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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I

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Che a questo concetto dell'indipendenza della patria si associasse l'altro di ingrandire lo Stato, secondo le secolari tradizioni della casa di Savoia, non è difficile supporlo e non gli procurerebbe nessun rimprovero dalla storia. Ma dal cauto suo labbro uscì pure una frase, la quale dimostra che non egoista e non angusta era in lui la previsione dell'avvenire; poichè all'inviato suo, conte Ricci, che gli poneva alcune obbiezioni di carattere dinastico, non esitò a rispondere fin dal 1845: «Conte, la forma dei governi non è eterna; cammineremo coi tempi».

Il 1821 e il 1833 furono le due epoche formidabili, che servirono a tante penne, alcune oneste, per dilaniare la memoria di Carlo Alberto. Nel 1821, fu detto, tradì i suoi amici, ai quali aveva promesso di aiutarli nel movimento. Nel 1833 perseguitò i liberali, condannandoli all'esilio od alla morte.

Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza calmo per esaminare queste due accuse.

Nessuno ha mai saputo dimostrare che cosa Carlo Alberto avesse promesso ai cospiratori del 1821 e in che modo quindi li avesse traditi.

Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche per una causa nobile, fuori della legge, il bisogno di aggrapparsi a qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del loro proposito.

Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i loro vincoli colle società segrete, chiedendogli appoggio per ottenere promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza che l'adesione di un personaggio così vicino al trono avrebbe nel tempo stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.

Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti liberali manifestati nell'intimità di antecedenti colloqui; un serio ammonimento circa l'impossibilità che in quel momento l'impresa riuscisse; la più esplicita dichiarazione che in nessun caso egli avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario. Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine; non s'è mai potuto accertare che altre da queste siano state le sue dichiarazioni.

Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase, dimenticando le altre; sia, com'è più probabile, che il moto li abbia trascinati, al solito, più in là delle loro previsioni, non avevano essi il diritto di affermare la complicità di Carlo Alberto in una impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto accettarla.

E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una colpa d'aver voluto rimaner tale?

Non egli dunque tradì i congiurati; ma la congiura tradì lui e tutti, portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero così bene, dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del 1848, i più fedeli suoi consiglieri, i suoi amici più cari. Nè a quel gran sofferente venne mai meno la generosità dell'oblio. Poichè, quando gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un segretario, offrì il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva, pei fatti del 1821, flagellato di versi così crudeli. E il Berchet, declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo d'Adda, oggi senatore del Regno: «Darei dieci anni della mia vita per non avere scritto quei versi».

E veniamo al 1833. In quell'anno, come è noto, un'altra congiura politica, a cui non erano pure estranei alcuni ufficiali, era stata ordita in Piemonte sotto le prime influenze della propaganda mazziniana, disciplinata nella Giovane Italia. Pioveva, come suol dirsi, sul bagnato; poichè soltanto due anni prima, all'epoca della proclamazione di Carlo Alberto, una setta repubblicana aveva reclutato tra le stesse guardie del Corpo alcuni proseliti disposti ad assassinare il Re. Scoperta la prima cospirazione, il Re fu clemente e si limitò a chiudere in Fenestrelle il capo della congiura1. Scoperta la seconda, l'atteggiamento diventò severissimo e il Re deferì i colpevoli al giudizio dei consigli di guerra. Questi procedettero, secondo l'indole loro, inesorabili e le condanne a morte furono più d'una. Nessuno affermò che con quelle condanne si fossero violate le disposizioni della legge stataria vigente, ma tutti deplorarono che Carlo Alberto non avesse usato più largamente del suo diritto di grazia.

E lo deploro anch'io. Però non si può non pensare che questo diritto di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse mai lasciata nessuna libertà di considerare i tempi, le circostanze, le difficoltà dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la giustizia non è offesa dagli atti loro.

Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821, intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severità legale fosse in quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire? o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settarî, specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero nella sua compagine la monarchia, di cui divisava fare più tardi una macchina per l'indipendenza italiana?

Certo è che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero eccedere ogni misura di colpa, e ne restò sulla condotta di Carlo Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le sventure del biennio 1848-49 perchè quelle impressioni rimanessero interamente dimenticate.

Del resto, non erano tempi facili, nè pei popoli, nè pei principi; difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede più tardi al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: «Je suis entre le poignard des Carbonari et le chocolat des Jésuites». Non è dunque storicamente giusto il biasimo inflitto dagli scrittori intransigenti alla contraddizione quasi tragica nella quale oscillò Carlo Alberto, prima della sua ultima e grande evoluzione politica. Quella contraddizione poteva essere in parte attribuita all'indole del tempo. Fra il Metternich, che minacciava di detronizzare Carlo Alberto a beneficio del duca di Modena, e il Mazzini che s'agitava per detronizzarlo a beneficio della Repubblica, la via sempre diritta non si vedeva chiara.

I sovrani hanno, anche più degli altri uomini, il diritto d'essere giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano che assai tardi le varie responsabilità.

Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza, avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere una battaglia disperata in nome della libertà. Ebbene? quale ne sarebbe stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato. Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua esistenza.

Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affrontò, con mesto animo, ma con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdonerà qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli ultimi; nei quali la sua lealtà non può essere pareggiata che dal suo ardimento, e la semplicità del sacrificio è in perfetta armonia colla nobiltà della causa per cui lo fece.

In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia dopo il 1846.

E poichè in una legge storica consolante già ci siamo imbattuti durante questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che pure al nostro pensiero si afferma.

È assioma di pubblicisti volgari e di menti isterilite da scetticismo, essere la politica fondata sulla furberia piuttosto che sulla lealtà, e doversi respingere dall'arte di governare i popoli ogni miscela di sentimento o di cuore. Tutto ciò risponde ai dettami di quell'egoismo, sul quale una falsa scienza sedicente positiva vorrebbe impernare le novità del mondo.

 

Ebbene, la politica dei vari principi italiani dal 1815 al 1848, fu essenzialmente egoista; una sola, quella di Carlo Alberto, ebbe virtù di espansione, carattere di altruismo. Questa rimase, trionfò e trionfa ne' suoi successori; dell'altra non restano più che ricordi, rattristati dalle catastrofi e illanguiditi dal tempo. In quegli anni di dolori e di speranze, un solo principe buttò agli eventi la sua corona per capitanare due guerre d'indipendenza; uno solo giurò la Costituzione, senza ritoglierla. Che meraviglia se a quel solo l'Italia s'avvinse, indovinando dalla fede del primo la lealtà non mai smentita dei successori?

Non è dunque vero che la modernità debba uccidere gl'ideali per far vivere gl'interessi. La contraddizione fra gli uni e gli altri è l'ipotesi d'una dialettica artificiosa, non la formola uscita dalla logica degli eventi.

La morale pubblica non può essere, non è diversa dalla morale privata. Attingono entrambe la loro autorità dal sentimento del dovere, che non è mai in contrasto coi dettami della virtù.

Vi riuscirebbe difficile dedurre da qualche deplorabile eccezione che nella vita privata la disonestà produca dei felici. Potete affermare, senza tema di smentite, che, nella vita pubblica, la prosperità degli Stati è in ragione diretta dell'onestà dei Governi.

LA VECCHIA ITALIA

CONFERENZA
DI
GUGLIELMO FERRERO

Mezzo secolo addietro la vecchia Europa sentì a un tratto tremarsi sotto la terra. In un impeto di audacia, che anche oggi, dopo tanti anni, sembra a noi miracoloso, gli uomini insorsero quasi dovunque contro l'ordine che si diceva costituito per volere di Dio; e, in pochi mesi, i governi più antichi rispettati e temuti parvero distrutti per sempre o vicinissimi all'estrema rovina.

Questa rivoluzione del grande anno, unica in apparenza, fu in realtà molteplice; perchè ogni popolo meritò un premio suo, con le proprie audacie rivoluzionarie. In Italia i rivolgimenti del 1848 parvero mirare specialmente alla liberazione nostra dalla signoria straniera; ma chi fruga un poco addentro nella storia della società italiana, dal 1830 al 1848, vien fatto di accorgersi presto che, sotto la guerra tra austriaci e italiani, si nascose allora, come dopo, il conflitto tra una società che esisteva e l'idea, il disegno, il proposito di una società nuova. Non è possibile comprendere la storia italiana di questo ultimo mezzo secolo, se non si comprende il carattere sociale della rivoluzione del 1848; ma la natura di questo terribile rivolgimento si può a sua volta capire solo studiando la società della vecchia Italia dal 1830 al 1848; nella quale maturò la discordia, che doveva scoppiar poi nella aperta guerra durata dal 1848 al 1870.

La vecchia Italia era uno degli ultimi avanzi, e dei meglio conservati, della vecchia Europa aristocratica e teocratica, nemica di quel complesso di cose materiali e morali, che noi chiamiamo la civiltà moderna. I diversi governi ricostituiti in Italia dopo la caduta di Napoleone si affaticarono intorno a una impresa di conservazione, empia e stolta secondo le idee nostre, ma alla quale non mancò una certa avvedutezza e coerenza, derivatale dall'aver quei governi capito quale sia il primo principio dell'arte di conservare gli Stati; che cioè le istituzioni non durano a lungo, se le idee degli uomini non restano eguali; e che gli uomini mutano tanto più facilmente di idee, quanto più sono mutevoli le condizioni della loro esistenza. L'instabilità delle idee e delle istituzioni, e l'instabilità dei destini individuali e delle fortune si accompagnano sempre, come gli effetti alle cause; sono ambedue i segni esteriori della interna elaborazione vitale delle società che si rinnovano; onde la vera politica conservatrice deve cercare di distruggere questa plasticità vitale della società, quasi direi pietrificandola in tutti i suoi organi. L'opera a cui attesero principalmente i governi italiani dal 1830 al 1848 fu quasi di pietrificare tutti gli organi della società italiana, per modo che questa non fosse più un animale vivente, capace di malattie e di guarigioni, di crescite e di invecchiamenti; fu di mummificarla per sempre in una forma morta, tenendola lungamente immobile entro un bagno di ignoranza, di bigottismo, di pregiudizi e anche di virtù modeste e di ragionevoli saviezze.

Le virtù modeste, le ragionevoli saviezze che dovevano essere tra i primi elementi di conservazione della vecchia Italia, furono la semplicità e parsimonia del vivere, universale in Italia sino al 1848; in una società nella quale i bisogni erano meno numerosi e le spese di apparenza minori che nella nuova. Le città, salvo qualche monumento di lusso pubblico, qualche teatro, qualche chiesa, qualche palazzo gentilizio, erano costruite dimessamente; strette le vie; pochi e miseri i giardini; trascurata la pulizia e ogni altra cosa nelle strade; scarsa la luce di notte. Gli uomini erano contenti di vivere in case più piccole, più buie, nelle quali parevano lussi molte cose che ormai sono diventate bisogni volgari. Tutto era solido e durevole: le mura delle case, granitiche e secolari; la mobilia robustissima, costosa ma capace di servire a molte generazioni; i vestiti, tagliati in stoffe solidissime, che passavano di padre in figlio e facevano parte dell'asse ereditario. La spesa per il mantello ricorreva una o due volte nel corso di una esistenza; nè era ancor noto il moderno divenire continuo della moda. Il commercio non conosceva ancora quelle teatralità goffe, quelle grandiosità posticcie, quella prodigalità burlesca di ori e marmi falsi, quel barocco da poco prezzo che hanno ridotte le vie delle nostre città grandi a orribili imposture della bellezza, grandezza e ricchezza. I caffè e le botteghe erano in stanze piccole e basse, come se ne vedono ancora a Venezia e a Mosca, i caffè soprattutto non arieggiavano a falsi fôri romani, ad Alambre di cartapesta.

Anche i bisogni erano molto meno numerosi. Pochissimi i giornali; pochi i libri e letti solo da un piccol numero; rari i viaggi. Nè ferrovie nè tranvai. I signori avevano le ville per l'estate nei pressi della città stessa dove abitavano. Le alpi non erano state ancora inventate; pochi i luoghi di bagnature celebri, poche le acque e famose per una reputazione di secoli. Non esistevano ancora le macchine da cucire, le biciclette, il gaz illuminante, il petrolio; non si conoscevano ancora gli innumerevoli prodotti chimici, quei surrogati e quelle falsificazioni, che hanno poi tanto complicata e popolata di insidie la nostra esistenza. Un uomo si faceva fare il ritratto, forse una sola volta durante tutta la sua vita. Il vivere insomma era più semplice e rozzo, ma anche più schietto; i divertimenti erano pochi di numero, lo sport ancora in fasce; le abitudini dei figli ripetevano quelle dei padri, che a lor volta avevano ereditate quelle dei nonni. Una generazione passava, prima che un nuovo bisogno si fissasse nelle abitudini di tutti; lo spirito della tradizione reggeva la famiglia e la vita privata, come il governo dello Stato.

Non crediate che, riferendosi a cose così umili, queste considerazioni siano futili. Esse hanno invece una importanza capitale: perchè la differenza essenziale tra la vecchia Europa e la nuova, tra la vecchia e la nuova Italia, il mutamento essenziale da cui derivarono gli altri fu proprio questo: che nella vecchia Europa ed in Italia vigeva un tenor di vita semplice, con bisogni sempre eguali o lentamente crescenti; nella nuova, un tenor di vita con bisogni crescenti indefinitamente e rapidamente. Un governo unitario ha potuto alla fine costituirsi in Italia, perchè trovò un sostegno in questa nuova maniera di vivere, divenuta comune nel popolo dopo il 1860; mentre gli antichi governi avevano capito che non avrebbero potuto reggersi a lungo, se le antiche forme del vivere, semplici e parsimoniose, sparivano; e avevano in vari modi cercato di salvare i loro popoli dalla seduzione della nuova civiltà, che prosperava in Inghilterra e in Francia.

Molti furono i mezzi; primo tra tutti, la oppressione della classe che sola poteva farsi veicolo della nuova civiltà forestiera, la borghesia istruita; oppressione esercitata per mezzo di una curiosa alleanza della aristocrazia e del popolino. I re si fecero i tutori della canaglia; l'aristocrazia, che rappresentava la ricchezza fondata sulla proprietà della terra, la devozione alla Chiesa e alla monarchia assoluta, l'orgoglio gentilizio che vuol sovrastare alle capacità personali, prese a proteggere l'infimo popolino, a mantenerlo grasso e ignorante. Madre per la plebe, la monarchia aristocratica era invece matrigna per il ceto medio; che essa cercava di umiliare in ogni modo, impedendogli di crescere, di imparare, di arricchire; consentendogli appena di vivacchiare oscuramente, con l'elemosina di magri impiegucci o con l'esercizio di professioni, ma a condizione di andare a messa e di esser fedele al re: permettendogli al più di darsi a studi punto malsani e pericolosi, come decifrare iscrizioni latine o annotare vecchi testi di lingua. A elaborare questo disegno bizzarro di una società aristocratica e plebea, fanaticamente conservatrice in ogni cosa, più che ad altro, hanno faticato, nei diciotto anni che precedettero il 1848, gli Stati italiani, dall'Austria a quel Ferdinando II, tipo curioso di re ingegnoso e ignorante, abile e ingenuo, che ha impersonato forse meglio di ogni altro sovrano questa idea dello stato monarchico lazzaronesco.

Quei 18 anni furono infatti il momento della suprema fatica, per i governi della vecchia Italia. Correvano i tempi in cui cominciavano a fiorire in Inghilterra e in Francia i nuovi commerci e la nuova industria meccanica, che hanno contribuito tanto a convertire l'antico tenor di vita modesto e tradizionale, nel nuovo, sibaritico e con bisogni sempre più numerosi; che hanno mutato l'antico assetto delle fortune, rese labili tutte le ricchezze, ridotta l'essenza della società moderna a un divenire continuo. Per queste ragioni gli antichi governi, soprattutto l'impero d'Austria e il regno delle Due Sicilie, si adoperarono a strozzare in culla le nuove industrie e i nuovi commerci. Non era lecito aprire un opificio senza permesso speciale del governo; ma le formalità erano tante, tante le condizioni, le restrizioni, i rinvii, le diffidenze e le cautele delle amministrazioni, che introdurre una industria nuova era quasi così difficile come costituire una società segreta. Inoltre, come sempre succede, la legislazione improntava di sè il sentimento pubblico, il quale era portato a riguardare con diffidenza ogni impresa industriale. Così in Lombardia si notano, sino al 1848, solamente progressi agricoli, nella coltivazione del gelso, ad esempio; ma nessun progresso industriale2. Ancor più ostinata fu la resistenza del governo borbonico, che durò sino all'ultimo; onde le concessioni industriali di quegli anni si possono contare tanto sono poche; e qualche volta sono motivate con ragioni bizzarre, che mostrano l'intima natura di quel governo; come quel permesso dato al marchese Patrizi, nel 1858, di costruire due molini sul Sebeto, ma a condizione di far dire un certo numero di messe in suffragio delle anime dei terrazzani. E la concessione era data, dice espressamente il decreto, «avuto riguardo ai vantaggi spirituali degli abitanti di quella pianura»3.

Dallo stesso ordine di idee nasceva la politica doganale della vecchia Italia, anche essa uno dei tanti processi di pietrificazione applicati alla società italiana. A differenza dell'Italia contemporanea, gli Stati italiani di prima del 1848 fecero libera la importazione del grano; o la tassarono di diritti minimi, imposti per fini fiscali, non per favorire come si fece dopo un «ordine privilegiato dalla fame pubblica.» Così la Toscana, che nel 1842 aveva stabilito un leggero dazio sul grano, sopravvenuta la carestia nel 1846 lo abolì senza tanto cavillare e tergiversare, come fece, cinquant'anni dopo, un altro governo; perchè il popolino doveva vivere ben pasciuto; le derrate dovevano vendersi a prezzi vilissimi; i pericoli delle carestie esser ridotti a meno che si potesse da saggie misure di previdenza pubblica. Il Duca di Modena accumulava nei granai pubblici, durante gli anni di abbondanza, per sovvenire al popolo negli anni magri, e salvarlo dagli usurai e dalla fame. Pane in piazza, era il primo principio di quell'arte antica di Stato.

 

Ma al liberismo agrario corrispondeva un fiero protezionismo industriale, soprattutto negli Stati austriaci, nel regno delle Due Sicilie e nello Stato pontificio. Nel 1846 un cardinale dichiarava in Roma allo Zobi che la libertà di commercio e il giansenismo erano due forme di errore sorelle; tanto è vero che il solo Stato che inclinasse un poco alla libertà di commercio, la Toscana, era quello che aveva dato motivo di maggior scandalo, con le inclinazioni di alcuni suoi prelati agii errori del giansenismo4. La libertà di commercio era considerata come una teoria funesta allo Stato; ciò che ci spiega facilmente come mai l'Italia rivoluzionaria sia stata tenuta al fonte battesimale del libero scambio; fede dalla quale essa doveva fare così presto apostasia.

Sennonchè il protezionismo industriale della vecchia Italia era ben diverso dal protezionismo industriale dell'Italia contemporanea. Questo è la conclusione di una politica nello stesso tempo oligarchica e rivoluzionaria, plutocratica e sovvertitrice; che aggrava la disuguaglianza delle fortune; che affretta la formazione di una oligarchia di milionari e di un proletariato industriale ammucchiato e turbolento al nord dell'Italia; che porta con sè l'aumento dei bisogni, la crescente costosità della vita, la universale avidità del denaro, l'idolatria delle apparenze, la dissoluzione morale delle classi medie, la miseria delle plebi rurali, la fermentazione di tutti gli spiriti di progresso e di rivoluzione, di tutte le audacie buone e cattive, l'instabilità sociale, la contradizione tra i desiderii e la realtà, lo sforzo violento della invidia che tenta colmare l'abisso tra gli uni e l'altra… Il protezionismo della vecchia Italia era invece un procedimento di mummificazione della società; mirava a salvare l'antico artigianato dalla concorrenza delle grandi manifatture inglesi e francesi, l'antica semplicità del vivere dalle seduzioni alla nuova varietà e molteplicità dei consumi. L'industria era allora in Italia esercitata da un ceto di artigiani, lavoranti in casa o in piccoli laboratori; e il commercio dei manufatti era quasi un privilegio ereditario di poche famiglie di mercanti. Un ceto operaio ignorantissimo, che si serviva di un macchinario rozzo, che applicava ostinatamente una tecnica tradizionale; nemico, per stupidità e misoneismo, di qualunque ragionevole novità industriale; quasi dovunque violento e facile al sangue, tale era la popolazione urbana nella vecchia Italia. Questi artigiani fabbricavano cose di qualità buona ma costosissime, perchè la rozzezza della tecnica era causa di un grande spreco di lavoro; in compenso però essi stessi erano un popolo di grandi fanciulli, violenti, imprevidenti, ignoranti, fanaticamente conservatori, pronti al coltello, che potevano facilmente esser governati da un regime di beneficenza e di terrore alternati. Difatti, proprio in mezzo a questo popolino, che odiava ogni cosa nuova, la vecchia Italia trovò quei settari che, specialmente negli Stati della Chiesa, pugnalavano i campioni delle idee liberali. I vecchi governi italiani erano dunque portati dalla forza stessa delle cose a proteggere questo ceto di pretoriani del vecchio regime; onde, quando la industria forestiera cominciò, tra il 1831 e il 1848, a voler portare in Italia, contro la solidità tradizionale e costosa dei lavori dell'artigianato, la brillante caducità a buon mercato delle cose sue, studiando di comunicare al pubblico quella volubilità di gusti divenuta ora universale, i governi corsero subito al riparo, inasprendo il protezionismo.

Di questa politica che rendeva difficili le rivoluzioni industriali e commerciali, era ad un tempo conseguenza e parte integrante tutta l'opera sociale e morale di quei governi, intesa a mortificare una delle passioni, cresciuta poi a dismisura nella nuova Italia, come nella nuova Europa: la cupidigia dei subiti guadagni. Il self-made-man non era punto l'eroe di quella società, nella quale lo Smiles, il Plutarco dell'êra borghese, sarebbe stato giudicato autore di libri malsani, atti a corrompere l'immaginazione e il cuore dei giovani. La società della vecchia Italia era come una chiesa antica e venerabilissima, nella quale tutto è stato santificato dalla pietà dei fedeli; le lampade vecchie di secoli, le pietre del pavimento sconnesse e logorate da milioni di piedi, dove nulla si può toccare senza commettere sacrilegio; onde la virtù vera consisteva a quei tempi in rassegnarsi al grado di fortuna toccato in sorte nascendo, in saper rimpiccolire in ogni modo il proprio essere. Lo spirito di avventura, la ambizione di ingrandire sè e la propria fortuna, l'energia personale che vince gli impedimenti della nascita oscura; tutte queste che poi furono considerate come le prime virtù dell'uomo sembravano allora tentazioni del diavolo, perchè contenevano un principio di rivolta contro l'ordine delle cose vigente.

Così si capisce perchè la vecchia Italia si sia mostrata tanto diffidente contro le nuove banche che si fondavano in Inghilterra e in Francia; e si sia contentata di conservare gli storici banchi del medio evo, istituzioni mirabili e prettamente italiane, ma che potevano soltanto bastare alla conservazione di traffici tradizionali, non al crescere di un nuovo commercio. È curioso a questo proposito che il trapasso alle istituzioni bancarie moderne sia segnato in Italia dal cambiamento di sesso della parola che le indica, che da banco, come era nel vecchio italiano, diventa banca, alla francese. Basti dire che non ci fu mai modo di persuadere Ferdinando II a fondare una sola succursale del Banco di Napoli fuori di Napoli, salvo due casse istituite nel 1843 a Messina e a Palermo, neanche quando il Banco aveva nel suo tesoro più di 120 milioni5. Così successe che tra il 1830 e il 1848 l'Italia godè di una inutile abbondanza di capitale, che giaceva ozioso, nascosto in fondo alle calzette, sotto i materassi e sepolto nei forzieri. La popolazione era più scarsa; la terra rendeva discretamente; i governi sprecavano poco; il vivere era meno caro perchè più povero di bisogni: l'Italia poteva così risparmiare: ma gli impieghi industriali e finanziari essendo pochi, il capitale ristagnava. Erano intatti gli anni in cui a Torino si dovevano puntellare le vòlte della tesoreria, perchè i sacchi di marenghi non le sfondassero; i tempi in cui in Lombardia i proprietari di terre mutuavano facilmente al 4 % senza ipoteca, onde prima del 1848 si poterono dissodare molte terre e diffonder per la Lombardia la coltura del gelso e l'allevamento dei bozzoli6; erano i tempi in cui, intorno al 1840, Leopoldo II si risolveva a intraprendere la bonifica della maremma, specialmente in considerazione di una grossa somma di denaro che dormiva nelle casse del tesoro, e che parve giusto di impiegare in qualche modo7.

Insomma nessuno aveva ancora gridato all'Italia la frase del Guizot, la parola della nuova alla vecchia Europa: Enrichissez-vous. Gli incantesimi spesso pericolosi con cui la borghesia degli affari è riescita a svegliare dal lungo sonno e a far prorompere di sottoterra le fontane della ricchezza, erano ancora ignoti o detestati. I grossi mercanti di prima del 1848, la prosperità delle cui case era spesso opera di molte generazioni, consideravano le cambiali un poco come i ponti che il diavolo delle leggende costruisce sopra gli abissi; che da lontano paiono solidi, ma quando il peccatore orgoglioso ci monta sopra, il ponte sparisce in niente e il peccatore precipita. Firmare una cambiale era per essi quasi un disonore. Eguale prudenza, e, diciamolo pure, prudenza onesta ben maggiore di quella che la nuova Italia ha mostrato, usavano i governi di allora nel trattar la moneta pubblica; in modo che essa non fu mai falsificata e adulterata da nessuno di quei disonesti artificii, che divennero dopo così comuni. La vecchia Italia usò sempre moneta d'argento e d'oro; e nel regno delle Due Sicilie le fedi di credito del Banco di Napoli, come allora si chiamavano i biglietti, valevano più dell'oro, come succede ora ai biglietti della banca imperiale germanica, ma come non è mai successo ai biglietti di banca della nuova Italia8.

1Nicomede Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, vol. IV, pag. 55.
2Atti del Comitato dell'Inchiesta industriale. vol. I. Roma, 1870 (Categoria II, § 52), pag. 8.
3Memor, La fine d'un regno. Città di Castello, 1895, pag. 122.
4Zobi, Saggio sulle mutazioni politiche ed economiche avvenute in Italia dal 1859 al 1868. Firenze, 1870, vol. I, pag. 146.
5Memor, op. cit., pag. 145.
6Atti del Comitato dell'Inchiesta industriale, già citati, pag. 8.
7Poggi, Cenni storici delle leggi sull'Agricoltura. Firenze, 1845-48, vol. II, pag. 345.
8Memor, op. cit., pag. 145.