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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I

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In una lettera da Monteleone al ministro Acton, il Cardinale spiega chiaramente i mezzi di cui volea valersi; contava sopra tutto di andare avanti «nutrendo sempre la gelosia fra il popolo e il ceto medio.» Le classi colte erano desiderose di nuovi ordinamenti: bastava atterrirle svegliando l'odio popolare contro i possidenti. «Spero – scriveva in un'altra lettera, partecipante la presa di Cosenza – che il popolo basso abbia saccheggiato insieme con gli aggressori, e così mantenga a freno i nobili e i paglietti,» cioè l'aristocrazia scontenta e la borghesia.

Il Cardinale era seguìto da malfattori venuti d'ogni parte e da banditi famosi, cui si prometteva ogni sorta di premio e da turbe desiderose di saccheggio, le quali assai facilmente propendevano a dichiarar giacobino chiunque possedesse. A Napoli il sinistro canto dei sanfedisti diceva:

 
Chi tene grane e vine
Ha da esse giaccubine.
 

Chi possiede è giacobino.

Nelle Provincie si pensava presso a poco allo stesso modo.

Quando il Cardinale giunse a Napoli, seguìto dalle sue turbe brigantesche, dopo aver traversato sì larga parte del reame, scrisse sinceramente in una sua lettera che si era accorto che il popolo trasformava ogni possidente in giacobino: «è la rapina – egli scriveva – che produce i proprietari giacobini.»

Il piano di Ruffo era il solo che potesse riescire e riescì; dire ai contadini: rubate le case dei ricchi, saccheggiate, dividetevi le terre era valersi di interessi e di sentimenti veri.

Uno storico austriaco, apologista del cardinal Ruffo, il barone von Helfert, dice che il Cardinale, per una così difficile impresa, non potea scegliere i suoi compagni. E certo non gli scelse! Ruffo avea seco, condottieri del suo strano esercito, briganti famosi come Panedigrano, Pansanera, Sciarpa, Mazza, de Castro e tanti altri famosi negli annali del delitto.

E mentre il Cardinale operava da un lato, Pronio e Rodio, due avventurieri, operavano in Abbruzzo, Mammone e fra Diavolo in Terra di Lavoro: altri iniquissimi altrove.

I nomi di Mammone e fra Diavolo hanno oramai acquistata una celebrità internazionale.

Gaetano Mammone, nativo di Terra di Lavoro, era un monomane del delitto: uccideva senza ragione, per piacere, e giungeva ad atti di crudeltà che parrebbero inverosimili. Vincenzo Coco dice di lui ch'era mugnaio di mestiere; che in due mesi di comando in poca estensione di terreno fece fucilare 350 persone, oltre forse del doppio uccisi dai suoi satelliti ed accenna alle crudeltà e ai tormenti da lui inventati. «Il suo desiderio di sangue umano, scrive Coco, era tale che si beveva tutto quello che usciva dagl'infelici che facea scannare: chi scrive lo ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato e cercar con avidità quello degli altri salassati che eran con lui; pranzava avendo a tavola qualche testa ancor grondante di sangue, beveva in un cranio… A questi mostri scriveva Ferdinando da Sicilia: mio generale e mio amico

Tutto ciò è confermato dalle cronache dei tempi e dagli scrittori più autorevoli.

Meno terribile ma più drammatica la storia di Michele Pezza, conosciuto sotto il nome di fra Diavolo; le cui avventure romanzesche hanno fornito a Scribe e ad Auber il soggetto di uno dei loro migliori melodrammi. Omicida e dei più terribili avea, dicono, l'astuzia del monaco e la perfidia del diavolo. Era già brigante da qualche anno, quando sopraggiunsero gli eventi del 1799; non tardò ad illustrarsi colle sue crudeltà.

Dopo la restaurazione monarchica ebbe, come Mammone, un altissimo grado nell'esercito, una pensione di 3000 ducati e fu nominato duca di Cassano. Nel 1806 volle ancora insorgere in difesa del re Ferdinando contro la monarchia francese: ma dopo molte peripezie, fu impiccato al largo del Mercato – e a dileggio, dicono, gli si lasciò l'uniforme di generale addosso e gli si sospese al collo il diploma di duca di Cassano.

Or guardate i miracoli della previsione.

Nel 1803, tre anni prima cioè che fra Diavolo fosse impiccato, era pubblicata a Parigi una storia romanzesca sotto il titolo Les exploits et les amours de frère Diable, géneral de l'armée du cardinal Ruffo. L'incisione innanzi al frontespizio rappresenta fra Diavolo in abito da frate, armato di carabina, pistola, pugnale, sciabola e accetta: nel romanzo egli è fatto cavaliere e la scena delle sue azioni è raffigurata in Calabria. Il romanzo non è che una serie d'invenzioni. Ma vi è di vero solo una predizione! Il romanziere fa finire fra Diavolo sulla forca, per essersi messo di nuovo in campagna: allora fra Diavolo era vivo, ma tre anni dopo finì in realtà sulla forca.

Or fu con questi elementi, che la monarchia borbonica fu restaurata.

I lazzari di Napoli gridavano a Ferdinando IV che rientrava a Napoli:

 
Signò, 'mpennimmo chi t'ha traduto,
Prievete, muonece e cavaliere!
Fatte cchiù cà, fatte cchiù là,
Cauce 'n facce a la libbertà.
 

Tutti i canti popolari di quel tempo non sono che feroci apostrofi alla libertà, violente ingiurie ai giacobini: poesia infame, ma che esprimeva sentimenti veri e sopra tutto speranza di tempi migliori.

 
A lu suono de li tammurilli
So risurte li puverielli!
 

Il brigantaggio del 1799 fu, come assai più tardi quello del 1860, accresciuto dall'aver disciolto l'esercito del Re. L'esercito raccoglieva allora i più poveri, poichè i ricchi e i borghesi si faceano esentare, e raccoglieva anche gli elementi peggiori.

Macaulay dice che al ritorno del re legittimo in Inghilterra fu necessario sciogliere l'esercito rivoluzionario di Cromwell. Cinquantamila uomini, abituati a battersi, furono lasciati sulla strada. V'era da aspettarsi qualunque cosa: invece alcuni mesi dopo non rimaneva traccia che indicasse che una delle armate più formidabili era stata assorbita nella massa del popolo. E quando si vedeva un operaio prosperare in oneste industrie, si poteva dire quasi con sicurezza che egli avea fatto parte dell'esercito di Cromwell.

Nel reame di Napoli, quando per due volte fu sciolto l'esercito del re legittimo, la maggior parte di esso si diede al brigantaggio, alla rapina e al vagabondaggio.

Del resto che cosa poteva essere un esercito in cui i gradi eminenti erano riserbati a Mammone e a Fra Diavolo, e che cosa poteva essere un'amministrazione in cui si davano i posti più alti a uomini come il brigante Panedigrano?

* * *

Quando nel 1806 si stabilì a Napoli con Giuseppe Bonaparte da prima e poi con Gioacchino Murat la monarchia francese, i Borboni fuggirono di nuovo in Sicilia. Ancora una volta non mancarono di aizzare il popolo e di rinfocolare il brigantaggio: fra Diavolo uscì in campo di nuovo e uscirono altri già noti nel 1799, i Pizza, i Guariglia, i Furia, gli Stodui e altri di pessima fama. Con danari e con promesse il brigantaggio fu promosso dovunque. Molti si davano alla campagna perchè avean vendette da compiere; altri perchè l'esempio dei contadini promossi colonnelli o duchi, come Mammone e fra Diavolo, accendeva le menti.

Così in Basilicata dominavano Taccone e Quagliarella; nei due Principati Laurenziello; nelle Calabrie Parafante, Francatrippa, Benincasa, il Boia, Carmine Antonio, Mascia, Mazziotti, Bizzarro; negli Abbruzzi Antonelli, Fulvio Quici, Basso Torneo e altri celebri.

Quando Murat salì al trono, tutto il regno si può dire che era infestato di briganti: gli esempi del 1799 accendevano le menti, e ogni contadino insofferente della miseria, come ogni ribaldo desideroso di conquistare la fortuna si davano alla campagna.

Ma non era possibile ripetere a pochi anni di distanza il tentativo di Ruffo, e mancava in ogni caso l'uomo.

Seguiti da torme fameliche, i briganti entravano nelle città, depredavano, violavano le donne e si dicevano difensori del sovrano legittimo. Bizzarro, non meno feroce di Mammone, osava dare in pasto ai suoi cani ufficiali francesi trucidati barbaramente e avea abituato i mastini a dare la caccia agli uomini; altri facean cose ancor più crudeli e avevano aria di dominatori.

Taccone dominava addirittura il nord della Basilicata. In una delle sue crudeli escursioni corse ad assediare, nel castello di Abriola, il barone Federici. Dopo un blocco di parecchi giorni costrinse il barone a rendersi, promettendo che non si sarebbe fatto male ad alcuno. Appena entrati i briganti violarono la moglie e le figlie del barone e poi buttarono tutta la famiglia nelle fiamme, da cui non si salvò per miracolo che un bambino.

Basso Torneo, crudelissimo, detto il Re della campagna, bruciava perfino una caserma di gendarmeria e condannava a esser bruciati vivi le mogli e i figli dei gendarmi assenti.

Parafante, il Boia, Francatrippa e Laurenziello commettevano gesta ancor più nefande.

Per il governo era necessità vincere il brigantaggio, sradicarlo sia pure in modi crudelissimi. La monarchia di Gioacchino non era sicura se non debellando le torme ogni dì crescenti e i cui capi mantenevano corrispondenza assidua con casa Borbone e la corte di Palermo.

Fu adottato un rimedio estremo, e il generale francese Carlo Antonio Manhés ebbe l'incarico di distruggere a ogni costo i briganti e gli furono conferiti poteri eccezionali. Il generale Manhés, che a quasi un secolo di distanza si nomina ancora con terrore nelle Calabrie e in Basilicata, era un degno generale di Gioacchino: intraprendente, arditissimo, senza scrupoli e nello stesso tempo uomo galante e avventuroso.

Manhés non esitò. Bisognava, per agire sulle fantasie meridionali, per vincere rapidamente il brigantaggio non avere pietà, sopra tutto non transigere mai. In Abbruzzo il brigantaggio fu distrutto in poco tempo: Antonelli impiccato, altri uccisi.

 

Ma le difficoltà più gravi erano in Basilicata e in Calabria, province più vicine alla Sicilia, da cui i briganti ricevevano soccorsi e aiuti e promesse.

Manhés avea pieni poteri: vi si recò, fece cose crudelissime. Taccone fu preso ed entrò a Potenza non da trionfatore, sì come avea sperato, ma a cavalcioni di un asino, la coda del quale servivagli da briglia: e con una mitra in testa, sulla quale leggevasi a grandi lettere: Questo è l'infame e crudele assassino Taccone. Era un supplizio molto comune allora, e voleva riescire di esempio al popolo.

Quagliarella, abbandonato dai compagni, fu ucciso a colpi di falcetto dai mietitori di Ricigliano, desiderosi di guadagnare la taglia, che gli pesava sul capo.

Bisognava che la repressione non solo fosse terribile, ma apparisse tale. Manhés non trascurò nulla a quest'oggetto. Il villaggio di Parenti, ove una compagnia di francesi era stata trucidata, fu messo in fiamme; altri paesi distrutti.

Con procedimento sommario, qualche volta senza nessun procedimento, migliaia di uomini furono uccisi. «Io non vorrei essere stato il generale Manhés – dice Pietro Colletta – ma nemmeno vorrei che il generale Manhés non fosse stato nel Regno nel 1809 e nel 1810. Fu per opera sua se questa pianta venefica del brigantaggio venne alla perfine sradicata.»

Manhés – come disse nel suo ordine del giorno di Monteleone – volle agire di un tratto, colpendo la causa stessa del male: volle prendere i briganti per fame. Sotto pena di morte fu vietato a chiunque di fornire loro viveri: e la disposizione fu applicata senza pietà. Significava colpire al cuore il male, poichè dopo la caduta delle nevi non era possibile ai briganti durare senza avere i viveri dai borghi.

La terribile repressione cominciò con il comune di Serra.

In quel comune, messo fra le giogaie dell'Aspromonte, i briganti aveano fatto sapere che voleano arrendersi: chiesero un abboccamento al sindaco, al tenente della gendarmeria e al capitano della guardia nazionale. Non diffidando, questi non presero alcuna precauzione: i briganti invece irruppero armati nella sala e trucidarono le autorità. Il tenente si chiamava Gérard, e sua moglie, bella giovane di 22 anni, caduta poco tempo prima nelle mani dei briganti di Castrovillari avea subìto il più crudele oltraggio e dopo era stata assassinata.

Manhés volle fare una vendetta terribile. Si recò a Serra seguìto da molti soldati: il paese fu pieno d'armati, e la costernazione entrò nell'animo di tutti. Manhés non volle ricevere alcuno: vegliò tutta la notte, pensando alla vendetta più crudele. La scelta della punizione era difficile. Da una parte non si poteva uccidere parecchie migliaia di persone: dall'altra non si poteva distruggere un paese necessario alla difesa nazionale. Gli abitanti di Serra erano infatti addetti alla industria del ferro ed essendo allora, a causa degli inglesi, impossibili o molto difficili le comunicazioni per via di mare, le poche miniere di ferro di Calabria eran preziose.

La gente di Serra, convinta che il paese sarebbe stato distrutto passò la notte in orazioni ed in pianti, cercando di mettere in salvo quanto potè di mobili e di oggetti di valore.

La mattina il generale ordinò che tutta la popolazione fosse riunita nella pubblica piazza: l'assemblea fu innumerevole. Neppur uno mancò: vecchi e malati si trascinarono e si fecero trascinare. Manhés entrò in mezzo alla folla e parlò con veemenza: tutti tremavano. Ei disse che erano uomini senza onore, che tutti dovean perire, che neppur uno si sarebbe salvato.

A un punto ebbe una idea luminosa.

Nel profondo terrore di tutti:

«Io ordino, esclamò, che tutte le chiese di Serra siano murate, che tutti i preti senza eccezione abbandonino questo paese maledetto e vadano a Maida. I vostri fanciulli nasceranno senza battesimo; i vostri vecchi moriranno senza sacramento. Se alcuno tenterà di uscire dal paese sarà ucciso e voi dovrete vivere soli come cani.»

Bisogna conoscere il paese per comprendere l'abbattimento che vinse tutti; una condanna di morte non avrebbe agito così.

Quando Manhés partì, tutta la città era deserta. Ma nel bosco il generale s'imbattè in una processione interminabile: migliaia di persone con le camicie bianche, si battevano il petto nudo con le pietre e imploravano misericordia. – Uccideteci piuttosto! – esclamavano.

Manhés fu inesorabile. I preti furon condotti via tutti; fu portato a braccia perfino un vecchio prete di ottant'anni e rinchiuso nel seminario di Maida. Serra rimase nella desolazione, con le sue chiese chiuse.

Il generale promise che avrebbe perdonato solo quando in tutto il territorio di Serra e nei boschi vicini non fosse stato in vita un solo brigante. La disperazione fece fare cose terribili: i legami di amicizia o di sangue non impedirono la strage. Neppure un brigante sfuggì. In pochi giorni fu fatto ciò che nessun esercito avrebbe potuto.

E allora Manhés tolse l'interdetto.

La popolazione tutta intiera si recò a Maida a riprendere i suoi preti, fra le grida di giubilo e d'allora Serra non ebbe mai più un brigante.

«Ove i popoli sono infieriti con le armi – ha detto Vico – talchè non vi abbiano più luogo le umane leggi, l'unico potente mezzo di ridurli è la religione.»

Oltre gli uccisi, il cui numero è assai difficile indicare, 1200 briganti furono rinchiusi nelle diverse prigioni della Calabria.

Sotto la più terribile delle persecuzioni i capi si videro abbandonati dai seguaci; resa loro impossibile la comunicazione con coloro che erano nei paesi e che li aiutavano, fucilati costoro su semplice sospetto, messe grosse taglie sui briganti più noti, l'avidità, il desiderio di salvarsi fecero sì che molti tradirono o vendettero i compagni.

La fine di molti briganti fu crudelissima.

Più terribile, più tragica di tutte la fine del brigante Bizzarro. Attorniato da ogni parte, abbandonato da tutti, si era ridotto nel bosco di Rosarno con la sua amante Niccolina Licciardi di Seminara e con i suoi due terribili mastini, divoratori di uomini. L'amante avea dato da pochi mesi a Bizzarro un figliuolo, e nelle lunghe fughe precipitose, nelle peregrinazioni dolorose la donna portava a braccia il bambino: madre e amante fedele nel periglio.

Bizzarro si era ricoverato in un antro solitario, noto forse a lui solo, e di cui l'entrata assai angusta era difesa e nascosta dai rovi e dalle erbacce.

Ora il bambino che avea sofferto di quella vita errante piangeva sempre. La donna cercava invano di attaccarlo al seno esausto: la notte sopra tutto non facea che gridare. Una notte in cui le grida erano maggiori e i terribili cani guaivano quasi per segnalare l'avvicinarsi di gente, Bizzarro esasperato, temendo di essere scoperto, prese il figlio per un piede e lo fracassò contro il muro.

La donna non disse nulla.

La mattina, quando il brigante fu uscito scavò con il coltello una fossa nella grotta e vi seppellì dentro il figliuolo e pose sopra il letto, perchè i cani non scavassero il cadavere per divorarlo. Nelle notti insonni ella dovette maturare il pensiero terribile; e una notte che Bizzarro dormiva prese il fucile e lo uccise. Poi gli recise la testa, la mise nel grembiale e si recò al comune vicino per chiedere il danaro promesso a chi avrebbe dato morte al brigante.

Qualche tempo dopo la donna si maritò e il generale Manhés dice che fu sposa e madre esemplare.

La persecuzione di Manhés in Basilicata e in Calabria durò pochi mesi: ma fu così terribile, che in breve tempo non rimase più in vita un solo brigante.

* * *

Dalla persecuzione di Manhés, avvenuta fra il 1810 e il 1811 sino alla fine della dinastia borbonica, nel 1860, in mezzo secolo, fatta qualche eccezione, il brigantaggio torna a essere malandrinaggio.

Appaiono anche in questi cinquant'anni alcune eccezioni notevoli, come quel famoso don Gaetano Vardarelli, intelligente e non privo di studi, che insieme ai suoi fratelli e a molti compagni dominò quasi la provincia di Foggia fra il 1815 e il 1817. Carbonaro e cattolico avea, malgrado non poche ribalderie, tendenze liberali e umanitarie e volea rassomigliare e rassomigliava in qualche cosa ad Angelo Duca. I Vardarelli aveano con sè la simpatia delle popolazioni, e non erano da confondersi con i banditi volgari. Il governo borbonico, che non avea potuto averli per forza d'armi li ebbe per tradimento: promise loro ciò che chiedevano, e come tante volte prima e dopo, venne meno al patto.

Il brigantaggio ebbe ancora qualche figura meno crudele o corrotta: ma fu sempre, dopo, sfogo naturale della miseria, della ingiustizia e della delinquenza, sì com'era stato prima nel 1799.

I famosi briganti del regno di Francesco I, la «grande compagnia di Gasparone,» la quale taglieggiava i comuni e i proprietari in Abbruzzo; la trista comitiva di Mezzapenta, famosa in Terra di Lavoro: le piccole bande sparse dovunque nella Basilicata non riunivano che disgraziati o delinquenti. Le operazioni erano sempre le stesse; si derubavano i viandanti, s'imponevano taglie ai possidenti, sotto minaccia di rovinare le loro proprietà; si rubavano e violavano donne, si eseguivano vendette per incarico o per commissione; storia di tristezze e di miserie.

Accanto al brigantaggio fioriva il manutengolismo, come si dice ancora da noi, ed era di due specie: era fatto per timidità ed era fatto per avidità. Vi erano coloro che speculavano sui briganti, che qualche volta arricchivano su di essi. I briganti doveano avere il protettore, l'informatore, il difensore; e spesso queste qualità si trovavano in coloro stessi che doveano perseguitarli. Parecchie fortune sono state fatte col brigantaggio; assai spesso il manutengolo arricchiva e il brigante finiva sulla forca. Le chiese stesse e i monasteri erano asilo di briganti, e i monaci di Venafro pregavano il giorno e non disdegnavano la notte di travestirsi per assalire i viandanti e per derubarli. Anche durante il regno di Ferdinando II il brigantaggio non fu che malandrinaggio: raccontarlo non sarebbe che ripetere una storia di dolore e di sangue. Le autorità erano fiacche, le popolazioni impaurite, le miserie grandi; l'esempio dei briganti arricchiti esaltava e accendeva le nature più miti. Perfino in tempi molto vicini a noi Ferdinando II, non riescendo a vincerlo altrimenti, graziava il brigante Giosafat Talarico, gli accordava lauta pensione e soggiorno nella ridente isola d'Ischia.

Ma la minaccia era sempre sospesa sul capo dei liberali, e le classi desiderose di novazioni (in grandissimo numero per necessità o per bisogno, in una certa parte per idealità) si preoccupavano dei massacri che ogni mutamento avrebbe prodotto: si sapeva che qualsiasi rivoluzione volea dire Santa Fede a Napoli e il brigantaggio nelle province.

Nel 1820, che pure non lasciò traccia alcuna, perchè fu moto incomposto e ingiustificabile, mentre i carbonari discutevano di libertà e i loro seguaci chiedevano impieghi nelle province, il brigantaggio si acuiva.

Più ancora il male si manifestò nel 1848.

Data la costituzione a malincuore si volle dalla Corte determinare quello stato di squilibrio, che rendeva necessario il ritorno al vecchio regime. I principi di casa reale, come il conte d'Aquila e il principe di Salerno pensarono di «promuovere la rivolta dei contadini nelle province, della plebaglia nella capitale» come scrive P. S. Leopardi. Difatti, in parecchi comuni, torme di contadini invasero le terre pubbliche e vollero dividersele e il brigantaggio, già depresso, cominciò a rifiorire.

Leggendo gli scritti e la corrispondenza dei liberali del 1848 traspare ogni momento la loro ingenua sorpresa nel vedere che, mentre essi lottano per la libertà, i contadini si rivoltano, invadono le terre pubbliche e se le appropriano, oppure si trasformano in briganti. L'8 giugno del 1848 Carlo Poerio scriveva a Raffaele Poerio: «Una setta anarchica s'impadronisce delle proprietà dei privati e quindi irrita e allarma i ricchi e li rende devoti a qualunque governo che permetta sicurezza.» E dopo ingenuamente confessa che, mentre la famiglia Poerio fa tanti sacrifizi «i nostri coloni non pagano e la guardia nazionale di Policastro s'impadronisce della Sila e la divide fra i suoi abitanti!» E lo stesso Carlo Poerio scriveva ad Alessandro il 22 luglio del 1848: «La difficoltà non è di far cadere il Ministero; ma sibbene di comporne un altro, mentre vi è una feroce reazione sanfedista nelle province, dove vi era stata mossa… La rapina e i ricatti delle bande armate aveano finito di disgustare la massa dei proprietari e degli onesti cittadini. Nel Cilento, poi, gli sciagurati, che si sono mossi, formano una setta antisociale e bestiale, che non si occupa d'altro fuorchè di mettere a sacco e a ruba il paese.»

 

Nei nostri Parlamenti si fa sovrastare ora il pericolo dei dinamitardi; allora non v'era la dinamite e si parlava con terrore dei fuochisti, miserabili contadini che a ogni agitazione volevano riprender le terre che altri usurpava. E la monarchia trovava la sua difesa appunto nel divampare degli odî popolari.

Così Francesco II cercò di salvarsi nel 1860, impiegando la stessa politica che più di sessant'anni prima avea salvata la corona del suo bisavolo. Egli e i suoi, prima di andar via, gittarono in fiamme il reame. L'esercito disciolto, proprio come nel 1799, fu il nucleo del brigantaggio, come la Basilicata ne fu il gran campo di azione.

Anche allora uomini di fede pura lasciarono la vita miseramente. I briganti entrarono nelle borgate e nelle città, ebbero i loro generali, i loro capi, i loro protettori, i loro sfruttatori; fu l'esplosione di tutti gli odî, fu il divampare di tutte le vendette. Sopra tutto al sorgere del brigantaggio nel nord-est della Basilicata, fra i trucidati furono alcuni uomini che erano per la virtù della vita e la nobiltà delle idee onore della loro terra. Ma più tardi la politica entrò solo in parte, come mezzo di unione e di rallegamento. Il popolo non comprendeva l'unità, e credeva che il re espulso fosse l'amico e coloro che gli succedevano i nemici. Odiava sopra tutto i ricchi, e riteneva che il nuovo regime fosse tutto a loro benefizio.

L'Italia nuova non ha avuto il suo Manhés; ma le persecuzioni sono state terribili, qualche volta crudeli. Ed è costata assai più perdita di uomini e di danaro la repressione del brigantaggio di quel che non sia costata qualcuna delle nostre infelici guerre dopo il 1860.

* * *

Signore e signori,

Io v'ho detto che cosa sia stato il brigantaggio: vi ho raccontato tutta una storia di dolore.

Ora permettete che io mi chieda: abbiamo noi rimosse le cause del male? La stessa domanda si rivolgeva venti anni or sono Pasquale Villari, e rispondeva con tristezza che le cause esistono tuttavia. Alcune, e le principali, non solo non sono state eliminate, ma in qualche punto si sono inacerbite.

Abbiamo costruito alcune ferrovie ed è stato un bene anche quando non rappresentano un'attività; abbiamo imposta, sia pure con poca efficacia, l'istruzione obbligatoria, e il popolo, se ha imparato molte cose inutili, alcune utili ha appreso. L'esercito, per fortuna nostra non ancora basato sull'ordinamento territoriale, che vorrebbe dire la fine dell'unità, ha avuto un vantaggio; centinaia di migliaia dei nostri contadini sono usciti dai loro paesi, hanno visto nuove città, hanno sopra tutto dimenticato. Gli odî trasmessi per eredità, acuiti dalla vicinanza, esacerbati dalla ingiustizia, sono qualche volta diminuiti. Il contadino ha acquistato un più alto concetto di sè: chi ricorre a lui, sia pure per il voto, per la sovranità fittizia del momento, non può esser sempre inumano.

Ma in tutto il resto le cose non sono mutate.

La massa degli intermediari è cresciuta, è altresì strabocchevolmente aumentato il numero dei professionisti. Vi erano nel regno di Napoli cento mila ecclesiastici un tempo: maggiore è forse oggi, nelle province, che lo componevano il numero dei professionisti laureati e diplomati. E almeno gli ecclesiastici non si sposavano e non chiedevano alle amministrazioni impieghi per i figliuoli. Le terre pubbliche sono state usurpate, usurpate contro la legge, e noi abbiamo assistito spettatori silenziosi a tanto male. Le imposte sono cresciute e cresciute su chi non può pagarle: e sono pondo insostenibile e crudele. Non una parola di amore ha portato la civiltà nuova a tante sofferenze, non una parola di pace. I contrasti sono ancora stridenti; e così assorbiti come siamo dalle nostre miserie, dalle nostre vanità, dalle nostre preoccupazioni, noi chiudiamo gli occhi a tutto e non vediamo. In un'ora difficile, in un'ora di periglio, il male sopito ora potrebbe divampare.

E allora, voi mi chiederete, perchè il brigantaggio non esiste più quando molte cause permangono?

Perchè noi mandiamo ogni anno fuori di Europa dal solo Mezzogiorno continentale, un vero esercito di quasi cinquanta mila persone e i contadini di Basilicata, delle Calabrie, del Cilento, che non chiedono nulla allo Stato, nemmeno bonifiche derisorie, nemmeno consorzi mentitori, nemmeno tariffe di protezione, danno il contingente più largo. Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del brigantaggio e una dell'emigrazione e l'una e l'altra si completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi.

Una delle più crudeli accuse e più inique è nel dire che i contadini meridionali amano l'ozio; ho visto molta gente lavorar meglio, nessuno lavorar più.

La miseria crudele non ha ucciso le intime energie della razza, l'anima essenziale della stirpe; il brigante e l'emigrante con la rivolta e con l'esodo sono la prova di una mirabile capacità espansiva.

– Che cosa farai? – io chiedevo al vecchio contadino che partiva.

– Chi lo sa! – egli mi rispondeva.

Non chiedeva nulla, non voleva nulla. Andava a lottare, a soffrire; aspirava alla sazietà. In altri tempi sarebbe stato brigante o complice; ora andava a portare la sua forza di lavoro, il suo misticismo doloroso nella terra lontana, a costituire forse con i suoi compagni quella che dovrà essere la nuova Italia.

O povera gente così forte e così infelice, così buona e così calunniata!