira, accompagna, modera ed eccita il sotterraneo lavorìo delle sètte, prorompente di quando in quando nelle sommosse. Dopo il 1840, questa letteratura, seguendo il moto sempre crescente dell'opinione pubblica liberale europea, si scioglie come può e dove può dal sottinteso, dall'allusione, dall'anfibologia e affronta alla scoperta il problema della redenzione della patria, facendo sì che la questione italiana esca fuori dall'ombra e s'imponga da sè ai pensieri degli uomini, contrari o favorevoli, che siano. Più la crisi s'approssima e più questo carattere apertamente politico e militante della letteratura italiana si determina nella lotta ancora tutta ideale di due scuole diverse, che già si trovano a fronte: da un lato il Primato di Vincenzo Gioberti, cattolico, federale, monarchico, neoguelfo e romantico schietto, e dietro a lui le Speranze d'Italia di Cesare Balbo, la Nazionalità Italiana di Giacomo Durando, la Sovranità temporale dei Papi di Leopoldo Galeotti, i Pensieri d'un Lombardo di Luigi Torelli, i Casi di Romagna di Massimo d'Azeglio; dall'altro Giuseppe Mazzini, non cattolico, ma mistico, non federale, ma unitario, non monarchico, ma repubblicano, e a lui più aderenti, benchè con parecchie diversità, il Cattaneo e Giuseppe Ferrari.

Dalla scuola del Gioberti esce il partito riformista, il primo cioè che si esperimenterà nell'azione, quando questa, mercè dell'umile Vescovo d'Imola, uscendo dai libri e dalle sommosse, incomincierà su di un campo che può dirsi nazionale davvero, e diverrà ben presto europeo.

Tale svolgimento del pensiero politico italiano e la conseguente formazione dei partiti, che io accenno di volo, ed è assai bene esposto in un libro recente di Agostino Gori, si toccano con mano nei Ricordi di Marco Minghetti e per quel poco o molto che ne trapassa nel Vescovo d'Imola e serve a creare il Pio IX del 1846, nulla è più suggestivo e d'un realismo artistico, che meglio ricostruisca scena, ambiente, e ci faccia quasi veder l'aspetto e riudir le voci dei personaggi, del libro bellissimo, in cui il mio amico, Pier Desiderio Pasolini, ha raccolte le Memorie di suo padre.

Il Mastai, liberale di vecchia data, e di cui Gregorio XVI avrebbe detto: «in casa Mastai è Carbonaro persino il gatto,» è un'invenzione dei glorificatori ad ogni costo di Pio IX ed una calunnia dei Gregoriani, trasformazione questi ultimi dei Vecchi Sanfedisti e Centurioni Pontifici, che i primordi del pontificato di Pio IX avevano sgominati ed a lui erano fieramente nemici. A Spoleto nel 1831 il Mastai non aveva inferocito. A Imola (ed era noto) s'addolorava dei delitti orrendi e della più orrenda impunità dei Centurioni papalini, e ciò bastava, se non era di troppo, per farlo passare a Roma per settario e per liberale. Se ne ha la prova in alcune lettere di lui dirette a monsignor Polidori e pubblicate alcuni anni fa dal conte Paolo Campello. «Si è procurato, scrive il Mastai nell'agosto del 1834, di dipingermi in Roma come un vescovo poco meno che liberale.» E, alludendo a Spoleto, soggiunge con amarezza: «le impertinenze, che ho ricevuto dai cosiddetti Papalini, è certo che non le ho ricevute dai liberali nella quaresima del 1831: questo argomento, se lo esternassi a certa classe di Papalini, sarebbe bastante a farmi divenire poco meno che un M.r Grégoire.» Dal contesto della lettera si vede chiaro che le accuse muovono dai Centurioni e dai loro capi, i quali, per quanto il Mastai dissimuli, esso disprezza come meritano, concludendo: «in mezzo a queste tempeste di fanatismo mi sento tranquillo!» Notevolissimo è pure il brano seguente d'una lettera scritta al Polidori nel novembre del 1845, due mesi dopo la sommossa di Rimini, informandolo d'un conciliabolo fra i Cardinali Legati di Bologna, Ferrara e Ravenna. «La mia politica, scrive, non ha oltrepassato l'a, b, c e per conseguenza giudico con questi soli primi elementi, e dico che un tal congresso darà a chiacchierare, senza che se ne possa ottenere risultati.» E chiude con un testo latino, il quale significa: «se Dio non ci aiuta lui, non sarà sicuramente il congresso dei tre Eminentissimi, che ci salverà!»

Un certo lievito d'opposizione traspare, non v'ha dubbio, da queste parole, e pel solo fatto di non essere un malvagio, come gli altri, uno scoramento malinconico, un sentirsi solo, isolato, impotente a fare un po' di bene, come avrebbe desiderato, e circondato dal sospetto, dalla diffidenza e dallo spionaggio.

È appunto in questo momento ch'egli si lega di tanta intrinsichezza colla famiglia dei Pasolini e s'intende bene in quale precisa disposizione di spirito.

Quella vecchia villa di Montericco presso Imola, ove i Pasolini abitavano, si capisce quindi che a poco a poco dovea diventare pel cardinale Mastai un asilo, un rifugio, un riposo, in mezzo alle tante tristezze e iniquità, fra le quali gli toccava di vivere. Colà trovava un giovine signore, indipendente affatto per la sua alta condizione sociale, pei suoi principii religiosi, per le sue opinioni liberali, per le qualità del suo ingegno e del suo carattere, così da ogni timore del Governo, come da ogni vincolo settario (caso raro in Romagna a quel tempo) ed al suo fianco una gentildonna, giovanissima essa pure, colta, pia, graziosa e tutta lieta della sua domestica felicità, un vero raggio di sole in quel buio della Romagna d'allora.

Nell'interno di quella casa, quale l'ha descritto lo stesso Giuseppe Pasolini in una lettera a sua nuora, «una semplicità, che sentiva d'austero e pure non contrastava ai comodi della vita, un odore di vecchio e di rispettabile passato e presente, una solitudine senza vicini obbligati, una vita quieta, ma operosa; modesta, ma non inelegante.»

Il Cardinale, non volgare uomo e con educazione ed istinti signorili, doveva sentirsi attratto dalla genialità di quell'ambiente, che poi lo affidava d'una lealtà d'amicizia e d'una onestà d'intenzioni, non facilmente trovabili altrove da lui in quel momento. Non nudrito di forti studi, nè abituato a scrutare a fondo gli argomenti, che lo interessavano, ne discorreva volentieri con un certo dilettantismo vago, che, scontrandosi colla solida e varia coltura del Pasolini e colla fresca, spontanea e simpaticissima vivacità della sua gentile signora, se ne sentiva come rinfrancato, e gli schiudeva nuovi orizzonti, facendogli smettere quella nativa diffidenza di sè e delle proprie forze, per cui, ad esempio, nello stesso modo che al Polidori scriveva nel 45: «la mia politica non ha oltrepassato l'a, b, c,» così ripeteva ora al Pasolini: «ma già io non intendo un ette di politica, e forse sbaglio.» Ciò a proposito d'un tema, su cui era naturale che tornassero spesso, la possibilità teorica e pratica d'un accordo fra il progresso e la religione, fra la fede cattolica ed i principii liberali, ed il contrasto fra le aspirazioni del patriottismo italiano ed i metodi di governo del Papa e dell'Austria, che rendevano necessario cotesto orribile intreccio di sètte opposte le une alle altre, di violenze, di sommosse, di castighi, di repressioni, da cui non si vedeva un'uscita.

Il Mastai era ora in quella medesima condizione d'animo, in cui s'era trovato il cardinale Chiaramonti, che fu poi Pio VII, suo predecessore appunto nel Vescovato d'Imola e da lui venerato come un santo, il quale in una sua Omelia del dicembre 1797, documento singolarissimo, volle con accesa eloquenza dimostrare che i principii del Vangelo non contrastavano a quelli della vera democrazia e che si poteva benissimo essere buoni Cattolici e buoni Repubblicani.

Il Mastai non aveva forse tenuto dietro da studioso allo svolgimento di questa dottrina di conciliazione, che, ripresa dal romanticismo liberale del 1830, imprimeva ora un moto interiore d'opposizione agli oscurantisti ed ai Gesuiti in tutto il giovine clero e avea rappresentanti notevolissimi nella scienza, nelle Università d'Europa e nella Chiesa, apertamente professandola dalle cattedre e dai pulpiti di Parigi l'Ozanam, l'abate Coeur, il Lacordaire, il Ravignan, che il conte e la contessa Pasolini dovevano aver ascoltati nei loro recenti viaggi, come gli avea ascoltati il Minghetti, che viaggiava appunto in Francia nel 1844.

 

Il Mastai non avea forse, dico, tenuto dietro da studioso allo svolgimento di questa dottrina, ma la sentiva in fondo all'animo suo, come l'hanno sempre sentita del resto gli stessi rivoluzionari italiani, i quali dai Carbonari al Gioberti e al Mazzini non hanno mai dissociata del tutto la tendenza spiritualista e religiosa dalla loro azione politica. Si andava ora più oltre. I libri del Gioberti e del Balbo fondavano addirittura su quella dottrina i loro disegni di redenzione della patria italiana, e così d'uno in altro argomento di conversazione era facile a Giuseppe e Antonietta Pasolini condurre sul difficile terreno della politica il cardinale Mastai, il quale, colla fantasia facilmente accensibile e infervorandosi sempre più nei suoi lunghi e frequenti colloqui con essi, finiva a deplorare commosso e quasi piangente la condizione tristissima del presente e ad augurare un migliore avvenire, che solo un po' di buon senso, di mitezza e di giustizia cristiana nel governo gli pareva dovessero bastare a far conseguire.

Per confermarlo sempre più in queste idee, una volta era il conte Giuseppe, che gli dava a leggere il Primato di Vincenzo Gioberti, un'altra era la contessa Antonietta, che gli prestava le Speranze d'Italia di Cesare Balbo e gliene chiedeva un giudizio. Da un altro amico il Cardinale aveva già avuti i Casi di Romagna del D'Azeglio, e l'avea ricambiato con un libriccino di devozioni.

Per tal guisa la descrizione sincera dell'orribile realtà presente, riconfermatagli appunto in quei giorni dal fatto d'un centurione papalino, ferito a morte in una rissa notturna e che gli era venuto a cascare fra le braccia nella chiesa di San Cassiano, mentre egli stava pregando, per tal guisa, dico, la descrizione sincera dell'orribile realtà presente e le speculazioni d'una filosofia politica, che augurava una confederazione italiana, di cui fosse anima il Papa e spada Carlo Alberto, si univano a preparare, un po' affrettatamente, se si vuole, e come si vide dappoi, nell'umile e impressionabile Vescovo d'Imola il Pio IX del 1846, il quale per allora nel salotto dei Pasolini, discutendo di quei disegni d'avvenire, s'appoggiava impaziente ora su l'uno, ora sull'altro dei bracciuoli d'un antico seggiolone, incerto se le idee del Gioberti e del Balbo fossero sogni o vaticinii, e talvolta fissava meditabondo e lungamente un quadro, che appeso alla parete gli stava dinanzi, un vecchio quadro, che rappresentava Vittorio Amedeo III, re di Sardegna.

Il 1º giugno 1846 Gregorio XVI morì. Nel primo momento il governo temette al solito un casaldiavolo, ma non fu nulla. L'opinione moderata ormai avea fatto strada, ed i popoli si contentarono d'inviar memoriali al Conclave chiedendo riforme. Parevano necessarie ed urgenti, come abbiamo visto, anche al cardinale Mastai, che tutto caldo delle sue letture e dei suoi dialoghi coi Pasolini s'avviò al conclave, riponendo nel baule i libri del Gioberti, del Balbo e del D'Azeglio per offrirli al nuovo Papa, circostanza che è narrata dal Balbo e che i ricordi personali di Pier Desiderio Pasolini mi confermano ora pienamente con altre particolarità, taciute nel suo libro.

Quanto a Giuseppe Pasolini, esso s'accomiatò dal Vescovo d'Imola con queste solenni parole: «Io non posso tacerle che in fondo al mio cuore sta l'ardente speranza che dalla cattedra di San Pietro ella possa promulgare e benedire quei principii che tante volte abbiamo insieme discussi, e soddisfare quei voti che sì spesso abbiamo concordemente innalzati al cielo pel bene di tutta la Chiesa e per quello di questa povera Italia.»

A cui il Mastai rispose: «Caro Conte, il Papa non sarò io; ma state tranquillo, e ditelo, ditelo bene a vostra moglie; i libri, che mi avete dati a Montericco gli ho messi nel baule, perchè voglio darli al nuovo Papa.»

Il Mastai partì e il popolo gli vedea volare intorno alla carrozza da viaggio una bianca colomba, prenunziatrice della buona novella. L'oscura vita del Vescovo d'Imola era finita! La grande leggenda era già incominciata!!

Il conclave fu brevissimo. Stavano a fronte due fazioni, capitanate l'una dal cardinale Lambruschini, l'altra dal cardinale Bernetti. E se il cardinale Gaysruck, depositario, si disse, del veto dell'Austria, fosse giunto in tempo, forse la fazione del Lambruschini vinceva. Ma il Gaysruck non giunse in tempo e il Lambruschini ebbe fretta. Al primo scrutinio egli ebbe 15 voti, 12 il Mastai, 23 andarono dispersi. I 23 non avevano un candidato proprio e sicuro, e per tagliar la via al Lambruschini si unirono ai 12 del Mastai e lo elessero. All'ultimo scrutinio il Mastai era fra i verificatori e leggendo il suo nome tante volte ripetuto, le mani gli tremavano, gli occhi gli si offuscavano di lagrime e quando si vide eletto: «Ah, signori, gridò, che cosa hanno mai fatto?» e cadde svenuto. Quello che avessero fatto, non lo sapevano davvero. Ah! se lo avessero saputo!!..

Notate, Signore. Quando il cardinale Mastai divenne Papa col nome che assunse di Pio IX in omaggio alla memoria di Pio VII, dense nuvole di reazione si accavallavano sempre più minacciose per ogni dove. Quella che negli eufemismi del gergo diplomatico si chiamava l'entente cordiale fra Luigi Filippo e l'Inghilterra era rotta dal volgare inganno dei matrimonii spagnuoli, con cui il Re borghese avea voluto arieggiare Luigi XIV e invece lo avea costretto a gettarsi nelle braccia dell'Austria, che ora lo reggeva, come la corda regge l'impiccato; in Svizzera con l'aiuto dell'Austria e della Sonderbund, ossia Lega dei sette Cantoni cattolici, i Gesuiti s'erano dimostrati prontissimi per sete di dominio ad accendere magari la guerra civile, se occorreva; in Gallizia l'Austria sguinzagliava i contadini contro i nobili ribelli, fino a che fra le discordie e le stragi degli ingenui, che cascano nelle sue trappole, s'impadronirà di Cracovia. In Italia pure, salvo che in Piemonte, tutto il satellizio austriaco dei nostri principotti e principini accennava manifestamente a reazione, compresa, dopo la morte del ministro Don Neri Corsini, la mite Toscana, la quale fino allora era pur parsa una piccola oasi in paragone del resto. L'Austria del Principe di Metternich imperava dunque, si può dire, su tutta Europa, nè mai forse quel magnifico signore pareva aver più ragione di compiacersi della gran tela, che aveva ordita da più di trent'anni.

Creato Papa in tale temperie di politica ed in sole quarantott'ore di conclave, Pio IX sentì quindi nel primo momento le vertigini dell'altezza, cui era sì d'improvviso e contro ogni sua aspettazione salito, e nel primo annuncio, che ne dà ai suoi fratelli in Sinigaglia, c'è non solo l'umiltà cristiana, ma si tradisce lo sgomento, da cui è preso: «Fate pregare e pregate per me. Lungi dall'esultare, compassionate il vostro fratello.» Che cosa fare? donde incominciare? Le prime mosse, quelle prime Commissioni, nominate da lui, miste d'amici e di nemici, di retrogradi e di progressisti, mostrano, con quegli strani accozzi di persone, l'uomo che barcolla a tastoni nel buio. Per buona sorte lo sovvennero i consigli di due, che gli richiamavano a memoria i consigli e le inspirazioni dei Pasolini: il canonico Graziosi e monsignor Corboli-Bussi, prete dotto ed illuminato il primo, ed il secondo d'indole così ardente, che oggi, secondo il Minghetti, si direbbe un socialista cattolico. Furono essi (subito dopo i Pasolini) gli ispiratori dell'amnistia del 16 luglio 1846, che fece del Vescovo d'Imola l'iniziatore, nell'ordine dei fatti, del risorgimento politico italiano, e monsignor Corboli-Bussi è per di più l'estensore di quel grand'atto, nel quale, con la rotondità magnifica della prosa giobertiana, era concesso il perdono a tutti i condannati politici. Chi badò allora alle restrizioni, alle cautele, alle minaccie stesse di quel decreto? Bastò una parola di mansuetudine e di perdono, scesa dall'alto di quel trono, da cui s'era ormai avvezzi a non sentire che anatemi e condanne, perchè la materia infiammabile, da tanti anni accumulata, s'incendiasse tutta in un attimo. Quell'immensa tratta di gente, che da tutti gli angoli di Roma sale guidata da Ciceruacchio (il caratteristico tribuno trasteverino, colla giacca corta di velluto sopra corto panciotto, i calzoni stretti al ginocchio e slargantisi a campana sul collo del piede, una larga sciarpa di seta attorno alla vita, fazzoletto a fiorami attorno al collo, in testa un alto cappello a cencio e aguzzo verso la punta) quell'immensa tratta di gente, dico, che da tutti gli angoli di Roma sale ogni sera a salutare e a ringraziare Pio IX sul Quirinale, è veramente, come dimostra con infinite testimonianze Raffaello Giovagnoli nel suo importantissimo libro: Ciceruacchio e Don Pirlone, è veramente l'avanguardia dell'Italia e del mondo, perchè la parola di Pio IX si propaga rapida e luminosa, al pari di un baleno e commove l'Italia ed il mondo, come se avesse da sola la miracolosa virtù di raddrizzare tutti i torti, di vendicare tutte le ingiustizie, di pacificare tutti gli odii, di sanare tutte le miserie umane, di cacciare nell'ombra e per sempre tutti i prepotenti della terra e sollevare tutti gli oppressi.