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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I

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IL VESCOVO D'IMOLA

CONFERENZA
DI
ERNESTO MASI

Sulla fine di dicembre del 1832 Giovanni Maria Mastai-Ferretti, arcivescovo di Spoleto, e che poi divenne Papa col nome di Pio IX, fu da Gregorio XVI nominato vescovo d'Imola.

Entrò in Imola (notano con intenzione certi suoi biografi) il mercoledì delle Ceneri del 1833.

Se questo indefinibile arnese letterario, che si chiama una conferenza, e in cui la dose del poco e del troppo resta sempre un problema, si dovesse e potesse limitare ad una semplice biografia, io, per verità, dovendo fermarmi al 1846, non avrei molto da dire.

La vita di Pio IX è divisa essenzialmente in due parti, e la prima e più naturale divisione di essa neppur si ferma al 1846, bensì continua fino al 15 novembre del 1848, che Pellegrino Rossi, Ministro di Pio IX, fu assassinato in Roma a tradimento, mentre, sceso appena di carrozza, saliva il primo ramo di scala del palazzo della Cancelleria per recarsi a riaprire il Parlamento degli Stati Pontifici. Il giorno dopo, la rivolta di piazza, sobillata dai circoli demagogici, ormai padroni del campo, assaliva Pio IX nel Quirinale, gli imponeva un Ministero, e in capo ad altri nove giorni, il Papa, travestito da semplice prete, fuggiva da Roma nella carrozza della contessa Spaur, ambasciatrice di Baviera, e si rifugiava a Gaeta. La prima parte della vita di Pio IX finisce qui.

Da questo momento fino al 7 febbraio 1878, in cui Pio IX morì, egli, come uomo, come principe, come Papa, è un personaggio storico diversissimo da quello di prima, sebbene forse nell'uomo, nel principe e nel Papa di prima si trovino già, se non tutte le cagioni (le quali oltrepassano la sua qualunque individualità e sono di ordine più generale), certo molte delle ragioni sufficienti del mutamento in lui sopravvenuto.

Se non che fermandoci al 1846, che fu il primo anno del suo pontificato, noi vediamo in lui non solo il vero iniziatore del risorgimento italiano, allorchè questo esce finalmente dal periodo delle profezie letterarie, delle visioni teoriche, delle sommosse spicciolate e delle tenebrose cospirazioni, espiate coi martirii, per entrare nella piena luce della grande azione storica e comprendere in un moto irresistibile tutta intiera l'Italia e l'Europa, ma assistiamo altresì a questo fenomeno singolarissimo, che un uomo senz'alcun antecedente personale molto notevole, un uomo mediocre (l'epiteto è del Gioberti), mediocre di animo, di bontà, di coltura, d'ingegno e di carattere, e quasi inconsciente degli effetti prossimi e remoti della sua azione pubblica, può tuttavia dare la prima e più decisiva mossa a così straordinaria mole di eventi, e lo vediamo proprio, quando egli è ancora portato e si lascia volentieri portare dall'onda enorme d'una popolarità subitanea e senza esempio, e innanzi ch'egli incominci ad accorgersi e spaventarsi del crollo strapotente dato dalla sua debole mano a tutto il vecchio mondo e con una sola parola: perdóno, a pronunciar la quale, fra tanto imperversare di odii implacabili, d'ingiustizie selvaggie, d'impòtenti repressioni e di inutili vendette, non occorreva, se guardiamo bene, nè alcuna eroica bontà, che l'inspirasse, nè alcuna sopraffina abilità di governo, che la suggerisse anche al più modesto politico, come lo spediente migliore.

Una filosofia della storia alla Bossuet potrebbe quindi far di Pio IX un docile istrumento della provvidenza di Dio. Una filosofia della storia alla Darwin potrebbe far di lui una di quelle forze cieche, che agiscono nel mondo morale e materiale all'infuori d'ogni determinazione volontaria e per fatale impulso d'una legge misteriosa, che sfugge all'osservazione degli uomini. E quella in fine che oggi chiamasi concezione materialistica della storia, che è la filosofia professata dalla scuola socialista o giù di lì, e pretende aver sorpassate tutte le altre, perchè le riduce tutte al fenomeno economico, quella, dico, dinanzi al fenomeno storico d'un Pio IX, non potendo spiegarselo nè coll'organismo della produzione, nè colla bilancia mobile dei salarii, nè col prezzo delle derrate e via dicendo, probabilmente passerebbe oltre senza curarsene, lasciando che altri riempisse, come meglio crede, una siffatta lacuna.

La realtà è invece, mi sembra, che iniziando o fermandosi, secondando o resistendo, annientandosi come principe o esagerandosi come papa, il destino di Pio IX è di essere, anche suo malgrado, uno dei fattori storici principali della Rivoluzione Italiana, e che tale destino s'adempie in lui fino all'ultimo; s'adempie persino nelle più prestigiose coincidenze esteriori con una puntualità singolare. Muore difatti il primo Re d'Italia in Roma; pochi giorni dopo lo segue Pio IX nella tomba. L'Italia è fatta! Il periodo storico della vera e grande Rivoluzione Italiana è finito!

Sotto questo aspetto almeno, parlar di lui con serenità, con giustizia, con equità, con misura, oltrechè ufficio della storia verso ognuno, par quasi debito di riconoscenza nazionale, sebbene sia difficile sempre, come avvertì il Machiavelli, parlare senz'odio o senz'amore dei contemporanei e non dispiacere a molti, quanto più appunto ci si studia di non dispiacere a nessuno. Ciò in generale. Nel caso speciale di Pio IX, la quantità degli scrittori, che pro o contro, di proposito o per incidenza, hanno parlato di lui, cresce a dismisura la difficoltà. Da cinquant'anni ad oggi sono a migliaia e in tutte le forme letterarie possibili. Una classificazione qualsiasi chi potrebbe tentarla neppure?

Guardando alla grossa, v'ha i patriotti classici (chiamiamoli così) che spiegano per insegna l'epigramma famoso dell'Alfieri: – Il Papa è Papa e re – Dèssi abborrir per tre! – senza stare a cercar altro; v'ha chi si vanta di non aver mai dato dentro all'illusione di un Papa liberale e italiano, e razzola e aggruppa aneddoti e pettegolezzi per dimostrare che questo Papa, apparso nel 1846 come un prodigio, altro non era che la resultanza combinata d'un Alessandro VI e d'un Pio V, d'un fanatico e d'un feroce; v'ha chi si affligge d'aver visto svanire con Pio IX il maggiore, forse l'ultimo, tentativo di conciliazione fra Italia e Papato, cattolicismo e libertà; v'ha chi arreca a lui solo la colpa d'aver mandato a male il moto di riscossa più largamente e più profondamente popolare, che sia mai stato in Italia, e non gli perdona di non aver saputo essere un Alessandro III, come se al 1848 l'Europa fosse ancora composta di Papi, Imperi e Comuni, mentre invece i Comuni alla medio evo non esistevano più, e Papi ed Impero non erano più che due Stati, uno debolissimo contro un forte; v'ha chi esalta e divinizza Pio IX come l'eroe e il martire del secolo, che dopo una lotta immane contro tutte le malvagità del suo tempo soccombe bensì, ma lancia, cadendo, col Sillabo e l'Infallibilità papale l'ultima condanna, l'ultima sfida a tutte le scapestratezze della società moderna, e le ha preparato in pari tempo l'ultimo porto di salvezza, quando stanca, prostrata, pentita de' suoi errori e vagante come pazza fra tenebre mentali sempre più fitte, tornerà a ridomandare la luce e la pace delle verità tradizionali al solo uomo, che ha dunque, dicono, la certezza di non errare.

La speranza di tale ritorno è audace, non v'ha dubbio, non meno della condanna e della sfida; ma a che pro continuare questa enumerazione, se non c'è possibilità di compirla, e se essa non varrebbe forse che ad impigliarci in polemiche infinite senza alcuna probabilità nè di scegliere, nè d'intenderci, nè d'accordarci, nè di venire ad una conclusione?

Stiamo dunque modestamente ai fatti, come sono. Essi soli, non sempre, ma il più delle volte danno lume a orientarsi fra le fallacie delle dottrine, i mutamenti delle opinioni, le superbie, i vanti, le ingenuità e le perfidie delle sètte, delle fazioni e delle scuole, ognuna delle quali pretende naturalmente di possedere tutta la verità.

Ci fermammo l'anno scorso, se ve ne ricordate, al 1831, l'anno dell'elezione di Gregorio XVI. Le ultime onde della rivoluzione erano venute a sbattersi languidamente e a morire sulle porte del conclave, che lo aveva eletto, e quando queste porte si riaprirono, ne uscì un Papa dei soliti, un vecchio cioè quasi settantenne, che da quarantasette anni era monaco Camaldolese, ch'era stato bensì Prefetto di Propaganda e negoziatore di concordati con qualche Stato europeo, ma che se molto sapeva di teologia, delle cose di quaggiù avea cognizione ed esperienza, quanto di quelle del mondo della luna. Eppure, chi lo crederebbe? Fra le quinte del conclave, anche Gregorio era stato combattuto come avverso all'Austria, e citando un passo della sua opera teologica: Il trionfo della Santa Sede, qualcuno s'era pure provato a farlo passare per liberale. Poveretto! Un torto, che non meritava davvero, come non meritava d'essere annunciato ai suoi felicissimi sudditi con le parole divenute famose del cardinale Bernetti, suo segretario di Stato: «un'era novella incomincia». Un buon astrologo, in fede mia, quel Bernetti e soprattutto in gran buona fede!

Furono quindici anni di congiure, di sommosse periodiche, di repressioni feroci, d'interventi stranieri, di carcerazioni, di esigli, di condanne, di supplizi, e di un oscurantismo così insensato, che infamarono nell'opinione pubblica europea il Governo Pontificio, e che resero proverbialmente odioso il nome di Gregorio XVI, forse non cattiv'uomo nel fondo; certo non tale, quale il libello e la satira politica (unica vendetta ed unico sfogo agli oppressi) l'hanno dipinto, perocchè è falso ch'egli fosse scorretto di costumi, dedito al vino fino all'ubriachezza abituale, avido del danaro pubblico per arricchirne i nipoti, e tutti gli aneddoti, nei quali si compiacque, per esempio, l'erotica fantasia del Petruccelli della Gattina nella sua Storia dei Conclavi, e che si vedono ricopiati da tanti altri della sua risma, sono invenzioni.

 

Lo si diceva, poniamo, dominato a bacchetta dal suo cameriere, Gaetano Moroni, per certo intimissimo suo, e che avendo cominciato barbiere del convento dei Camaldolesi, avea finito per essere in corte del Papa un gran personaggio, a cui non solo s'inchinava riverente una folla di mendicanti e di cacciatori d'impieghi, di grazie e di onori, ma che per mezzo dei diplomatici e dei visitatori stranieri più cospicui era divenuto noto a tutt'Europa e riverito col vezzeggiativo di signor Gaetanino, com'era solito il Papa chiamarlo. Il mondo è sempre stato così e continua ad essere, anche se il signor Gaetanino non è più in corte del Papa, ma è invece ministro, deputato, o un pezzo grosso qualsiasi. Pur di piegare la schiena a qualche potente, o creduto tale!! Ora anche il signor Gaetanino, un mitissimo cortigiano, tutto miele di sorrisi, di complimenti e di riverenze, è dipinto nei libelli e nelle satire contemporanee come un Tigellino spietato, un Seiano, consigliere d'infamie e qualcosa pure di più turpe, ed in tutto questo parimenti non c'è nulla di vero. Il signor Gaetanino invece era un giovine popolano, intelligente, istruitosi un po' da sè, un po' coll'aiuto del Papa e riuscito all'ultimo un erudito non volgare, sempre poi un lavoratore indefesso, il quale, oltre alle sue faccende di corte, ha trovato modo di lasciare 120 volumi d'un Dizionario Storico-Ecclesiastico, che anche oggi si consulta con qualche utilità. Certo, egli era un servitor devoto e affezionatissimo al Papa, nè mai s'era sognato che il suo signore e padrone potesse aver torto, ma era un galantuomo, rispettato per tale a Roma, dove io stesso ebbi curiosità di conoscerlo, come un monumento d'antichità, poco dopo il settembre del 1870, rispettato, dico, anche dai liberali, e soggiungerò che fra i papalini più noti rimarcai ch'egli era uno dei più indifferenti alla mutazione avvenuta.

Di lui seppi altresì con certezza quest'aneddoto. Gregorio XVI avea in odio mortale le ferrovie, come un'invenzione del diavolo, e da buon logico non volea neppur sentirne parlare. Per vincere questa sua ripugnanza, i banchieri, che ne brigavano la concessione per gli Stati Pontifici, immaginarono (da quell'ingegnosissima gente che sono) di presentare al Papa il modellino d'una ferrovia tutto in argento, un amore di giocattolo, ch'essi credevano avrebbe valuto a sedurre quel tanghero di teologo. Ufficiarono quindi il signor Gaetanino, offrendogli una somma addirittura enorme, affinchè egli facesse trovare al Papa quel giocattolo sul suo scrittoio. Il signor Gaetanino rispose secco ch'ei non guadagnava il suo denaro a così buon mercato, ch'ei non si prestava a tale insidia al suo benamato padrone, e rifiutò. Non voglio farne per questo un eroe; dico soltanto che tanti altri Gaetanini della vita pubblica d'adesso non solo avrebbero accettato il negozio, ma, riuscendo, avrebbero ingoiato anche la ferrovia vera con la macchina accesa e i vagoni pieni!

Che perciò? Non meno indegno, nè meno giustamente diffamato fu il governo di Gregorio XVI per la cecità bestiale del suo oscurantismo e per la efferatezza dei mezzi, con cui credette aver diritto di difendere da ogni minaccia il suo principato; cecità ed efferatezza che, se già altre circostanze più alte e più speciali non ci fossero, spiegherebbero da sole il contraccolpo di quasi folle entusiasmo e l'esplosione subitanea di giubilo, di contentezza e di speranza, con cui ad occhi chiusi fu accolto Pio IX.

Domata nel marzo la rivoluzione del 1831, gli Austriaci nel luglio se n'andarono dalle Romagne, ed il paese restò in uno stato di strana incertezza, con una guardia civica, riarmatasi nelle quattro Legazioni, ed un governo, che intanto metteva insieme un'orda di usciti di galera e di banditi fra Rimini e Ferrara coll'idea di compir l'opera, che gli Austriaci avevano lasciata a mezzo.

Era in sostanza la guerra civile, che s'andava bel bello apparecchiando, e che al cardinale Bernetti, il quale pur si vantava discepolo del Consalvi, non parea poi un ideale di governo da disprezzarsi del tutto. Non così la pensavano le potenze protettrici, le quali in cinque, non esclusa l'Austria, avevano chiesto con un memorandum collettivo, come si praticherebbe col Bey di Tunisi, fino dal 10 maggio 1831, che almeno le più marchiane assurdità del Governo Pontificio fossero corrette. Il Bernetti fece l'uomo offeso. O non avea promesso l'êra novella? Aspettassero dunque che l'erba crescesse, e l'erba, la mal'erba, fu il cardinale Albani, cagnotto dell'Austria e uno dei più vecchi e peggiori arnesi della Curia, messo alla testa di quell'infame marmaglia, che s'andava riunendo fra Rimini e Ferrara, e incaricato di rimettere in cervello del tutto Bologna e le Romagne.

A tale minaccia quelle popolazioni si risentirono fieramente. Fra gli ultimi di dicembre e il gennaio 1832 una parte delle Guardie Civiche di Forlì, di Ravenna, d'Imola e di Bologna s'andò pertanto radunando a Cesena, deliberata di tener testa ai Papalini, i quali finalmente il 20 gennaio dettero l'assalto a Cesena. I liberali non erano più di 1800; quasi 5000 i Papalini. I primi, male armati e non guidati da alcuno, resistettero ciò nonostante sei ore, poi si sbandarono, ed i secondi, entrati in Cesena, non perdonarono nè a luogo, nè a sesso, nè a età, nè a condizioni: trucidarono vecchi, donne, preti, bambini, persino nelle chiese, dove alcuni avevano cercato rifugio. Sono così enormi questi fatti, che molti scrittori per partito preso cercarono attenuarli o negarli, quella perla del Cantù fra gli altri, ma, oltrechè negli storici più gravi e nelle corrispondenze private e diplomatiche, sono concordemente attestati da certi diari manoscritti, che si conservano a Cesena e sono opera di preti o di gente ad essi devotissima. Non c'è quindi da dubitarne, tanto più che le gesta del cardinale Albani a Cesena si rinnovarono quasi identiche, se non peggiori, il 21 gennaio a Forlì, il 24 a Faenza, e il 25 a Imola, dove i Papalini si congiunsero cogli Austriaci, ritornati subito, e tutti insieme furono il 26 a Bologna, dove, per colmo d'obbrobrio (tanto era l'orrore inspirato dai lanzichenecchi papali) gli Austriaci furono accolti e acclamati, come salvatori.

Volle ora l'Austria far suo pro dell'esecrazione eccitata da queste tragedie, per vantaggiarne le sue vecchie cupidigie sulle quattro Legazioni? Se ne adombrò il Papa e pensò di opporre stranieri a stranieri nello stesso modo che opponeva una parte dei suoi sudditi all'altra? Ossivvero la Francia si mosse di suo per bilanciare l'influenza dell'Austria e impedirne un ulteriore ingrandimento in Italia? Fatto è che ora accade questo: l'Austria cerca estendere i suoi partigiani colla sètta Ferdinandea; i Francesi di Luigi Filippo occupano Ancona, dandosi le solite arie di venire in aiuto ai liberali, che invece perseguitano per conto del Papa al pari degli Austriaci; le truppe del Papa neppur si provano di resistere e nondimeno il cardinal Bernetti (lui, che avea chiamati e richiamati gli Austriaci) protesta contro la nuova invasione straniera, mentre poi, per poter fare a meno di Austriaci e Francesi, organizza le sue masnade in Centurioni (vera sètta di scherani sedentari, raccolta luogo per luogo, a cui era assicurata l'impunità d'ogni delitto) e di lì a poco, per compir l'opera, assolda due reggimenti di Svizzeri.

Lo dissi già l'anno scorso. Se non vivessero ancora molti della generazione, che l'ha visto cogli occhi proprî, difficilmente si crederebbe ad un simile viluppo di stoltezze e d'iniquità (pare che molti, troppi Italiani se ne siano scordati), eretto, in pieno secolo XIX, a sistema di governo, per eccellenza conservatore, e a cui non mancarono neppure interpreti teorici più sfrontati, lo Haller nella Restaurazione della scienza politica, il Canosa nell'Esperienza ai Re della terra, Monaldo Leopardi, il padre del poeta, nei Dialoghetti sulle materie correnti nel 1831, e parecchi altri.

Il paese era prostrato senza più nè fiducia, nè energia, nè speranze. Gli esuli invece numerosissimi s'agitavano, ed ora principia la serie dei tentativi rivoluzionari, organizzati dal di fuori e che non trovano dentro se non consensi spicciolati dei più arrischiati, dei meno in cervello, dei meno atti e veder chiaro e a riferire giustamente, o peggio ancora, di coloro che pescano nel torbido per professione; un quissimile delle proscrizioni e dei ritorni guelfi e ghibellini dei nostri Comuni medievali.

Notiamo intanto. – Anche l'insurrezione della Guardie Civiche di Romagna nel 1832 ha un carattere iniziale di semilegalità, perchè si mossero richiedendo l'esecuzione delle promesse del Bernetti, quel burlone dall'êra novella, e se all'ultimo intonarono nei loro bivacchi e nella breve pugna di Cesena il Ça-ira e la Carmagnola, reminiscenze giacobine, fu l'immanità della repressione, che dimostrò non esservi possibilità d'intesa col Papa ed i suoi ministri.

Ma, in mezzo a questo pandemonio di congiure, di promesse non mantenute, d'invasioni straniere e di brigantaggio organizzato, non è men vero che un'opinione moderata va spuntando, il proposito di opporre il bene al male, di mettere tutto il torto dalla parte del governo, di appellarsi all'opinione pubblica liberale, che dopo il 1830 va sempre più slargandosi e imponendosi in tutt'Europa, e di forzarla a metter riparo a tante enormezze. Contemporaneamente però, e appunto in quest'anno 1832, Giuseppe Mazzini fondava la Giovine Italia, il cui programma era l'azione immediata, e un determinar tutto a priori, l'unità nazionale, la repubblica come forma di governo, l'insurrezione popolare, come mezzo a conseguir l'una e l'altra, e persino una riforma educativa e religiosa, contenuta nella sua celebre formola: Dio e Popolo, ed ecco una nuova ragione di dissenso e di contrasto fra i liberali.

Ormai è tempo però di non giudicar più tali dissensi e contrasti solo dalla riuscita e di sollevarsi ad una critica più giusta, che tenga conto delle condizioni d'allora e soprattutto veneri, come merita, tutta questa forte generazione d'uomini, che fra tante ruine non disperò mai, non si accasciò mai sull'orma sua, ma lottò tenacemente e sempre, e quante volte cadde rovesciata, altrettante si rialzò e riprese a combattere, variando arme, propositi, ed anche moltiplicando colpe ed errori, se si vuole, ma senza contar mai le vittime, delle quali aveva seminata la via.

La propaganda mazziniana trovò in Romagna molti aderenti; in Bologna assai meno allora e dopo. Allora poi le nocquero soprattutto le due imprese tentate in Piemonte e in Savoia nel 1833 e 34, che parvero e sono veramente d'una supina e colpevole inanità e giovarono non poco alla reazione, la quale, diffidando sempre delle giovanili velleità di Carlo Alberto, voleva, secondochè bucinavasi nelle congreghe del sanfedismo piemontese, far assaggiare anche a lui sangue di liberali.

Scorse così qualche anno. Fra il 1837 e il 38 Austriaci e Francesi se n'andarono di nuovo. Al Papa rimanevano gli Svizzeri e qualche reggimento indigeno, ma la sua difesa migliore e più fida gli parevano i Centurioni, le spie e la polizia, che erano tutt'uno. Mazziniani e liberali si riscossero. A Bologna capitò Carlo Poerio, nome divenuto poi famoso, e s'ebbe da esso contezza di gravi rivolgimenti prossimi a scoppiare nel regno di Napoli, ov'erano, diceva (parlando a nome del Mazzini), armi pronte, animi disposti ad ogni estremità, tremila Calabresi, ai quali bastava un cenno per muoversi in aiuto d'altre provincie italiane, che insorgessero, e persino si faceva assegnamento su buon nerbo di Albanesi, gente manesca e ardente di combattere per l'Italia.

In questo emissario mazziniano, che profetizza tali miracoli, chi riconoscerebbe il Poerio moderato e cavouriano del 1860? Anche fra i compromessi mazziniani del 33 in Piemonte c'è Vincenzo Gioberti, e chi direbbe che sette od otto anni dopo scriverà il Primato? Ma sono appunto questi trapassi, queste variazioni, queste gradazioni, che danno impronta così originale e così sincera al movimento rivoluzionario, segreto e palese dell'Italia, e a biasimarli o lodarli col senno del poi si può fare dell'inutile polemica retrospettiva, ma non si penetra nell'intima psicologia di questa storia.

Non tutti a Bologna aggiustarono fede alle promesse del Poerio, nè tutti le giudicarono d'egual valore, specie quel soccorso degli Albanesi, che parve alquanto fantastico; nondimeno, per non perdere un'occasione, se mai era, un comitato rivoluzionario si riordinò nel 1840. Avrebbe voluto essere indipendente del tutto dalla direzione mazziniana, pure temendo che coll'ignorare ciò che tramava la Giovine Italia, accadesse di disgregare le forze, la nuova cospirazione s'accontò con alcuni, che ancora aderivano in tutto al Mazzini, e formò con essi un cosiddetto Comitato d'azione, il quale cercò relazioni e aderenze con Ferrara, le Marche, Roma e la Toscana. Si aspettava il segno da Napoli, ma Napoli non si moveva, anzi pareva ora aspettarlo essa dallo Stato Romano. In queste incertezze si preparava alla meglio l'azione, riunendosi i cospiratori in una villa vicina a Bologna, ove tra i più impazienti era Luigi Carlo Farini, che sfidando mille pericoli accorreva nottetempo e a cavallo da Ravenna, e prima che albeggiasse ripartiva.

 

È il caso di ripetere anche qui: chi indovinerebbe in questo audace e romantico cospiratore il futuro storico dello Stato Romano, così severo alle vecchie cospirazioni politiche, ed il futuro dittatore delle provincie emiliane nel 1859?

Del suo mutamento molti scrittori repubblicani, Aurelio Saffi fra gli altri, gli fanno acerbo rimprovero; ma perchè? Non mutò anche il Saffi, di moderatissimo divenendo Triumviro della Repubblica Romana e rimanendo poi sempre uno dei più onorati e solitari epigoni della fede mazziniana?

Non c'è di peggio della passione politica per far confondere il criterio della fazione con quello della storia anche negli animi più retti.

Allora il Farini era dunque fra i più insofferenti d'indugi e per romperli con qualche probabilità di riuscita e chiarirsi del vero, il Comitato spedì a Napoli segretamente il conte Livio Zambeccari, bolognese, fervido e coraggioso uomo, ma ahimè! il più disposto da madre natura a pigliar lucciole per lanterne. Scelto bene il referendario!

Queste le condizioni delle Romagne dal 1832 al principio del 43; questo il paese, nel cuore del quale era stato mandato ad esercitare il suo ministero di pace e di misericordia Giovanni Maria Mastai-Ferretti, vescovo d'Imola. Ora, che uomo era esso? quale la sua vita insino allora? e che parte era la sua fra gli oppressi e gli oppressori?

Più che mai ci troviamo collocati ora, o Signore, fra la storia e il libello, fra la satira e il panegirico; fuoco nascosto sotto la cenere ingannatrice, direbbe il poeta latino, su cui bisogna camminare con precauzione. Un gran santo, un gran genio fin dalla culla, ne fanno alcuni; un bimbo nato col bernoccolo d'ogni scelleratezza, ne fanno altri; frottole, leggende l'una e l'altra versione; nè per conoscer l'uomo è mestieri in questo caso (come in quasi tutti gli altri del resto) pigliar le mosse così di lontano.

Il conte Giovanni Mastai era un nobile di provincia, nè molto ricco, nè di molto antica data. Apparteneva a rispettabile famiglia di Sinigaglia, in cui nel secolo XVI era entrata sposa una Garibaldi; scoperta atavistica, che a qualcuno pare molto notevole; a me no. Il padre, il conte Girolamo, era un galantuomo; la madre, la contessa Caterina, una signora pia, virtuosa e bellissima. Giovanni Maria fu l'ultimo de' suoi nove figliuoli; studiò nel Collegio degli Scolopi a Volterra. Ne uscì, perchè epilettico, terribile malattia, dalla quale guarì cogli anni e coi viaggi, ma gli lasciò sempre uno strascico di eccitabilità, di emottività subitanea e mutevole, «di nervosa passione», come dice il Farini, storico e medico, accennando a spiegare con questo, e forse con ragione, non poche delle ulteriori vicende di Pio IX. Tali in realtà l'infanzia e l'adolescenza del Mastai.

La sua precocità negli studi, la sua vena poetica, che prendeva a soggetto talvolta le battaglie napoleoniche, i suoi mirabili progressi, che facevano andare in solluchero i maestri, i quali lo compensavano di corone accademiche, profetando fin d'allora ben altre corone all'alunno promettentissimo, sono le solite frasche dei panegiristi, siccome altri aneddoti, relativi alla sua giovinezza e coloriti poco meno che col pennello di Svetonio, quando narra le amenità dei dodici Cesari, sono ignobili fanfaluche o amplificazioni dei detrattori.

Tornato alla sua Sinigaglia nel 1809, vi si fermò fino alla ristaurazione di Pio VII. Giovine, malaticcio, distratto quindi per necessità da studi troppo intensi, è naturale che abbia sentito e vissuto da giovine.

È il tempo che la vita italiana, su cui è passato il soffio della Rivoluzione Francese, sta trasformandosi profondamente; è il tempo, che la leggerezza arcadica sta cedendo il posto alla sentimentalità preromantica; è il tempo, che i nostri vecchi cicisbei e cavalieri serventi sono sulla via di trasformarsi in Oberman, in Werther, in Iacopo Ortis, in Renato.

A queste variazioni la gioventù è sensibilissima e tanto più la gioventù d'una piccola città di provincia, la quale naturalmente le esagera con poca misura di buon gusto sin nelle mode e nelle fogge esteriori. Non trovo nulla di strano quindi che il giovine Mastai si lasciasse crescere le chiome e le rabbuffasse con una certa premeditazione, che portasse una polacchetta grigia cogli alamari neri, un berretto rosso, pantaloni screziati di colori vistosi, un cravattone sventolante, gli sproni agli stivali, un giardino alla bottoniera e un eterno sigaro in bocca, come il Giovinetto del Giusti, e che questo insieme di figurino, il quale oggi parrebbe un sintomo di mattoide (ogni tempo ha i suoi sintomi), allora invece solleticasse dolcemente le fantasie e i cuori delle sensibili fanciulle di Sinigaglia. Non trovo nulla di strano quindi che fra le più commosse a veder caracollare per le vie sopra un focoso destriero un tal tipo d'arrischiata eleganza locale, sia dato nominare una Lena popolana, che lo amò sul serio e a cui non fu fedelissimo, una principessina Elena Albani, che, per esemplare castigo del volubile Mastai, prima gli preferì un asino d'ussaro, ma autentico, poi andò sposa a un signorone di Milano, e lo piantò in asso, nonostante le pittoresche combinazioni del suo abbigliamento, e finalmente ch'egli tentasse consolarsi di questo abbandono con una Morandi-Ambrogi, piccola deità di palcoscenico, e giuocando al pallone sulle mura di Sinigaglia, o al bigliardo in qualche losca e affumicata stamberga di caffè ed in non troppo edificante compagnia, che allarmava la buona famiglia Mastai, una famiglia di schietti codini (checchè se ne sia detto), perchè il rivoluzionario ed esule del 31, di nome Pietro, che molti citano e che per campare onestamente la vita faceva il lustrascarpe a Ginevra, non era niente affatto fratello di Pio IX, bensì un conte Ferretti, suo lontano parente.

Le abitudini, gli atteggiamenti, le mode e le piccole avventure del Mastai sono cose insomma di tutti i tempi e di tutti i luoghi e che si possono narrare d'ogni giovine, che non sia uno schietto imbecille, ed abbia un temperamento vivace, e tanto più d'un giovine, com'era senza dubbio il Mastai, indole gioviale e affettuosa, ma forse in fondo infelice per l'orribile malattia, che l'affliggeva, e bisognoso di sbattersi un po' di dosso la malinconia.

Nè ciò impedisce, anche se ebbe allora misteriosi contatti (possibilissimi, ma non provati di certo) con qualche inferraiuolato framassone, nè ciò impedisce, dico, che tramutatosi a Roma a cercar fortuna al seguito dello zio, monsignor Paolino Mastai, e trovatosi in tutt'altro ambiente, prima s'accodasse a quel prelatume mondano, ultimo avanzo degli eleganti abati settecentisti, la più comune forma del cicisbeismo romano, poi l'ascetismo sincero della madre ripigliasse il disopra nell'indole del giovine Mastai e finalmente che l'influenza e la protezione di Pio VII facessero il resto, spingendo l'estrema emottività di lui in tutt'altra direzione da quella di prima.

Tuttociò è naturalissimo e sono inutili tutti gli sforzi dei libellisti a complicare romanzescamente e a colorire sinistramente questi primordi assai semplici e chiari del Vescovo d'Imola e di Pio IX, siccome sono superflui, mi pare, gli sforzi dei panegiristi fanatici a dissimularli e negarli.