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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I

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Questo differente stato morale della vecchia Italia si manifesta mirabilmente nella corruzione amministrativa di allora, così diversa da quella presente. Gli alti funzionari di allora erano quasi tutti nobili e ricchi, che amministravano per onore e che per un senso di probità e fierezza gentilizio non rubavano, ma lasciavano invece per buon cuore rubacchiare i piccini, che non potevano fare gran danno e che così si ingegnavano a viver meglio; mentre nella amministrazione borghese successa dopo, più colta ma formata da una classe in cui erano stimolate tutte le ambizioni e tutte le cupidigie, i piccoli doverono rispettare i centesimini, ma i grandi rubarono i milioni… In questo consiste tutta la filosofia della storia del Banco di Napoli. Sotto il governo borbonico i piccoli impiegatucci del Banco si ingegnavano per spillar qualche quattrino dai clienti rendendo quei piccoli servigi che un impiegato può rendere ai clienti di una grande amministrazione; spesso anche trascuravano il loro ufficio per altri lavori. Ma l'amministrazione del patrimonio, affidata a grandi personaggi, era così rigorosa, le regole per gli sconti così severe, e così osservate, che dal 1818 al 1861 sopra una media annua di 69 milioni di sconti e prestiti su pegno, le perdite furono in media di 65,000 lire l'anno9. Dopo il 1860 gli uscieri e gli scribi poterono ingegnarsi meno; ma si ingegnarono troppo intorno al Banco altri amministratori, ben più avidi e malefici.

È facile capire come questa corruzione spicciola contribuisse a conservare lo Stato, perchè giovava agli umili e non metteva a repentaglio la prosperità pubblica. Cotesta era una corruzione conservatrice; mentre quella che successe poi fu una corruzione rivoluzionaria, che generando la miseria di molti, mettendo in mezzo alla società lo scandalo di poche grandi fortune fatte col furto, dissestò la fortuna pubblica e turbò il senso morale del popolo e fu uno stimolo a desiderare forme più perfette di Stato.

Se dunque anche la corruzione amministrativa contribuiva alla politica della stabilità eterna, che fu propria della vecchia Italia, la politica intellettuale le portò il compimento. Che la vecchia Italia fosse poco amica della istruzione popolare è notissimo, e lunghe dimostrazioni sarebbero inutili, se anche nella Toscana, che pure tra il 1830 e il 1848 fu il più civile degli Stati italiani, si trovavano dei borghi di 10,000 abitanti senza scuole10. Sennonchè questa politica intellettuale, fatta di semplice astensione, era possibile rispetto al popolino, che poteva restare illetterato e ignorantissimo; ma non rispetto alla classe media e all'aristocrazia, che qualche cosa dovevano pure studiare, per la necessità stessa della loro funzione sociale. Che cosa poteva dunque esser dato a studiare a costoro, tra il 1830 e il 1848, senza che gli studi fossero veicolo di idee empie, stimolo di ambizioni malsane? I vecchi governi avevano stabilito censure più o meno rigorose; ma tutti sanno che il contrabbando delle idee è il più facile di tutti. Perciò quei governi apprestarono un'altra difesa, più potente: l'istruzione classica, con carattere specialmente letterario. Nelle scuole frequentate dalla classe media e dalla aristocrazia (collegi, il maggior numero, e sempre con ecclesiastici per insegnanti) si insegnavano soprattutto il latino e l'italiano: si insegnavano bene, ma non si insegnava altra cosa. I nostri nonni imparavano davvero a leggere il latino e a scrivere l'italiano, l'italiano pretto dei classici, la pura lingua letteraria, la cui tradizione era conservata con molto zelo nelle scuole dei vecchi governi, anche di quelli stranieri, come l'austriaco. Fedeli in tutto alla tradizione, i vecchi governi erano in filologia puristi: cosicchè sino al 1848 tutte le scritture degli uomini colti furono scritte in pretto italiano, dalla requisitoria del poliziotto austriaco che voleva mandare sul patibolo il Confalonieri, ai libri dei medici, degli scienziati, degli eruditi. La rivoluzione nazionale imbarbarì poi la lingua in quel gergo bastardo in cui oggi si scrive ogni cosa: le leggi, i giornali, il maggior numero dei libri, e dal quale bisognerà trar fuori una nuova lingua letteraria, nostra e bella, viva e limpida, che non sia nè la lingua arcaica ora in uso in una certa letteratura, nè il miscuglio fangoso in cui si appesantisce il pensiero del maggior numero degli altri scrittori. Era quella dunque una coltura tutta letteraria, che insegnava a curare una forma la quale doveva restare vuota di ogni contenuto di idee vive e di cui il maggior numero degli uomini colti del tempo si accontentava; perchè gli uomini si appassionavano per le questioni sostanziali nei tempi di rapidi e molteplici mutamenti sociali, per le questioni formali nei tempi di universale osservanza delle tradizioni. D'altra parte l'educazione puramente letteraria, il culto della forma, il classicismo, cioè l'ammirazione delle opere antiche professata secondo certi canoni fissi, convengono interamente a una società che vive di tradizioni, perchè sono una scuola eccellente dello spirito di conservazione. Gli uomini hanno immaginato mille prigioni per serrarci dentro la infinita energia espansiva e sovvertitrice del pensiero umano; le carceri, la povertà, l'infamia, la morte; sempre invano però! perchè una sola è la prigione capace di contenere il pensiero: il carcere di formole irrigidite, la gabbia di parole che hanno perduto il loro significato, il sepolcro di antiche scritture ormai vuote di senso. Dal momento in cui le classi colte di un paese si danno a curare la propria lingua come una lingua morta e a lavarne continuamente il cadavere; quando esse prendono a considerare certi capolavori della loro arte antica come i tipi perfetti soli ed eterni della bellezza, che si devono ricopiare indefinitamente, senza tentar cose nuove che sono di per sè inferiori alle antiche, il loro spirito si chiude alle novità sostanziali, ripugna ai rivolgimenti ideali che precedono o almeno accompagnano i rivolgimenti sociali. Il Settembrini si meravigliava che il governo borbonico lasciasse il Puoti, il celebre purista di Napoli, insegnare a 300 giovani l'amore dei trecentisti, dimostrando ancora una volta la nobile ingenuità del suo animo e la abilità del governo borbonico; il quale sapeva che quei limatori di aggettivi, quei futuri puristi che sarebbero caduti in convulsioni a udire un francesismo, sarebbero stati quasi tutti buonissimi conservatori, salvo pochi così perversi che sarebbero usciti liberali anche dalla educazione del più fanatico prete. In un certo senso, i più formidabili baluardi della vecchia Italia contro l'avvenire erano allora l'Accademia della Crusca e la Rettorica di Aristotele; perchè gli studi letterari servirono fino al 1848 a cristallizzare le idee degli Italiani, come lo studio del Corano serve a cristallizzare quelle dei Turchi. Negli studi della letteratura classica si preparava il personale delle amministrazioni italiane di quei tempi, come adesso con lo studio del Corano si prepara la burocrazia turca; e così quel personale riesciva facilmente pieno di un fanatico spirito conservatore, che metteva in armonia l'amministrazione con il governo.

Infine la vecchia Italia trovava le ultime seduzioni alla neghittosità sociale, nella universale pigrizia e gaiezza. La vecchia Italia era poco laboriosa e allegra; sapeva asciugar presto le lagrime e non conosceva quegli esaurimenti ereditari che hanno tanto incupito, dopo, il carattere italiano. I proprietari abbandonavano le terre ai fattori e ai coloni, non passavano in campagna che qualche mese di autunno, ma non per sorvegliare i contadini in un lavoro di cui essi del resto non sapevano nulla, ma per convitare gli amici e divertirsi; poi tornavano, alle prime nebbie invernali, in città, a oziare tra il caffè, la piazza, il salotto e il teatro. Un principio di rivolta contro questa neghittosità si nota qua e là tra il 1830 e il 1848; ma sono voci solitarie che ammoniscono un popolo di sordi. Nel 1845 si istituisce a Ravenna una società di agricoltura, di cui fu presidente il conte Pasolini; tra il 1840 e il 1848 si discusse molto in Toscana nella Accademia dei Georgofili, e il Salvagnoli rimproverò aspramente ai «possidenti di ogni classe» la loro «vita oziosa e improduttiva»11; anzi il marchese Cosimo Ridolfi volle dare un esempio, ritirandosi sulle sue terre a istruire i contadini12. Proposito ed esempi singoli, che non trovavano imitatori, mentre la classe media – professionisti e impiegati – imitava l'ozio dei grandi, lavorando dolcemente, attendendo soprattutto al teatro, al giuoco del pallone o del biliardo. Il popolino degli artigiani applicava per conto suo un regime igienico di lavoro, senza intervento di ispettori governativi e di leggi sociali, ribellandosi a ogni disciplina rigorosa di lavoro, prolungando al lunedì le baldorie della domenica, osservando tutte le feste sacre e profane… Innumerevoli erano del resto le feste di rito, quelle in cui i lavoranti riposavano, i mercanti chiudevano bottega, gli impiegati e gli scolari restavano a casa: tutti i momenti interveniva dal cielo qualche santo o santa a concedere per un giorno amnistia da quella pena del lavoro, a cui Dio condannò l'uomo nel paradiso terrestre. Forse solo la Turchia può oggi esser paragonata alla vecchia Italia, come società in cui le feste si seguano fitte, e in cui la vacanza sia una delle istituzioni cardinali dello Stato. L'ozio infine era tanto considerato come la condizione regolare della vita, che la vecchia Italia tollerava con indifferenza torme immense di mendicanti. L'elemosina era, nella vecchia Italia, una istituzione sociale organizzata da usi e leggi nelle case dei ricchi, nei conventi e nel governo, in grazia della quale prosperava un numerosissimo ceto di mendicanti. Nelle grandi città, nelle medie, nelle piccole, nelle grosse borgate di campagna vivevano torme di proletari oziosi, senza terra, senza arte, senza volontà di lavorare; vagabondi un poco per necessità, un poco per elezione; che si facevano nutrire e vestire dai ricchi, dai conventi e dal governo; che si aiutavano con furtarelli e professioni immonde, quali il lenocinio e la prostituzione13: torme superstiziose e violente che i governi accarezzavano e fustigavano, che a più riprese aizzarono sui novatori: vero semenzaio di criminali, che provvedeva il miglior personale alle bande di briganti, numerosissime e audacissime nelle campagne di quasi tutta Italia; e alle associazioni di malfattori, a volte, come la camorra, potentissime nelle città. Questa miseria oziosa, palude di abiezione che la nuova Italia, riescì in parte a prosciugare, non pareva ai vecchi governi dovesse esser curata, cercando di indurre quei vagabondi al lavoro; essi si credevano invece tenuti a sovvenir loro con le elemosine, a incoraggiarne cioè le inclinazioni all'ozio.

 

Tempi bizzarri! Perfino le ferrovie, che proprio in quei tempi cominciarono a comparire in Italia, non furono, prima del 1848 e specialmente nel regno delle Due Sicilie, che un pretesto di elemosine al popolino. Pochi fatti possono far meglio capire la natura di quei vecchi governi e mostrare come da un paese all'altro si possa falsare il carattere di una istituzione, che l'amministrazione delle ferrovie borboniche prima del 1848, e il modo con cui esse furon ridotte a esser quasi una succursale dei conventi e un pretesto per distribuire zuppe al popolo. La prima linea di ferrovie, la Napoli-Torre Annunziata risale al 1840: da questo anno al 1848 si costruirono in Italia solo 223 chilometri di ferrovie, di cui 113 nel regno delle Due Sicilie, 45 in Lombardia e 65 in Toscana. La vecchia Italia diffidava delle ferrovie; Ferdinando II le considerava come funeste al popolino, cui avrebbero rincarato il vivere, promuovendo l'esportazione dei generi agrari; il governo pontificio resistè lungamente a ogni proposta di costruzione. I pochi chilometri costruiti nel regno delle Due Sicilie, erano come un giuocattolo per divertire il popolino: consistevano di poche linee nei dintorni di Napoli, di cui una, quella da Napoli a Caserta, congiungeva le due reggie e serviva soprattutto alla corte; le altre erano usate dal popolino specialmente per scampagnate domenicali. In conseguenza, l'amministrazione si era data cura di togliere dal divertimento le occasioni di scandalo: tutte le stazioni erano provviste di una cappella; per espressa volontà di Ferdinando II non si ammettevano tunnels, i pertusi, come egli diceva, perchè immorali; nelle terze classi i viaggiatori in giacca e coppola, quelli cioè che avevano il cappello e la giacca, godevano di un ribasso negato agli scamiciati, allo scopo di far viaggiare il popolino vestito decentemente. La stazione era una specie di fôro, dove il re, al partire o arrivando, dava udienza al popolo. Gli impiegati delle ferrovie erano tenuti in conto di sudditi fedelissimi; formavano una aristocrazia tra la plebe napoletana, distinta con un segno di favore speciale dalla Corte e dal Governo. Non i bisogni del servizio o la capacità, ma la protezione di persone potenti faceva ammettere tra quel personale; mancavano i ruoli dei funzionari; accanto agli ordinari si ammettevano indefinitamente i soprannumeri, accanto a questi gli aspiranti al soprannumerato. Il re li considerava come i suoi protetti e beniamini, ai cui capricci più fanciulleschi qualche volta, nei momenti di buonumore, amava piegarsi. Una volta i capisquadra della officina dei veicoli gli chiesero che concedesse a ogni squadra di costruire a piacere un vagone, perchè si impegnasse una gara di immaginazione e di abilità tra le varie squadre; avendo il re accolta la domanda e dato il denaro, questi operai si baloccarono per diversi anni a fabbricare vagoni di forme strane, di cui uno era ancor in uso dopo il 1860, tutto noce e ferri cesellati, con i propulsori che uscivano da gole di leoni. Così uno dei trovati più rivoluzionari del secolo diveniva per quei governi un balocco buono per trastullare il popolo14.

* * *

Ecco adunque chiaro che la opera vera della rivoluzione italiana fu di convertire una società dove tutto era tradizionale, in una società dove tutto fu instabile e mutevolissimo. È stato perciò un grande errore credere che la rivoluzione cominciata nel 1848 e finita nel 1870 sia stata solamente una rivoluzione nazionale; mentre il suo vero merito, quanto essa conteneva di pericoli e di possibilità future di grandezza, fu piuttosto nell'essere stata una rivoluzione antinazionale, che snazionalizzò il carattere della società nostra da quello che era stato negli ultimi due secoli. La rivoluzione fu nazionale in parte, in quanto si adoperò a rovesciare la signoria austriaca; ma in quanto si adoperò contro gli altri governi essa fu rivoluzione antinazionale. I governi della vecchia Italia erano per certe parti assai cattivi, ma non si può negare che fossero prettamente italiani, che rappresentassero tradizioni sociali e una forma di governo tutta nostra, che cercassero di conservare incontaminate la lingua e la coltura italiana. Come abbiamo visto, faceva parte dei loro stessi disegni di conservazione sociale l'avversione contro le istituzioni, le idee e le invenzioni quasi tutte straniere, che formano la civiltà moderna. La gloria appunto della rivoluzione italiana fu di aver rotto in guerra contro la tradizione locale, di aver parteggiato per istituzioni, idee e costumi forestieri; per le diverse filosofie razionaliste contro i rammodernamenti della scolastica tradizionali nelle scuole delle vecchia Italia; per il romanticismo contro il classicismo; per le ferrovie, la grande industria e la vita a larghi consumi, contro il modesto sempre eguale e ozioso vivere della vecchia Italia. La società della vecchia Italia, pur essendo prettamente italiana, si era mummificata, aveva ridotta la sua esistenza a una eterna e vuota ripetizione; come avrebbe potuto l'Italia rinascere e rivivere, se quella vecchia società non cadeva? Aver cominciato questa opera necessaria di distruzione è stata la gloria dei rivoluzionari del 1848. Lo so: questa rivoluzione fu compiuta in modo ben doloroso e con terribili sprechi e turbamenti di tutte le cose; ma è meglio si sia fatta così che se non si fosse fatta. I popoli hanno bisogno, di tempo in tempo, di questi rivolgimenti di istituzioni, costumi ed idee che rinnuovano il loro carattere. Come la merry England del secolo XVI è diventata la melanconica e puritana Inghilterra del XIX; come l'Italia del 500 non è più quella del 300, così l'Italia del secolo XX non dovrà esser più quella della prima metà del nostro secolo.

La vecchia Italia, ignorante, allegra e pigra non è più; l'Italia vuol farsi più laboriosa, più colta, più seria; più consapevole dei fini supremi della vita. Purtroppo noi siamo ancora lontani dal profondo e soave riposo del rinnovamento compiuto; noi siamo esausti dal sostenere l'immensa fatica del rinnovamento in via di farsi dentro di noi. Chi riconoscerebbe più nell'Italia contemporanea l'Italia grassa e gaia e triviale, la pingue comare che sino al 1848 divertì con i suoi carnevali l'Europa? La pingue comare è diventata esile come una santa dedita a discipline estenuanti. La terribile fatica la ha consunta; le sue mani si sono fatte diafane; le sue guancie si sono infossate, i suoi occhi scintillan di febbre, il suo spirito esausto è tormentato di tempo in tempo da allucinazioni terribili; il suo corpo da piccole ma dolorose convulsioni periodiche. È la prova da cui essa potrà uscire a una condizione superiore di salute, se non si avvilirà sotto la sofferenza presente e se saprà espiare utilmente gli errori passati.

IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE DURANTE IL REGIME BORBONICO

CONFERENZA
DI
FRANCESCO S. NITTI.15

L'anno scorso, in luglio, io ero a Strasburgo, nella solenne città dei Nibelunghi, sacra pur nella leggenda al dissidio e alla guerra.

E, nella gentile ospitalità della famiglia di uno scienziato tedesco, si discuteva la sera della Germania e dell'Italia, dello stato sociale dei due paesi e di scienza e d'arte. Per quella strana curiosità che i paesi del sole svegliano sempre nelle genti del Nord, le fanciulle sopra tutto non mi chiedevano che del Mezzodì.

– Che nome ha la terra in cui siete nato? – mi chiese di un tratto la vecchia padrona di casa, che nei suoi giovani anni (una giovinezza che cominciava già a declinare alla caduta del potere temporale dei papi) era stata nel Mezzogiorno d'Italia.

– Sono di Napoli, – risposi.

– Proprio di Napoli?

– No, di una terra ancora più meridionale, della Basilicata. —

La mia provincia, sopra tutto da quando ha il nome attuale, ha una storia di assai mediocre interesse per la civiltà. Mi accorsi che il nome riesciva nuovo e volli precisare.

– È una terra – io dissi – molto grande, grande la terza parte del Belgio, grande più del Montenegro; non ha città fiorenti, nè industrie. La campagna è triste e gli abitanti sono poveri. È bagnata da due mari e l'uno e l'altro hanno costiere assai malinconiche; dintorno ha le Puglie, i Principati e le Calabrie.

I nomi di queste terre dovettero produrre una certa impressione; poichè la mia interlocutrice non mi fece quasi finire.

– Il vostro, – mi disse – se è tra la Calabria e le Puglie, deve essere il paese dei briganti. —

E allora fu dintorno un movimento di curiosità viva; come sono? li avete conosciuti? vestono ancora come nelle vecchie stampe? Le domande mi piovevano d'ogni parte; e la figliuola gentile del mio ospite, che così bionda e bella e solenne parea Elsa, insisteva più delle altre: – Raccontate, raccontate le storie del vostro paese. —

Io rimasi come interdetto: che cosa dovevo dire? Vi era tanta ingenua e tanta simpatica curiosità, che non avevo ragione di offendermi. Protestai timidamente: dissi che i briganti sono oramai nella leggenda, come i cappelli a punta e i fucili a tromba. Credettero che io non avessi voluto dire per pregiudizio o per prudenza; e gli occhi continuarono a fissarmi con curiosità incredula.

Io non prevedevo, o signore, o signori, che sarei venuto dopo meno di un anno, dinanzi a voi a parlare non dirò delle storie, ma di uno dei lati più interessanti della storia del mio paese.

 

E questa volta posso parlarne senza rancore, senza vergogna; poichè a voi posso dire di più, e voi potete intender meglio.

Noi ci conosciamo così poco in Italia, che di ciò che è la parte fondamentale della storia del nostro paese abbiamo nozioni e criteri spesso contrari alla realtà.

Il brigantaggio meridionale, ancora per il maggior numero degli italiani è circondato di leggende e di misteri paurosi. Sarò molto fortunato se mi sarà dato esaminare senza prevenzioni un fenomeno che attende ancora il suo storico – e intorno a cui si sono accumulati gli errori più strani e le credenze più assurde.

Ogni parte d'Italia, oserei dire ogni parte di Europa, ha avuto banditi e malviventi, che in periodi di guerra o di sventure hanno dominata la campagna e si son messi fuori della legge. Si può dire anzi che, in alcuni paesi dell'Europa centrale, il brigantaggio sia stato per secoli una vera istituzione: e i banditi della Germania, che i romantici hanno troppo spesso idealizzato, in brutalità e in ferocia hanno segnato pagine assai più sanguinose delle nostre.

I masnadieri tedeschi, che l'individualismo romantico e il favore della leggenda circondarono di simpatia erano spesso veri malviventi; molti dei briganti meridionali, che ebbero nella loro condotta un lato cavalleresco, o per lo meno non furono rozzi delinquenti, non trovarono invece poeti o romanzieri che avessero saputo appropriarsi il lato ideale della leggenda. Nè gli storici e gli statisti penetrarono spesso le cause di tanto male.

Ma vi è stato un paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire sempre e non è finito se non ai giorni nostri; un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odî, cui sono affluiti tutti i rivoli del dolore, della ingiustizia, e della delinquenza; vi è stato un paese in cui per secoli una monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico di grande importanza: questo paese è l'Italia del Mezzodì.

Per quanto io sappia, anche le monarchie più potenti non sono riescite a estirpare del tutto il brigantaggio dal reame di Napoli. Tante volte distrutto, tante volte risorgeva; e risorgeva spesso più poderoso. Il sangue genera il sangue – e spesso più la repressione era feroce, più grande rinasceva il male. Come le cause non erano distrutte, nè si poteva, ogni repressione era vana.

Così vediamo in tempi assai vicini a noi i briganti riunirsi in bande numerose, formare dei veri eserciti, entrare nelle città, spesso trionfalmente, imporre al Governo patti vergognosi; vediamo intere città distrutte dai briganti e questi spingersi non di rado fin sotto le mura della capitale.

Ancora adesso percorrendo le terre ove più il malandrinaggio e il brigantaggio hanno celebrato i loro fasti, ci accorgiamo subito che non solo la leggenda è viva, ma che non sono morti i sentimenti che generarono il male. Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, conscenti o inconscenti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie.

Ciò spiega quello che ad altri e a me è accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori.

Non ho mai visto in mano a un contadino un libro popolare sull'unità italiana: ho visto spesso, insieme ai Reali di Francia, la rapsodia dell'abate Cesare e la Bellissima istoria di Angiolillo, e tuttavia il dramma di Peppe Mastrilli appassiona ed esalta le menti.

Ancora adesso, nelle lunghe sere d'inverno, nelle notti vegliate, nelle soste del lavoro, trasformate e ingigantite dalla leggenda si ripetono con compiacenza le storie dei briganti.

È tutto questo un male? Io non vorrei dire e non saprei.

Le cause che hanno prodotto per tanti secoli il brigantaggio non sono ancora del tutto rimosse – e il male è che esistano, non che esistendo operino e, scomparso il brigantaggio, producano effetti di altra natura, ma sempre egualmente dolorosi.

* * *

Si può dire che, durante tutto il vicereame spagnuolo e il regno dei Borboni il brigantaggio sia stato una delle parti più interessanti, se non la più interessante della storia meridionale.

Era il più delle volte un vero malandrinaggio: contadini affamati, o perseguitati dalla così detta giustizia baronale, si riunivano in bande, sceglievano un capo più intelligente o più feroce, e si davano, come si diceva allora, alla campagna, per rubare e per uccidere. Se i capi erano il più delle volte persone nate a delinquere, i gregari, gli oscuri erano sofferenti, che avean torti da vendicare, o contadini ridotti a una vita quasi bestiale, e che desideravano, per qualche anno almeno, saziare la fame e vendicare le offese.

E tutto incitava al brigantaggio. Ancora adesso in Basilicata o in Calabria, in Abbruzzo o nel Cilento, percorrendo la campagna tristissima, ove alcune croci sorgono a ricordare ai passanti antichi misfatti, la natura dei luoghi ci spiega in gran parte ciò che è accaduto.

I paesi sono messi in alto sui monti, al riparo dalla malaria e dai malviventi. I torrenti non arginati, le boscaglie nane e piene di sterpi, la mancanza quasi assoluta di case non possono essere che condizioni predisponenti al male.

Se pensate a ciò che è stata la feudalità nell'Italia meridionale, come vi si sia radicata per secoli, e come, mutate le forme, in qualche provincia duri tuttavia, vi spiegherete lo svolgersi e l'espandersi del brigantaggio. Ma nulla vi contribuì di più della immoralità profonda della dominazione spagnuola, durata per sì lungo volgere di tempo.

I baroni prepotenti erano attorniati da tal gente ed esercitavano giustizia in tal modo, che dovevano eccitare alla rivolta anche gli spiriti più miti. Essere inquisito, cioè aver commesso dei reati, essere ciò che noi diremmo un criminale, era un requisito quasi indispensabile per essere ammesso al servizio di un barone. Mancava ogni fede pubblica e privata; le università che con grandi sforzi riescivano a riscattarsi erano rivendute dagli stessi sovrani che davano l'esempio della disonestà. In alcuni casi e non rari i baroni stessi partecipavano al brigantaggio e lo proteggevano, sia per misura di difesa, sia per desiderio di guadagno. Or le classi povere, che non avevano nessuna fede nella giustizia, che in alcuni luoghi doveano sostenere una lotta impari contro la perfidia della natura da una parte e i cattivi ordinamenti sociali dall'altra, non doveano nè poteano avere verso i banditi, cioè verso coloro che si mettevano in lotta aperta con la società, alcun sentimento di avversione.

Come accade in tutti i periodi di violenza, in tutti i periodi di anarchia, gli elementi peggiori prevalevano e dominavano; in una società in cui la violenza e la ferocia eran mezzi di lotta, le nature più perverse s'imponevano. Così in epoca più vicina a noi fra Diavolo e Mammone, Parafante e Taccone, mostri di crudeltà prevalgono sugli altri; ma non tutti coloro che li seguivano erano crudeli e feroci allo stesso grado, nè tutti erano usciti dal consorzio civile per causa di misfatti e di violenze.

Quando un contadino vedeva un suo pari mettersi contro le leggi e quindi non soffrire più la fame e salire qualche volta in potenza e trattare coi grandi della terra e averne onori, dovea ben sentire qualche invidia. Che importa il pericolo? Il pericolo ha anch'esso le sue attrattive, e un anno di vita vissuta bene, vale agli occhi delle nature più impazienti e più vive assai più di una lunga vita vissuta male.

Durante la dominazione spagnuola, nel 1559, è stato possibile a un bandito famoso, a Re Marcone, andare realmente a prender possesso della città di Cotrone e battere le truppe regolari. Alla fine del secolo decimosesto Benedetto Mangone, Marco Sciarra e Battinello erano i veri arbitri di alcune province. E non poche volte si videro i briganti spingersi in gran numero fin sotto le mura di Napoli, bloccare la capitale e mettere in pericolo la sicurezza del governo.

Anche prima i banditi erano stati molte volte una forza politica di cui i sovrani si erano serviti contro i baroni e i baroni contro i sovrani. Ma, durante la dominazione spagnuola, cioè per più di due secoli, non vi è stata guerra combattuta con le forze interne del Regno, in cui una delle parti nemiche non abbia adoperato i banditi.

Province intere, per secoli, furono al di fuori di ogni legge, sotto la dominazione diretta o indiretta dei banditi, sotto la persecuzione di un ordine feudale, che era tanto più esigente in quanto i baroni solevano vivere in città.

Il brigantaggio era una gran forza da usare negli estremi perigli: i Borboni che con Carlo III aveano cercato fiaccarlo se ne valsero più tardi per riconquistare il reame e per tenere a freno, per sessant'anni, le classi ricche o colte.

La storia dei Borboni, dopo Carlo III, è anzi strettamente legata a quella del brigantaggio. Furono i briganti che a Ferdinando IV riconquistarono il reame nel 1799; furono essi che tentarono, durante la dominazione francese, di riconquistarlo una seconda volta e che più tardi furono adoperati, e non in una sola occasione, contro la borghesia aspirante a riforme politiche, o malcontenta.

Per la prima volta forse nel mondo civile passando sopra ogni legge morale, i Borboni osarono scegliere come cooperatori i banditi più infami: alcune belve crudelissime ebbero grado di colonnello o di generale, titolo di marchese o di duca e laute pensioni, come se fossero vecchi e gloriosi generali; ebbero l'amicizia del sovrano e attestati di pubblica stima. È una non interrotta serie di fatti di tale natura, che va dai mostri della reazione del 1799 a Giosafat Talarico e ancora più tardi ai tentativi di reazione posteriori al 1860.

9Memor, op. cit., pag. 146.
10Zobi, op. cit., 142.
11Poggi, op. cit., pag. 418.
12Poggi, id., id., pag. 420.
13Poggi, op. cit., pag. 414.
14Vedi Memor, op. cit., pag. 340 e seg.
15Non ho creduto necessario di riprodurre la lunga bibliografia sul brigantaggio meridionale, nè le molte fonti cui son dovuto ricorrere. Ringrazio qui solo l'amico Benedetto Croce delle notizie e dei dati che mi ha voluto cortesemente fornire.