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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I

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Io non credo che la lotta di classe sia base della vita sociale dei popoli; non credo che sia metodo di trasformazione; non credo che dal bandire e dal propagare questa lotta potrà uscire la pace.

Ma se un governo si è mai basato sul dissidio delle classi, è stato il governo dei Borboni di Napoli. L'aristocrazia e la borghesia liberale, entrambe scontente, hanno avuto per un secolo sospesa sul capo la minaccia di rivolte proletarie a servizio della monarchia. Ne fu tutta colpa loro, ma delle circostanze storiche; poichè non bisogna mai dimenticare che i Borboni vennero a Napoli animati da spirito di riforme e che essi e i loro ministri, per sessanta anni almeno, non fecero che nimicarsi l'aristocrazia e il clero, poichè ne limitarono la potenza. La rivoluzione del 1799 appare appunto composta degli elementi più vari: ed erano in essa numerosi ecclesiastici e moltissimi nobili, che alla monarchia centralizzata preferivano qualsiasi altro regime.

In Italia la feudalità non ha avuto forse mai salde radici; solo a Napoli e in Sicilia è stata potente, e le sue tradizioni sono tuttora vive. Trapiantata dai Normanni in tutto il suo vigore, ha trovato, per espandersi e per durare, tutte le condizioni favorevoli. La tenue densità della popolazione, una larga superficie malarica che impediva e impedisce la popolazione sparsa e l'accumula solo in alcuni luoghi, il debole sviluppo degli scambi determinavano l'esistenza e la potenza della feudalità.

D'altra parte faceva riscontro una borghesia, nata non già dal traffico e dalla industria, ma da tre funzioni che la rendevano ugualmente odiosa al popolo: l'intermediarismo agrario, il piccolo commercio del danaro, le professioni liberali e sopra tutto l'avvocatura.

L'intermediario della terra non era un coltivatore, ma aveva il più delle volte una funzione puramente parassitaria; agente del barone o del signore, che viveva in città, cercava di arricchire sui fitti brevi e più avea bisogno di vivere (non dirò di arricchire) più incrudiva sui coltivatori. Il piccolo commercio del danaro, che dava all'usura agricola forme forse non più viste altrove, dura tuttavia ed è stata origine assai frequente di arricchimento. Infine l'avvocatura, sempre disposta a dimostrare le ragioni del più forte, sempre difenditrice delle usurpazioni delle terre popolari, abilissima nei sotterfugi, toglieva alla classe intermedia ogni fiducia. Il Colletta chiamò l'avvocatura peste del reame di Napoli; e lo storico illustre delle finanze napoletane, Ludovico Bianchini, riconosce che per secoli essa in ogni occasione si mostrò sempre pronta a sostenere la cattiva disciplina di governo.

Rappresentava e rappresenta forse tuttavia la parte più attiva, più intraprendente, più audace: ma era ed è senza dubbio causa di dissoluzione e di corruzione, rendendo più difficili i rapporti sociali e corrompendo in ogni guisa tutte le magistrature. Il parlamentarismo anzi, piuttosto che mitigare il male l'ha esacerbato, annullando ogni dignità della magistratura e creando il tipo infame dell'avvocato politico, che in passato non esisteva e non poteva esistere.

Uno degli studi più interessanti sarebbe quello della distribuzione territoriale del brigantaggio. Senza dubbio le condizioni geografiche agivano sopra tutto; ma dopo di esse in prima linea le condizioni economiche.

Le provincie che hanno più sofferto il brigantaggio sono state la Basilicata e il Principato Citra, nella parte sua più povera; vengono dopo alcune zone dell'Abbruzzo e della Calabria, nella parte ove il concentramento della proprietà era maggiore. Ma dovunque le ragioni sono identiche.

Le cause predisponenti del brigantaggio erano numerose: alcune sono scomparse, qualcuna ancora permane.

La prima, la vera, la grande causa era la miseria.

Alla vigilia della rivoluzione francese, nel 1786, il reame di Napoli aveva appena 4,800,000 abitanti. Ora il reddito del reame, in un'epoca in cui le industrie erano scarse e pochi i commerci, era tenue: era un reddito quasi esclusivamente agrario, quale potea venire da un paese a cultura estensiva e in gran parte pastorale. L'intero reddito dei feudi era calcolato a oltre 4 milioni di ducati, esenti da tributi e i feudatari aveano innumerevoli diritti, l'uno più gravoso dell'altro per i cittadini. Di oltre 2000 comuni appena 384 erano demaniali, cioè dipendevano direttamente dal Re. Il numero dei famigli e dei dipendenti dei baroni, che applicavano i diritti feudali senza scrupoli, era eccessivo: eccessivo più ancora il numero delle pretese. Circa 10 milioni di ducati prendevano sotto ogni titolo gli ecclesiastici, e il loro numero sommava a oltre centomila, cioè vi era un ecclesiastico per meno di ogni 50 abitanti. Popolazione enorme e improduttiva, non forse però più enorme di quello che sarà fra breve il numero dei professionisti usciti dalle università, dei diplomati delle scuole secondarie, spostati desiderosi di impieghi e quindi bisognosi di mutazioni.

Quale poteva essere la vita del popolo? Una vita grama e stentata; una vita di miserie e più ancora di depressione morale. In alcuni feudi i baroni erano implacabili nel pretendere che il molino fosse un loro monopolio; e il pane si cuoceva sotto la cenere ed era negato ai contadini ciò che hanno anche le popolazioni più misere e meno progredite.

«Il brigantaggio – conchiudeva tristamente l'on. Massari – diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie.»

Le genti dell'Italia meridionale, risultato delle mistioni di razze sì varie, hanno forse da tanti incroci, forse più ancora dalla rapidità loro nell'ideare, una vaga tendenza alla vita di avventure. Vi è, sopra tutto nelle genti di Basilicata e di Calabria un senso di misticismo inconscio, che invade l'anima popolare.

Non è il misticismo gentile e delicato, che penetrò l'anima di Francesco d'Assisi: ma un misticismo rozzo e quasi selvaggio, com'è quello che dovè albergare nell'anima di Gioacchino di Fiore, il calavrese abate Gioacchino, che esercitò appunto il suo rude apostolato nei monti di Basilicata e di Calabria.

In quelle aspre regioni ogni paese, ogni zona, ha il santuario lontano, in cima ai monti; chiese perdute tra i boschi, o costruite su antiche caverne, abitate da pellegrini o da santi. Si va ai santuari, dopo aver digiunato, pregando per via, qualche volta con i fiori in cima alle canne, gli umili fiori dei campi e dei boschi: molto spesso si va a piedi nudi, salmodiando e orando. Lunghi cortei di uomini e di donne salgono le erte faticose fino ai luoghi da cui si spazia l'orizzonte lontano. Nei lunghi pellegrinaggi il misticismo si trasforma; diventa qualche volta desiderio di avventure. Il pellegrino è ora più che non si pensi il precursore dell'emigrante; in altri tempi era il precursore del brigante. Nulla di più naturale che, nelle lunghe notti vegliate, nelle lunghe vigilie, nell'incontrarsi con genti nuove, sorga un bisogno di andar lontano e di espandersi. La terra maligna, che dà la febbre e uccide, discaccia. La razza sabellica ama l'intrapresa e l'ignoto; la Basilicata, che non ha la quarta parte della popolazione di Toscana, manda fuori di Europa assai più del doppio di emigranti all'anno. Senza dubbio la causa più profonda e più generale è la miseria; ma io non oserei dire che non vi sia in molti casi un bisogno di tentare e di cercare.

Ricordo, come se fosse ora, un vecchio contadino del mio paese tutto bianco, ma diritto tuttavia come un abete delle montagne. Andava al Brasile: non possedeva che cinque lire e il biglietto d'imbarco; non sapeva leggere, non avea nessuna nozione dei paesi dove si recava. Sapeva solo che altri della sua terra vi era stato. Gli chiesi da qual parte fosse il Brasile: mi rispose solo che era lontano, assai lontano che non si potea misurare quanta fosse la lontananza. E mi accennò con la mano in aria, come per indicare qualche cosa di strano e di indeterminabile. Quando gli domandai che cosa avrebbe fatto: – E chi lo sa? – mi rispose con la profonda filosofia meridionale, così piena di fatalismo e di tristezza; e non volle dire niente più. Avrebbe lavorato, avrebbe goduta quella che gli pareva la grande ricchezza, cioè mangiare fino alla sazietà, come a Natale, come a Pasqua; sarebbe morto forse.

Le anime inquiete non potendo far meglio ora emigrano; allora l'unica professione possibile per chi non volea rassegnarsi a una vita bestiale era il brigantaggio.

Così si spiega che tra i briganti noi troviamo alcune figure di veri idealisti, alcune anime pur nella loro rozzezza, e qualche volta nella loro crudeltà, desiderose di giustizia e amorose del bene.

Ciò che qualche volta sorprende nell'Italia meridionale è vedere nei contadini più rozzi alcune finezze di sentimento e qualche volta anche fisicamente alcune figure le quali fanno pensare a razze nobili decadute. In un paese, che è stato teatro di tutte le guerre, in un paese che è stato per molti secoli la porta del Levante e in cui è stata contesa la signoria del mare, mutamenti frequentissimi hanno assai volte cambiata la condizione degli individui: sì che le nobili stirpi sono precipitate più in basso. Non è raro vedere nei tratti di un contadino qualche cosa che rivela un'antica grandezza, o l'abitudine di una vita non servile e non povera.

I patologi dicono che la malaria sia causa predisponente dell'isterismo e delle malattie nervose: certo traversando le zone malariche (sopra tutto dove la malaria è meno grave e non prostra addirittura gli individui) si notano subito le tendenze fantastiche degli abitanti, la loro tendenza verso l'ignoto, il bisogno della vita di avventura.

Adesso si emigra; quando l'emigrazione non v'era, il desiderio dell'ignoto produceva conseguenze ben diverse.

Altra causa che agevolava grandemente il brigantaggio era la mancanza di strade. La popolazione, agglomerata in alcune province, quasi non avea strade. Per molte miglia si percorreva una campagna in cui non eran che sentieri mal sicuri e i trasporti per necessità eran lenti e difficili.

 

La Basilicata, centro principale del brigantaggio, ai tempi di Carlo III non avea quasi alcuna strada rotabile. La strada delle Calabrie giungeva fino a Persano; nel 1792 era estesa fino a Lagonegro e solo nel 1795 giungeva a Muro e nel 1797 ad Atella.

Ancora nel 1863, quando fu fatta l'inchiesta parlamentare sul brigantaggio, sui 124 comuni della Basilicata 91 erano senza strade; sui 108 della provincia di Catanzaro 92; sui 75 della provincia di Teramo 60. Dei 1848 comuni del Napoletano 1321 mancavano di strade.

Or tutto ciò era necessariamente a profitto del brigantaggio; internandosi nelle boscaglie, facendo periodiche comparse al piano, i banditi resistevano facilmente alle persecuzioni più audaci.

Alcuni dei banditi facevan fortuna, e qualche volta ottenevan la grazia e si ritiravano a vivere tranquillamente; ma nel grandissimo numero perivano uccisi o traditi, o erano imprigionati.

Qualche volta i signori del paese, per timidità, o per desiderio di guadagno, proteggevano i briganti; il più delle volte davano nelle loro masserie, nelle case di campagna asilo e rifugio. Ai tempi di Carlo III anche i conventi erano asilo securo; e Carlo dovè molti abolirne per questa ragione che eran covo di malviventi. Nei piccoli paesi le lotte eran frequenti, eran frequenti le lotte tra un paese e l'altro: dove i comuni eran più divisi e quindi più aspre e più inique le persecuzioni della parte perditrice, maggiori eran le cause che determinavano gli individui meno tolleranti a darsi alla campagna, come si diceva allora. La vendetta era una necessità e un dovere, e le vendette eran lunghe e terribili.

Oh! la tristezza di una borgata meridionale, perduta nelle gole di Basilicata o nelle asperità della Sila, una borgata, senza luce di pensiero, senza blandizie dell'arte, senza la suprema poesia della lotta in comune.

Anche nell'Italia centrale le lotte erano terribili nei piccoli centri come nei grandi: e quei che un muro ed una fossa serra si tormentavano e si dilaniavano fra loro quando non dovean lottare contro i vicini. Ma la relativa prosperità e la mitezza del clima e la salubrità dei campi davano alla lotta un carattere più umano; permettevano lo sviluppo delle forme libere dei comuni; determinavano il bisogno dell'arte, davano carattere di epica grandezza anche alle lotte delle fazioni della stessa città.

Ma la vita in un piccolo centro campestre dell'Italia meridionale nell'interno della Basilicata o delle Calabrie! ma la vita in un casolare dell'Appennino! ma la vita in un grosso borgo pugliese! La malaria da una parte e i cattivi ordinamenti dall'altra inducevano gli abitanti a vivere uniti; in una unione necessaria e forse per questo più ingrata. Le case si aggruppavano miseramente fra loro, e non v'erano, d'ordinario, che il castello del barone, la chiesa e il convento che avessero un'aria meno misera. Impedite quasi le comunicazioni o limitate ai paesi vicini, la vita trascorreva sempre allo stesso modo; quando non era turbata da cataclismi violenti, come le guerre. Assoluto il potere del feudatario e peggiore di esso quello di coloro che lo rappresentavano, non era possibile al popolo nessuna salute fuori della rivolta individuale. La religione, quando non era una superstizione, avea il carattere dei luoghi: una religione dura e paurosa, quasi crudele, mitigata solo dall'intervento del protettore – un santo, per lo più patrono di un male grave e pronto più a punire che ad amare, più a vendicare che a perdonare.

La violenza sessuale delle genti del Sud faceva il resto, e contribuiva non poco a inasprire i rapporti. Si può dire che fra dieci persone che si davano al brigantaggio tre o quattro almeno ricorrevano a un così estremo passo solo per vendicare la violenza patita da una moglie, da una figliuola o da una sorella.

Per spiegarsi alcune cose bisogna intendere quale violenza abbia l'istinto carnale nelle genti del Sud. Per i contadini specialmente è spesso l'unica forma in cui riescano a concepire l'ideale e ad avere una ebrietà dello spirito. Così come il desiderio è violento, l'istinto della proprietà è completo.

La donna infedele – sopra tutto se cede a una violenza – altrove non è causa di disprezzo per il marito o per il padre. Fra i contadini del Mezzogiorno vi è invece una parola che riunisce tutti gli insulti, una parola che è pronunziata spessissimo, e che nella crudeltà sua è peggiore della morte, ed è il nome che è dato al marito ingannato o vittima. Che un uomo sia ladro, omicida o perverso e che tutte queste cose gli siano rimproverate egli soffrirà sempre meno che sentendosi insultare per colpa o per sventura della moglie.

Ho letto molte storie di briganti, ne ho sentite raccontare moltissime; ho vissuto nei luoghi dove più vivi sono i ricordi; dovunque ho visto le stesse cause agire allo stesso modo.

Nei piccoli centri il potere del feudatario o del borghese, del funzionario o del padrone era usato non di rado per attirare le donne dei contadini: quando non cedevano volontariamente erano persecuzioni lunghissime ai mariti, ai fratelli, ai padri. Era il disonore sotto altra forma; era la miseria; era la sopraffazione quotidiana.

Come resistere in una lotta così impari? Le nature deboli si avvilivano e tolleravano; ma gli uomini risoluti si davano alla campagna, si facevano briganti; si ribellavano insomma nella sola forma che era loro possibile.

La suprema gioia di uccidere dopo aver sofferto l'oltraggio supremo; la suprema gioia di vendicare e di vendicarsi dopo aver tanto penato, tentavano anche le nature meno cattive. La religione avea indulgenze per i forti; e ne aveano più ancora i funzionari dello Stato.

Il brigantaggio diventava un mezzo di salvezza e un mezzo di riabilitazione. Al marito oltraggiato, all'uomo perseguitato rendeva quasi sempre la stima del pubblico, qualche volta la tranquillità dello spirito, la gioia di vivere.

Le persone out laws hanno avuta sempre una certa attrazione: maggiore essa dovea essere in una società, in cui le leggi erano pessime.

Il contadino che, dopo aver sofferto tutte le persecuzioni, si dava alla campagna, prendeva qualche volta la sua rivincita nel modo più assoluto: la donna che lo aveva rifiutato si dava spesso a lui, per paura, o per amore, poichè sulle anime rozze la vita del brigante esercitava una attrazione: coloro che lo aveano perseguitato o cercavano riparo nella fuga, o si umiliavano venendo a patti; e quasi sempre vedeva il suo prestigio rialzarsi. Poteva essere odiato, non mai disprezzato – e in questa differenza è la causa non ultima del fàscino che la campagna immensa esercitava sulle anime insofferenti.

Quasi tutto questo non fosse bastato, incitava al brigantaggio, come si è detto, l'opera dei governi. Nei periodi in cui ne aveano bisogno per sedare interne lotte, i governi ricorrevano ai briganti. E si videro i maggiori fra questi diventare ricchi e potenti, occupare alti gradi e imporsi agli uomini onesti; si videro mostri di crudeltà, come Mammone e Fra Diavolo premiati dal re e trattati come amici.

Il vicereame spagnuolo avea fatto lo stesso; ma nessuno avea mai osato ciò che fece Ferdinando IV e ciò che fecero dopo di lui i suoi discendenti.

Nell'Italia meridionale esisteva ed esiste tuttavia un vero proletariato agricolo; vi sono in ogni provincia molte migliaia di persone che non possiedono che la loro forza di lavoro. I cafoni di Basilicata e di Calabria: i terrazzani di Capitanata sono le forme tipiche di classi la cui miseria e la cui incertezza del vivere sono spesso a un livello che non potrebbe essere più basso.

Non avendo altra industria che la terra, queste masse, che per giunta hanno assistito per un secolo alla usurpazione delle terre pubbliche, che vi assistono tuttavia, non amano le classi medie. Non amavano nemmeno l'aristocrazia; ma essa aveva almeno il prestigio del nome e della tradizione.

Quando venne l'onor. Castagnola insieme alla Commissione d'inchiesta sul brigantaggio giù nell'Italia meridionale, fu vivamente sorpreso di quest'odio che esisteva tra possidenti e salariati, fra galantuomini e cafoni, come si dice da noi, all'indomani stesso della rivoluzione liberale del 1860.

Prima del 1860 quasi nessun contadino sapea leggere; un certo numero di possidenti delle campagne ignorava persino le prime e più elementari nozioni. Superstiziosissime, per razza e per natura avventurose, abituate per secoli a vedere il più forte opprimere il più debole, le masse consideravano il brigante come il vindice dei torti che la società loro infliggeva.

Ora i Borboni di Napoli, la cui colpa suprema fu non già la crudeltà, come si ripete a torto, ma la paura, che nei regnanti è madre della crudeltà, ed è peggiore di essa, non concepivano nemmeno che il popolo potesse essere altra cosa fuori di quello che era. Molti provvedimenti vollero per migliorarne le condizioni, nessuno per educarlo. Sentivano che la loro fortuna era appunto nel disporre di una forza cieca da scatenare contro le classi medie, tutte le volte che esse si mostravano desiderose di ordinamenti nuovi.

Non solamente durante il 1799, ma durante la monarchia francese, ma nel 1820, ma nel 1848, ma nel 1860, i Borboni ebbero il brigantaggio come suprema difesa. Il brigantaggio era il modo di sfogare tutte le vendette.

Era un'onda cui non si resisteva: secondata dai preti, fatta servire alle passioni locali, inasprita da tutte le sofferenze, quest'onda irrompeva terribile e devastatrice.

Passato il pericolo, restaurate le sue basi, la monarchia premiava i più fortunati, i capi delle insurrezioni e perseguitava e sterminava gli altri; tranne a ricominciare ove ne fosse il bisogno.

Così nella storia del brigantaggio, noi troviamo due forme distinte: i briganti comuni erano o delinquenti desiderosi di far fortuna e di sfogare i loro istinti, o poverissimi uomini spinti dalla fame e dalle ingiustizie a mettersi contro la società.

Oltre di questo vi è stato un vero brigantaggio politico, che riunendo gli elementi che già v'erano, e rivolgendosi alle masse e svegliando istinti rivoluzionari, è stato sostegno della monarchia e da essa a volta a volta creato e distrutto.

* * *

Quando si parla di briganti si pensa subito a tutte le leggende che noi abbiamo sentito ripetere: si pensa al trombone, al cappello a punta, ai delitti terribili e alle grassazioni più spaventevoli.

Il brigante invece non era che un rivoltato: e fra i rivoltati vi erano, come vi sono oggi, i sofferenti, gli idealisti e i perversi. Bakounine ha detto che il brigante meridionale rappresenta il tipo del perfetto anarchico. Se essere anarchico vuol dire soltanto mettersi contro la società, apertamente, violentemente, i briganti erano anarchici.

Quando si pensi alle descrizioni terribili che abbiamo lette o udite, pare strano che anche i più feroci di essi erano religiosissimi. I ladroni che seguivano il cardinal Ruffo, prima di mettere a sacco e fuoco le città, di commettere ogni più terribile strage, ascoltavano la messa. La vita di avventure va sempre unita a un fondo di misticismo: ciascun brigante portava sul petto le sacre immagini, faceva doni alle chiese e non mancava di recitare il rosario. Era una religione rozza e primitiva credente in un Dio terribile, che qualche volta i banditi invocavano perchè le loro operazioni riescissero.

Così tra i briganti troviamo i tipi più diversi, come le nature più varie: accanto ai ladri e agli assassini, che costituivano il fondo del malandrinaggio, uomini desiderosi di più umano vivere e qualche volta perfino amanti di giustizia. Una giustizia rozza, quale poteva apparire alla mente di uomini incolti e superstiziosi.

Il tipo più singolare, più interessante, direi quasi più leggendario del brigantaggio meridionale è stato Angiolo Duca, conosciuto dal popolo sotto il nome di Angiolillo.

Ancora qualche anno fa la storia si cantava sul molo di Napoli e interessava e commoveva non meno di quella di Rinaldo di Montalbano. Ciccio Zuccarino, che vende e tradisce Angiolillo, apparisce più esecrabile di Gano di Maganza, il Maganzese, orrore del popolo napoletano. I briganti che la letteratura tedesca ha vagheggiato, e Karl Moor dei Raüber di Schiller trovano il loro riflesso in Angelo Duca, che fu filantropo anche nelle sue avventure brigantesche.

Contadino della terra di San Gregorio, Angelo Duca divenne bandito per sfuggire all'ira di un barone, che volea vendicare un servo, cui Angelo in rissa avea ucciso un cavallo. Vagò da prima con altri banditi: poi formò una banda propria. Non ebbe mai grandissimo numero di compagni, come già altri famosi prima di lui e quasi tutti erano delle terre di Basilicata e di Salerno. Angelo un po' per abilità sua, un po' per la disorganizzazione della giustizia in quel tempo, fu per parecchi mesi padrone di larga zona e operò con buon successo non solo nel nord di Basilicata, che fu il teatro delle sue gesta, ma nelle provincie di Avellino e di Salerno e si spinse fino in Capitanata.

 

Non uccideva se non coloro che lo perseguitavano; non assaliva mai i viandanti, nè ricorreva mai ai soliti espedienti di rubare di notte. Preferiva chiedere apertamente ciò che gli era necessario: e tutti davano per timore o per calcolo. Quando fermava sulle vie maestre i ricchi viandanti divideva amabilmente, da uomo educato. E il danaro che prendeva, solo in parte dava ai compagni suoi: il resto lo distribuiva ai poveri, impiegava a scopi di bene, sopra tutto a dotare le zitelle.

Ogni brigante che volea durare a lungo dovea essere o mostrarsi filantropo: ma Angiolillo era sinceramente pietoso.

Un secolo prima di Angelo Duca anche il terribile abate Cesare usava fare opere di pietà e dotava le fanciulle povere; e Peppe Mastrillo – il brigante più leggendario – secondo un suo biografo consigliava ai compagni di far la carità ai poveri e di difendere l'onore delle zitelle.

Ma nessuno dei briganti nè prima, nè dopo ha avuto la filantropia larga e disinteressata di Angelo Duca.

Quando entrava in un paese, e ciò gli accadeva di frequente, andava subito dai più ricchi, si faceva dare il danaro che possedevano e lo distribuiva ai poveri. Così fece a Calitri dove il più ricco era il parroco.

Non amava che i ricchi godessero e i poveri soffrissero. Ad Ascoli in casa di un ricco signore si faceva festa: egli vi andò, ma volle che una parte dei cibi e molto danaro fossero distribuiti ai contadini,

 
Con dir se festa fa la signoria,
Anche alla povertà festa si dia.
 

Questi versi sono dei suoi biografi, che ne hanno raccontato in ottava rima le gesta; come in versi (o strazio della rima!) è la Bellissima istoria che si cantava sino a pochi anni fa.

Non amava gli usurai e con essi era qualche volta crudele. Una volta incontrò un pover uomo che era menato in prigione, perchè non avea pagato l'usuraio. La moglie l'accompagnava piangendo e singhiozzando. Angiolillo liberò l'arrestato; si recò subito al paese dell'usuraio, entrò nella casa di questi e lo atterrì dicendogli che l'usuraio è peggiore del brigante. Il poeta gli mette in bocca le seguenti parole:

 
Il ladro ruba ed ha grande timore
 
 
Ma l'usuraio ruba francamente
E rende afflitta e misera la gente.
 

È inutile aggiungere che si fece dare dall'usuraio tutti i danari, tutti i registri e tutte le obbligazioni. Distribuì i primi ai poveri e bruciò il resto.

Sopra tutto non amava l'economia politica, poichè fissava i prezzi a piacere. In un anno in cui in Puglia era grande carestia di grano, Angelo seppe che un barone avea fatto grande incetta di frumento e avea venduto sulla piazza di Genova 12 mila tomoli di grano a 37 carlini il tomolo. Angiolillo non esitò un momento solo: andò dal barone e con bel garbo si fece dare le chiavi dei depositi, dicendo che voleva egli stesso occuparsi della vendita. Poi, secondo il poeta, fece dare il bando…

 
… a chi necessita lo grano,
Angelo vende a quindici carlini
 

cioè ad assai meno della metà. Il grano fu venduto in pochi giorni, e, cosa abbastanza singolare, Angelo restituì fedelmente il ricavato della vendita al barone.

Non amava confondersi con i delinquenti comuni, e quando poteva arrestare i peggiori di essi lo faceva assai volentieri, e si occupava perfino di consegnarli ai giudici.

Religiosissimo e accolto a braccia aperte, come un amico, dai frati in tutti i conventi della regione, avea una strana propensione a svaligiare i vescovi e i ricchi prelati; anzi si può dire che la sua opera fu principalmente diretta contro di essi. Ma nemmeno in tali casi amava essere scortese. Un vescovo avea 1000 zecchini; glie ne prese 500, dicendogli con profondo rispetto: – 500 vi bastano per il vostro viaggio. – Un'altra volta incontrò un abate benedettino, che ne avea 2500: glie ne prese metà e di questa fece due parti: una per sè e per i suoi compagni; dell'altra si servì, al solito, per dotar zitelle.

Questo desiderio di proteggere l'onore delle fanciulle non può essere compreso da chi non abbia un concetto della prepotenza baronale e più ancora di quella della ricca borghesia, che abusava delle fanciulle nel modo più indegno che si possa immaginare.

Angiolillo insegnava la morale non solo ai signori, ma anche ai preti e ai vescovi.

Gli accadde che, andando pei boschi, s'incontrò in un prete che bestemmiava come un turco. Erano strani tempi, in cui i preti bestemmiavano e i briganti insegnavano la morale.

 
Voi facendo sì trista funzione
Padre mi fate ancor scandalizzare,
 

gli disse Angiolillo; poi un po' col tu, un po' col voi, com'è abitudine dei meridionali, aggiunse:

 
Quietatevi, ti prego in cortesia,
E dimmi ancora la ragion qual sia.
 

Il prete raccontò tutto. Vacava una buona parrocchia: e il vescovo simoniaco l'avea destinata non a lui che ne avea diritto ma a un prete ricco e immeritevole, che avea pagato una grossa somma. Angiolillo andò subito dal vescovo, gli s'inchinò, gli baciò la mano e

 
Dopo questo si misero a parlare
Sul punto del dovere e dell'onore.
 

Il vescovo non seppe negar nulla a tanto intercessore, e la parrocchia fu data a chi ne avea diritto. La giustizia però non era completa: Angiolillo si recò dal prete corruttore e si fece dare 250 ducati, in punizione di aver cercato di corrompere un vescovo, e, come al solito

 
Tutto il contante che il prete ha portato
Il fuoruscito ai poveri ha donato.
 

Circondato dalla simpatia delle masse Angelo Duca avea tale potenza, che entrava da trionfatore in città di sei o settemila abitanti.

Il popolo lo considerava come un eroe e lo credeva invulnerabile.

Perseguitato aspramente e tradito da un compagno, fu arrestato nel monastero di Muro Lucano e nel 1784 impiccato in Salerno, per semplice ordine del re, senza nemmeno la parvenza di un processo. Fu forse l'ultima condanna pronunziata a Napoli per biglietto, senza nessuna procedura; e il fatto parve mostruoso anche alla Curia, che di questo scandalo parlò a lungo.

Nè prima, nè dopo di lui vi fu alcuno che, anche lontanamente, si potesse paragonare ad Angelo Duca. Vi furono tra i banditi molte anime desiderose di giustizia, o almeno di vivere più umano; vi furono individui che in non poche occasioni diedero prova di spirito di sacrifizio e di devozione. Ma erano nature rozze, e la loro primitiva morale non permetteva mai di elevarsi fuori dell'ambiente di miserie e di odî in cui vivevano.

* * *

Ma il vero brigantaggio politico non comincia che nel 1799. Fuggiti in quell'anno i sovrani in Sicilia e proclamata la repubblica, questa non avea nè potea avere salde radici nel popolo. Messa su dai francesi, raccoglieva intorno a sè gli spiriti più eletti e insieme gran numero di scontenti dell'aristocrazia del reame. Nondimeno si sorreggeva, e, nonostante Nelson, la lotta da parte della squadra britannica sarebbe durata se un uomo audace e intraprendente non avesse concepito il pensiero arditissimo di conquistare il regno al Sovrano, eccitando le passioni popolari e scatenando il brigantaggio.

Il cardinale Fabrizio Ruffo, il cui nome è rimasto tristamente famoso, ma che fu migliore della sua riputazione e sopra tutto fu più onesto dei suoi sovrani, concepì l'idea audace di riconquistare il reame, mettendo in rivolta le classi proletarie. Principe della Chiesa e feudatario, pieno di debiti e di audacia, senza scrupoli e pure non perverso, egli avea un piano assai semplice ed ardito. Partendo dalla punta estrema della Calabria e descrivendo un grande arco di cerchio traverso la Basilicata, le Puglie e i Principati si proponeva di giungere a Napoli, dopo aver percorso le zone principali del brigantaggio. Riunendo dintorno a sè i banditi – come si diceva allora che la parola brigante non era ancora penetrata – riunendo i miserabili e gli scontenti, sapeva di arrivare a Napoli seguìto da turba infinita e feroce, e contava di poter facilmente distruggere la mal difesa repubblica.