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Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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Grosse Zinne o Cima Grande di Lavaredo m. 3003

Delle tre Cime di Lavaredo, la più alta è insieme la più frequentemente salita, almeno da quella numerosa categoria di alpinisti che, diffidando delle proprie forze per l’ascensione della Cima Piccola, preferiscono contemplarne comodamente dall’alto della Cima Grande, l’arditissima parete.

Nel vol. XXIº di questo «Bollettino» è già comparsa una briosa descrizione di una salita alla Grosse Zinne, per parte dell’egregio collega romano dott. Enrico Abbate; egli ha fatto precedere tale suo articolo da un’accurata monografia del gruppo. Nulla di nuovo, almeno di notevole, è successo da quella pubblicazione in poi, per riguardo alla Cima Grande: le varianti trovate finora alla via solita non hanno che una scarsa importanza: una nuova via non fu ancor possibile trovarla, e dubitiamo assai che vi si riesca in avvenire. Dal lato nord—un enorme muraglione liscio—la cosa è fuori questione: qualche probabilità di riuscita possono offrire tentativi per la cresta Est (prospiciente la Kleine Zinne) o la parete Sud-Ovest verso la Cima Occidentale. Ma crediamo che in un caso come nell’altro si debba finire per raggiungere o presto o tardi la vecchia via, sopratutto se si sceglie la cresta Est.

Avviandoci questa volta alla Cima Grande, la guida Pompanin ed io, non avevamo alcuna idea bellicosa; volevamo fare una semplice passeggiata, a scopo essenzialmente fotografico. E la sera del 5 settembre, con uno splendido cielo stellato e un tepore eccezionale, scendemmo da Cortina a Schluderbach in vettura, godendoci comodamente uno di quei meravigliosi tramonti dai colori magici, inverosimili, fantastici, così frequenti nel mondo incantato delle Dolomiti.

Alle 4 ½ dell’indomani lasciavamo Schluderbach, avviandoci comodamente su per la strada di Misurina; alle 7 eravamo sulla Forcella di Lavaredo, ove sostammo a prendere fotografie del gruppo dei Cadini, che di là si presenta assai favorevolmente, e delle nostre Cime di Lavaredo, delle quali la Occidentale era sopratutto in vista; magnifica punta, dall’architettura ciclopica e d’un’alta originalità, a torto negletta dalla più parte fra gli ascensori della Cima Grande e Piccola, perchè, a quanto mi fu assicurato, offre difficoltà di non poco conto, tanto che molte guide preferiscono a questa la salita della Piccola Cima, la cui roccia è solidissima, laddove quella della Cima Occidentale è assai cattiva.

Mentre stavamo fotografando, fummo, senza accorgercene, completamente circondati da un numeroso gregge di pecore, che ci si fecero attorno con tale impeto di curiosità, da compromettere seriamente il nostro equilibrio: la guida Pompanin, a colpi di piccozza, riuscì a liberarci da quell’imbroglio. Fu il solo punto nella salita della Grande Zinne, dove la piccozza ci offrì un valido e quasi indispensabile aiuto! Superata questa prima difficoltà, proseguimmo alacremente per il bel sentiero orizzontale che costeggia la base delle Tre Zinne, fino ai piedi del ripido canalone ghiaioso fra la Grande e la Piccola, e, risalendo questo, in breve fummo al punto d’attacco delle roccie, comune alla salita di entrambe le cime. Qui incontrammo la brava guida Watschinger di Sexten, con un alpinista tedesco, reduce dalla Kleine Zinne e diretto alla Occidentale, e sostammo mezz’ora, seguendo con vivo interesse un’altra carovana che stava compiendo la salita della Cima Piccola.

Alle 9 ripartimmo: la bellicosa frase d’obbligo «attaccammo le roccie» non è qui del caso, tanto comoda, elementare è sin da principio la salita, su per un caratteristico canalone a scaglioni simmetricamente sovrapposti, di buona e solida roccia, su pei quali è rapido il progredire: alla sommità del canalone un enorme masso ostruisce il diretto passaggio, ma pel solito buco provvidenziale si gira l’ostacolo e si riesce con tutta facilità su una prima piattaforma, donde l’occhio spazia già sopra un vasto orizzonte. Specialmente interessante è la vista della vicinissima Cima Occidentale, colle sue grandi scanalature verticali, e i suoi enormi torrioni merlati.

Torrione di roccia sulla Grosse Zinne.


A questo punto si piega un poco verso nord, e per comodi gradini e striscie di roccia si raggiunge uno stretto camino dalle oscurità dantesche, assai erto e liscio, ma perfettamente facile se si mettono in opera, senza misericordia, le più classiche fra le angolosità del corpo umano: dal sommo del camino passammo sull’opposto spigolo, di eccellente roccia, e in breve fummo di nuovo all’aperto, in vista della nostra cima. Il rimanente della salita è—come quanto precedette—un gioco, un’arrampicata di elementare facilità, infiorata di «passi retorici» e di «luoghi comuni»: la Cima Grande di Lavaredo è il «Buon Giannetto» dei giovani alpinisti esordienti.

Alle 10,35 eravamo sulla vetta, avendo impiegato 1 ora ½ dalla base delle roccie. Il tempo splendido e la vista estesissima ci invitarono a una lunga sosta, e solo alle 12,20 riprendemmo la via del ritorno. Nella discesa, essendoci tenuti troppo sulla destra, per trovare una scorciatoia più interessante, ci impigliammo in difficoltà che divennero ben presto insuperabili; la stretta e bella cornice che avevamo seguìto coll’idea di riprendere più in basso la vecchia via, rompevasi improvvisamente facendo capo ad un rispettabile precipizio. Dovemmo quindi rifare tutta la parte nuova, e riportarci al punto di partenza, donde, per la via solita, in breve fummo di ritorno al piede delle roccie, e di qui a Misurina.

La salita della Cima Grande di Lavaredo è breve e facile, ma abbastanza divertente: la si può con tutta comodità coordinare a quella della Piccola Cima, anzi anche della Occidentale. Le Tre Cime, com’è noto, furono sovente salite in un giorno solo: ci fu poi un alpinista che, non contento di ciò, volle aggiungervi la salita del Monte Piano. Più d’una di questo genere d’imprese venne compita nelle Dolomiti d’Ampezzo; rispettabili fra le altre le salite del Pelmo e dell’Antelao nello stesso giorno: e quelle, pure in un solo giorno, del Becco di Mezzodì, della Croda da Lago, e della Tofana, compiute da un alpinista dai garretti d’acciaio, credo il Friedmann. Ma a questo alpinismo «cumulativo»—del quale d’altra parte nessuno ha fatto finora un sistema—sarà sempre preferibile quello «estetico» che ci ha procurato i libri di Tyndall e di Emil Zsigmondy.

Ancora un tentativo all’Antelao

È fama che tra le innumerevoli specie del genere «homo sapiens» gli alpinisti abbiano la testa particolarmente dura, come le roccie che perseguitano: e v’ha chi asserisce che fra gli alpinisti italiani, nella «scala della durezza» occupino il primo posto quelli del Piemonte… Così avvenne che lo scorso anno, non pago di una solenne, esauriente disfatta avuta due anni prima in un tentativo all’Antelao dal versante Sud, volli ritentare la prova, sebbene colla quasi certezza di ritornarmene colle pive nel sacco, e confortato nella medesima da molto autorevoli opinioni di guide e d’alpinisti.

Soltanto, questa volta, decidemmo colle guide Zaccaria Pompanin e Angelo Zangiacomi, di prendere le mosse direttamente da Borca di Cadore, e cercare una via su per la parete, a dir vero molto poco promettente, che le incombe. Un enorme ripidissimo canalone taglia in senso verticale tutta questa parete: la prima parte della salita, a nostro avviso, avrebbe dovuto svolgersi a zig-zag su per le roccie a sinistra del medesimo, che non avevano l’aria di esser particolarmente difficili; a un dato punto, sorpiombando la parete, ci pareva dover scendere per una lunga cengia, a sinistra, nel canalone, su pel quale o per le immediatamente contigue roccie speravamo poter continuare la salita sino ai piedi del dentellato picco terminale: per raggiunger la sommità del medesimo alla peggio, contavamo portarci sulla cresta Nord-Nord-Ovest e per questa raggiungere la vetta. Per quanto era a nostra conoscenza neppure un tentativo era stato fatto da questo lato.

La sera del 1º settembre arrivavamo dunque all’ospitale Albergo di Borca, ove pernottammo: e l’indomani alle 2 precise partivamo per l’Antelao. L’ottimo e amabile albergatore ci aveva fornito un uomo pratico della località, che ci potesse guidare nella notte, pel più breve cammino, fino alla base delle roccie.

Ciò che credevo fosse affar d’un paio d’ore al più, ne durò invece quattro, che ci parvero interminabili, anche per la grande impazienza di impegnare il combattimento: nè è a dire che andassimo troppo comodamente, perchè anzi il nostro uomo, che era stato soldato sotto il generale Pianell, e se ne teneva giustamente assai, attaccò la salita con un tale passo da bersagliere che dovemmo presto invitarlo noi a andare… un po’ più «pianell» per non esser poi costretti a troppo attendere la luce del giorno al piede delle roccie.

Alle 6 precise, come Dio volle, vi giungevamo e facemmo una breve sosta: il punto è ben segnato da una permanente macchia di neve, sotto alla quale scorre in abbondanza l’acqua proveniente dal gran canalone, di qui solo parzialmente visibile. Qui calzammo le «kletterschuhe» e affidammo le scarpe al nostro bersagliere, coll’istruzione di non muoversi se non quando un nostro grido lo avvertisse che eravamo certi di riuscire: allora avrebbe potuto tornare a Borca. Sapemmo più tardi che la poco principesca generosità con cui lo avevamo fornito di provvigioni, gli aveva allungato lo stomaco durante l’interminabile attesa, a un punto tale che si dimenticò..... di star a sentire la nostra voce, e un bel momento infilò bravamente la via del ritorno, raggiungendo Borca con una rapidità proporzionale al numero di scarpe che aveva a propria disposizione!

L’inizio della salita è curiosissimo: si volge subito a destra della macchia di neve, per un enorme lastrone, dolcemente inclinato, lungo circa 120 metri, tutto solcato da profonde striscie parallele che attestano il lavoro d’erosione delle acque, e su pel quale le kletterschuhe sono, per mantenere l’equilibrio, assai gradevoli. Indi ci arrampichiamo per un facile camino di 25 metri circa, seguìto da una comoda cengia, sempre verso destra: dal limite della cengia scendendo pochi passi, ne troviamo un’altra che ci riporta a sinistra, verso il canalone: poi per una serie di facili terrazze e caminetti ci innalziamo rapidamente sino a che troviamo il primo ostacolo di qualche conto, un’assai diritta lastra dagli incomodi appigli, che superiamo non senza difficoltà. Pieghiamo di nuovo a destra, trovando presto un altro lastrone, più facile, poi una comoda cengia e uno spigolo che ci portano alla base d’un grande camino, alto 100 metri circa, che la cattiva roccia e gli incomodi appigli, la più parte rivolti all’ingiù, rendono abbastanza arduo; a questo camino, dopo alcune diritte lastre, ne segue un secondo in cui, come così sovente accade, s’è impigliato un enorme blocco, su dal quale, dopo una serie di appassionati abbracciamenti, riusciamo a sollevarci, raggiungendo una piccola piattaforma, ove facciamo una piccola sosta, anche per esaminare il resto della via (ore 9,40). Da questo esame poco possiamo ricavare. Per un buon tratto è possibile, e verosimilmente facile il continuare su per la parete; ma poi questa si erge in una muraglia dappertutto sorpiombante, e bisogna piegare a sinistra, verso il canalone, per quella cengia di cui abbiamo parlato, ma che di qui non è visibile, essendo mascherata da un gomito della parete.

 

Alle 9,50, ripreso il camino, saliamo, diritto sopra di noi, per buone e interessanti roccie, poi volgiamo a sinistra per una cengia breve, ma abbastanza vertiginosa, che esige cautela, torniamo a destra di poco, superiamo un bel camino, e si procede quindi a zig-zag, senza notevoli difficoltà, su per la parete, finchè un comodo canalone ci riporta alquanto a sinistra, sopra una lunga e interessante traversata diagonale, intersecata da parecchi camini che bisogna in parte risalire, e da un lastrone piuttosto cattivo. Poi, sempre verso sinistra, abbiamo una lunga (circa 70 metri), piuttosto vertiginosa cengia, che ricorda quella della Kleine Zinne; ad essa segue un bellissimo camino, non facile, di 60 metri circa, che ci conduce (ore 11,50) a un punto veramente caratteristico della salita: una splendida, spaziosa grotta (ben visibile anche dal basso), pittorescamente sospesa sul vuoto in una delle più aeree posizioni, vero nido d’aquila, senza immagine retorica, come attestano le numerose penne di uccelletti che (accanto a curiosissimi esemplari minerali, di cui raccogliamo interessanti pezzi) seminano la superficie della grotta. Nella medesima, che offrirebbe un eccellente asilo per la notte, capace com’è di una cinquantina di persone, sostiamo una mezz’ora per la prima colazione, dopo dieci ore di salita quasi continua. Intanto Pompanin, l’appassionato amatore delle nuove imprese, si slega e va in ricognizione giù per la cengia che comincia appunto qui, dove la parete sorpiomba e il procedere su per la medesima è assolutamente precluso.

La febbrile impazienza di andare avanti mi impedisce di gustare degnamente lo squisito piacere della splendida solitudine in cui ci troviamo, sospesi in quel breve semicircolo ospitale di roccie, cui incombono enormi pareti sorpiombanti, e che a sua volta incombe per enorme altezza sulla profonda valle dove serpeggia l’argentea linea del Boite. Dal campanile di Borca ci giunge debole debole il saluto del mezzogiorno, poi tutto ricade nella solenne, religiosa quiete delle grandi elevazioni…

Un grido di Pompanin, mentre stavo lasciandomi assorbire dalla contemplazione affascinante di un paesaggio come quello, mi ripiomba nella realtà.—«Che c’è di nuovo?» domando io.—«Impossibile!» risponde Pompanin, e presto lo vediamo ricomparire, coi pugni stretti, e la faccia scura..... ci racconta che la cengia dopo un breve tratto si rompe in un a piombo che è impossibile superare: e che in ogni caso il canalone stesso, quando in un modo o nell’altro ci si potesse giungere, si innalza presto in un salto verticale di 70-80 metri, il quale offre un insormontabile ostacolo. «Vuol andare a vedere anche lei?», mi dice Pompanin, che non sa darsi pace di dover rinunciare alla impresa. Capisco che se per caso gli accennassi a una lontana possibilità, a parer mio, di poter tentar la prova, egli vi si accingerebbe con entusiasmo: ma conosco troppo bene Pompanin; so che quando egli trova un passo molto cattivo, non siamo troppo lontani dall’impossibile, e quando lo trova impossibile, ci si può fidare.

Eccoci dunque un’altra volta, come nel 1893, dopo lunga e ostinata lotta, suonati in piena regola dal nostro implacabile avversario. Non ci rimaneva che riprendere, e senza indugio, la via della discesa, non breve nè facile. Quanto sia piacevole il ricalcare la medesima, in simili casi, è noto: pure, come Dio volle, a furia di bestemmie fra le più saracene che si possa immaginare, giungemmo anche a capo di questa, e verso le 18, proprio in buon punto, eravamo di nuovo al piede delle roccie. Là ci attendeva la dolce prospettiva di dover continuare colle kletterschuhe fino a Borca: degno coronamento della nostra sconfitta. Fortunatamente il sagace Pompanin scoperse un’altra più comoda via per raggiungere il villaggio, evitando il macereto, che nell’oscurità e colle kletterschuhe, dopo 14 ore di marcia e con un fiasco in corpo di quella forza, sarebbe stato un raffinato supplizio: invece procedemmo, con grande vantaggio, a zig-zag giù per costole erbose, poi per la foresta dove la romantica luce della luna ci fu guida per qualche tempo. Alle 21 eravamo di ritorno a Borca (dove una vettura ci accolse coi nostri sacchi… e le annesse pive) e verso mezzanotte, ora opportunissima per un così poco trionfale ritorno, a Cortina.—O che non ci sia proprio verso di spuntarla, con questo vecchio ostinato dell’Antelao?

Monte Cristallo m. 3199

Avevo già salito due volte, nel 1893, questa bella e popolarissima cima, partendo da Cortina; la prima volta per la solita via di Tre Croci e del Passo del Cristallo, la seconda volta per la parete S.SO (nuova via). Sullo scorcio del settembre 1895, colla guida Zaccaria Pompanin, avendo raggiunto da Schluderbach, pel ghiacciaio del Cristallo, il passo omonimo, salimmo da questo, impiegandovi un’ora soltanto (cioè la metà del tempo solito) alla vetta del Cristallo. L’arrampicata, interessante e facile, si lascia forse compiere anche in più breve tempo, tanto «logica» è, dappertutto, la disposizione dei solidissimi appigli.

Giungemmo sulla cima alle 5 di sera, avendo impiegata la prima parte della giornata in esplorazione di un altro punto del gruppo; e vi sostammo un’ora con tempo mitissimo.

Consiglierei caldamente, trattandosi d’una cima che si raggiunge con tanta comodità, e dalla quale un buon camminatore può scendere in poco più di un’ora a Tre Croci, questa salita «serale» del Cristallo, che permetterà di assistere ad effetti di colorazione straordinariamente belli verso il tramonto: sopratutto le gigantesche pareti del Popena verso il Passo del Cristallo, assumono, nella luce vivissima, infuocata del sole cadente, un’imponenza ciclopica, qualcosa di veramente indimenticabile e come soltanto nelle Dolomiti è dato di ammirare!

Avv. Leone Sinigaglia
(Sezione di Torino).
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Il problema glaciale 34

SOMMARIO.—1. Cosa si intende per êra glaciale, e fino a qual punto può interpretarsi come prodotta dai ghiacciai alpini.—2. Essa si deve intendere prodotta da un periodo freddo-umido del clima terrestre;—3. non da un periodo caldo; 4. nè da maggiore altezza dei sistemi alpini.—5. Studi di Brückner sulle attuali oscillazioni del clima terrestre, e sulle condizioni per un periodo di tempo freddo-umido.—6. Di quanti gradi doveva essere inferiore all’attuale la temperatura media nell’êra glaciale.—7. Il raffreddamento non può spiegarsi come effetto di una diminuzione della radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre.—8. Cause possibili di una siffatta diminuzione: variabilità del sole; ipotesi di Brückner e Dubois.—9. Ipotesi astronomica di Croll: argomento di Schiaparelli, recentemente riprodotto da Culverwell contro di essa; l’ipotesi è contraddetta dalle oscillazioni attuali dei climi e dei ghiacciai. Spostamento dei poli.—10. Calcolo della radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre;—11. e della radiazione del suolo verso il cielo. Cos’è la temperatura del cielo. Condizione d’equilibrio delle due radiazioni; temperatura solare media sulla terra e sul mare.—12. La temperatura media del cielo è eguale per tutta la terra: importanza di questo fatto.—13. Distribuzione media della temperatura su oceani e continenti. Influenza degli agenti meteorologici.—14. Effetto di una variazione nella trasparenza dell’atmosfera sulla temperatura media;—15. sulla escursione annua;—16. e sul dislivello di temperatura dall’equatore ai poli. La variabilità del sole sostenuta da Brückner e Dubois è incompatibile colla uniformità della distribuzione termica nell’epoca terziaria.—17. Il clima terziario era un clima d’altipiano oceanico; argomento offerto dal pianeta Marte.—18. Causa del successivo intorbidimento che produsse l’êra glaciale: ipotesi vulcanica. La natura si svolge per ritmi: l’atmosfera, come un organismo fisiologico, deve avere dei periodi di varia umidità e trasparenza.

1. Anzitutto ricordiamo brevemente i fatti. In un’epoca non remota nella storia del nostro globo, anzi recentissima relativamente alla cronologia geologica, una buona parte dell’Europa e dell’America Settentrionale erano coperte da enormi strati di ghiaccio. In Europa erano due le aree principali di ghiacciamento: l’una, la più grande, occupava forse senza interruzione, coprendo cioè perfino il mare del Nord e il Baltico, la zona dall’Irlanda alla Russia Centrale, dalle regioni polari alla Germania e Francia settentrionale; l’altra, assai minore, era intimamente connessa al sistema alpino, come una pesante coperta di ghiaccio distesa su di esso e che, assecondandone grossolanamente la struttura, coprisse co’ suoi lembi tutto il contorno di catene e di valli prealpine, invadendo a sud buona parte della valle del Po, e distendendosi a nord fino alla Baviera, fin quasi a congiungersi colla grande area settentrionale di ghiacciamento.

Sulla origine di questa invasione glaciale circumalpina non può esservi dubbio: gli anfiteatri morenici, che sbarbano le principali nostre valli lacuali e le tedesche, il contorno della zona dei depositi glaciali, che generalmente si protende più avanti nella pianura allo sbocco dei più vasti bacini idrografici alpini, il materiale morenico, la direzione delle strie glaciali sulle pareti delle valli, dimostrano all’evidenza che l’invasione è venuta dai monti. Essa non era altro che un ingigantimento, un’ipertrofia dei ghiacciai attuali, che, continuando a crescere per un lunghissimo periodo di anni, discesero alla pianura per centinaia di chilometri, coprendo nello stesso tempo fino a grandi altezze i pendii e le creste dei monti, fondendosi l’uno coll’altro al di sopra di queste attraverso i valichi, invadendo le valli minori, fino a formare quello strato quasi continuo, dello spessore di centinaia e migliaia di metri, che seppellì la regione alpina.

Argomenti analoghi portano la grande maggioranza dei geologi a ritenere che anche l’area di ghiacciamento dell’Europa settentrionale avesse il suo centro d’origine nella catena scandinava, e rappresentasse una espansione di quei ghiacciai, anche attualmente tanto maggiore degli alpini. Tuttavia non mancano climatologisti autorevoli, come il sig. Woeikof, cui ripugna l’ammettere una siffatta espansione delle correnti alpine di ghiaccio per centinaia di chilometri sulle pianure della Russia e della Germania: e nulla impedisce di ammettere che l’area di ghiacciamento siasi in parte accresciuta al suo lembo esterno, o per la maggiore copia e la permanenza delle nevi prodottevi e mantenutevi dall’azione refrigerante della massa glaciale discesa dai monti, o per congelamento della superficie dei mari che il signor Woeikof suppone estesi anche a buona parte della pianura ora asciutta35. Questa supposizione, per quanto non spieghi la potenza enorme di quegli strati di ghiaccio, può apparire ancor più giustificata se si considera l’espansione glaciale dell’America del Nord. I centri di emanazione erano ivi non nelle alte montagne della Colombia, ma nell’altipiano non molto elevato del Labrador e nella regione del Dominio del Canadà a nord del Lago Superiore, in regioni cioè dove non vi è attualmente un sistema di ghiacciai nemmeno paragonabile al nostro alpino. Eppure le traccie dell’invasione, il drift glaciale, si estendono ivi a latitudini assai più basse che da noi, toccando fino il 37° di latitudine, al punto di confluenza dell’Ohio col Missouri. L’area di ghiacciamento, che occupava così assai più della metà dell’America del Nord, si fondeva a settentrione coll’espansione emanante dalla Groenlandia, ma non si può considerare come un prolungamento di quest’ultima, perchè la direzione di moto della massa di ghiaccio era, a nord della Baia d’Hudson e sul versante settentrionale del Labrador, certamente verso la Baia di Baffin, cioè opposta a quella dei ghiacci groenlandesi.

 

Pare difficile spiegarsi come mai le correnti di ghiaccio emananti nel senso delle valli, da quei centri di espansione così poco elevati, per quanto alimentate da precipitazioni assai copiose (come lo sono, ma certo in scala assai minore, anche attualmente per il frequente passaggio delle aree cicloniche) potessero produrre una così vasta stesa di ghiaccio, e pare quindi ragionevole supporre che questa siasi accresciuta anche tutt’all’intorno per gli incrementi autonomi delle precipitazioni locali. Conforta tale supposizione il fatto singolarissimo che nel Wisconsin si riscontra un’area che è affatto priva di traccie glaciali, che certamente non fu coperta dal ghiaccio il quale pur la circondava da ogni parte, e che è anche ora una delle regioni più povere di pioggia36.

Volendo anche tener conto di questa circostanza, che può contribuire a vincere la titubanza di chi non voglia ammettere una espansione dei ghiacciai alpini attuali come causa adeguata a così immensa invasione di ghiacci, rimane tuttavia indiscusso che da essa ne venne il primo impulso, e che nelle regioni temperate come la nostra, dove la permanenza delle nevi invernali è più difficile ad ammettersi, essa fu o la causa sola o quella di gran lunga predominante sulle altre. Così il Caucaso, l’Himalaya, la Nuova Zelanda, forse le Ande\equatoriali ebbero la loro espansione glaciale, ma ristretta alla regione montuosa, subordinata alla struttura orografica, semplice espansione dei ghiacciai attuali, se ne sono rimasti; o meglio, i ghiacciai attuali, dove ce n’è, non sono che i rimasugli, dei giganteschi ghiacciai quaternari.

2. Il problema glaciale si riduce quindi a cercare da quali condizioni fu determinata una così grande espansione dei ghiacciai. L’idea più spontanea è che essa sia un fenomeno affatto conforme, benchè in scala immensamente più vasta, alle espansioni periodiche che evidentemente si verificarono più volte in tempi recenti, e che alcuni ghiacciai presentano anche attualmente, sebbene la grande maggioranza dei ghiacciai alpini sia ora in un periodo di regresso. Le attuali oscillazioni periodiche dei ghiacciai sono indubbiamente il riflesso di alternative del clima, alternative che il Sonklar, il Forel, il Richter, l’Heim, ma sopratutto il Lang per la regione alpina, e poi il Brückner nel suo colossale lavoro sulle oscillazioni dei climi37 per tutte le regioni climatologicamente note nel mondo, dimostrarono essersi verificate e verificarsi realmente.

Si alternano sui continenti dei periodi di anni nei quali la temperatura è alquanto minore, e la pioggia sensibilmente più abbondante, con periodi nei quali ad una temperatura alquanto più elevata si combina una maggiore secchezza. Le espansioni dei ghiacciai corrispondono, con un ritardo di parecchi anni, vario da ghiacciaio a ghiacciaio a seconda della loro forma e struttura, ai periodi freddo-umidi; i regressi corrispondono ai periodi caldo-asciutti.

Noi siamo quindi portati a ritenere, per ragioni di analogia, che anche la grande espansione glaciale dell’epoca postpliocenica corrisponda ad un periodo freddo-umido del clima continentale, e il problema glaciale si ridurrebbe così a ricercare le ragioni più probabili di un siffatto periodo, che doveva essere naturalmente assai più accentuato di quelli che giustificano i più recenti avanzamenti periodici dei ghiacciai.

In questo indirizzo sono infatti rivolti i più recenti studi sull’argomento, i quali io mi propongo di qui riassumere il più che potrò brevemente e chiaramente, cercando di evitare, dove potrò, la terminologia e i simboli matematici e meteorologici, che son pur necessari a una discussione rigorosa, ma che spauriscono, e talvolta insospettiscono coloro che non sono iniziati a usarne anche in forma elementare.

3. Prima però è necessario rimovere alcune teorie che non accettando, come troppo ardita o troppo piccina, l’analogia degli attuali periodi climatologici coi grandi periodi geologici del clima, ricorrono o a una causa non climatologica, una maggiore altezza delle montagne (ipotesi orografica), o ad una causa climatologica affatto opposta a quella che spiega gli attuali incrementi periodici dei ghiacciai. Questa seconda, per la sua stessa contraddizione ai fatti attuali, non meriterebbe molta discussione, se, consacrata in Italia dal venerato nome di Stoppani, che la sostenne vigorosamente, quando questi fatti attuali non erano ancora assodati e messi in luce, non contasse ancora fra noi proseliti abbastanza numerosi ed autorevoli. Secondo essa l’espansione glaciale suppone una maggior copia di precipitazione nevosa nelle alte regioni alpine, questa una maggior copia di vapore nell’atmosfera e quindi una più abbondante evaporazione dei mari, la quale non può spiegarsi che con una temperatura più elevata: dunque l’invasione glaciale fu provocata da una condizione climatologica più tepida dell’attuale.

È facile vedere dove si annida il paradosso di questa teoria. Essa tien conto dell’aumento di ghiaccio che può corrispondere a una maggiore evaporazione dei mari, ma non dell’aumento di consumo che è prodotto nella massa di ghiaccio da un aumento di temperatura. Essa cioè cura l’aumento degli introiti, nel bilancio del ghiacciaio, e non si occupa del contemporaneo e assai maggiore aumento delle spese. Il riscaldamento di un solo mezzo grado centigrado solleverebbe anzitutto il limite delle nevi perpetue di circa 100 metri in senso verticale; pochi gradi di aumento farebbero spogliare quasi tutte le Alpi dei loro depositi di ghiacci, come ne sono spogli o quasi (fatte le proporzioni) l’Himalaya e le Ande equatoriali, nonostante la loro altezza e la vicinanza di mari assai caldi, i quali danno abbondantissima evaporazione.

Non è possibile inoltre supporre che l’aumento di neve caduta compensi e superi l’aumento nella quantità di ghiaccio disciolto. Questa seconda si può ritenere all’ingrosso proporzionale al numero di gradi sopra lo zero a cui si mantiene in media l’aria in prossimità del ghiacciaio, e poichè questo numero è sempre piccolissimo (circa 4° nei mesi più caldi; la media annuale attorno a 0°) due o tre gradi di più rappresenterebbero un’ablazione doppia o tripla dell’attuale, mentre due o tre gradi di più alla superficie del mare non possono rappresentare che un aumento assai piccolo dell’evaporazione che dovrebbe alimentare le nevi.

4. L’ipotesi orografica ha ricevuto in questi ultimi anni l’appoggio di molti geologi, specialmente americani, pei quali il fatto di una maggiore elevazione delle regioni montuose sulla fine del terziario e di un susseguente abbassamento nei tempi più recenti rimane ormai assodato: essa trova poi facile consenso in quei fisici i quali, vedendo tramontare altre ipotesi puramente razionali che tennero validamente il campo per lungo tempo, come quella geografica di Lyell e quella astronomica di Croll, si rifugiano volentieri in una ipotesi che ha, pare, il conforto sicuro dei fatti. Per essi appare spontanea la spiegazione di un’espansione dei ghiacciai per mezzo di un sollevamento delle regioni alpine, che sarebbero state alla fine del periodo terziario di parecchie centinaia di metri più alte sul livello del mare di quel che lo sono attualmente. Un tale sollevamento farebbe entrare nella zona delle nevi perpetue e trasformerebbe in immensi nevai collettori una estensione grandissima di valli e montagne, ora spoglie di ghiaccio, nelle quali il pendìo medio è sensibilmente meno ripido che nelle regioni più elevate, sedi attuali dei ghiacciai, e dove quindi sarebbe stata assai più facile la permanenza dei ghiacci che dovevano alimentare gli immensi ghiacciai quaternari.

34Aderendo al lusinghiero invito fattomi dall’ing. O. Zanotti-Bianco nella “Rivista Mensile„ (giugno 1895) riassumo i principali risultati del mio recente lavoro sulle Cause dell’Êra Glaciale (Pavia, Fusi, 1895). Ciò mi dà occasione di accennare anche ad altri recenti lavori sull’argomento, e di rispondere implicitamente, cioè senza polemica, ad alcune obbiezioni oppostemi pubblicamente, o per lettere private, da critici benevoli.
35Queste ultime supposizioni sarebbero contraddette dalle ricerche del Barone Von Toll sui giacimenti di ghiaccio fossile delle coste settentrionali della Siberia e delle isole della Nuova Siberia (“Mémoires de l’Acad. de St. Petersbourg„ vol. 42, fasc. 13). Il ghiaccio di quei depositi ha la struttura granulare caratteristica del ghiaccio di ghiacciaio, o in generale del ghiaccio formato dalla neve: struttura che non si osserva nel ghiaccio formato direttamente dal congelamento dell’acqua.
36Woeikof: Glaciers and glacial periods in their relation to climate (nel periodico “Nature„ tom. XXV, 1882).
37Brückner: Klimaschwankungen seit 1700. Wien 1890.