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Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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Dalle Terme di Valdieri si vedono le due punte più alte, ma si è troppo sotto alla montagna per poterne apprezzare l’intiera grandiosità; più uno si allontana verso est e più il monte sembra alzarsi nel cielo. Una buona veduta complessiva la si avrebbe dal Monte Stella, o meglio dalla cresta dell’Asta; più pittoresco ne deve essere l’aspetto dalla Cima del Lausetto e dalla lunga serriera del Latous a sud del Chiot della Sella; di là, infatti, la punta Est appare come il culmine avanzato di una sottile cresta rocciosa, formando una bifida piramide con lati precipitosi di altezza inverosimile: è la stessa apparenza svelta ed acuta che presenta il monte, quando lo si vede dalla bassa Val Gesso o dalla pianura tra Cuneo e la Chiusa di Pesio. Osservo ancora che in scritture antiche il monte è sempre chiamato «Matto grosso» matto significando evidentemente massiccio o masso, come nella lingua portoghese; infatti, non conosco altro monte di apparenza così massiccia.

Salendo sulla punta Est, non trovai altro fiore che il Leucanthemum alpinum, sino ai 2900 m. di altezza; infatti tutte quelle cime coperte di detriti sono quasi prive di fanerogame, come osservai anche sul Clapier e sulla Cima di Marguareis, la quale, nel vallone di Lourousa, spunterebbe appena fuori delle foreste, mentre in verità il suo largo dorso non conta che circa 10 specie di poveri fiorellini. La Cima del Diavolo invece, tutta rocciosa, nutre malgrado la sua strettezza ben 20 specie, tra altre l’Artemisia spicata, che coll’Eritrichium nanum cresce perfino sulle creste dei Gelas e dell’Argentera.

La vista dal Matto è tra le più attraenti, sebbene la punta occidentale, di difficile accesso, mascheri il Vallasco e buona parte dei monti a sud; le Alpi Cozie, col Monviso, vedonsi assai più da vicino e perciò meglio che dai monti di Tenda. A nord, abissi spaventevoli scendono nel vallone del Latous, e più sotto stendonsi i due Laghi della Sella; ma più sorprendente ancora è il precipizio orientale: infatti, lo stabilimento delle Terme appare così vicino e così sotto alla cima, che da questa uno si ritiene certo di poter mandare un sasso sul tetto.

Ho ancora qualche cosa da soggiungere sulle roccie. Tutto questo gruppo che è il più elevato delle Alpi Marittime fa parte di un nucleo di rocce sia massiccie, sia indistintamente stratificate (così dette antiche), emergenti fra schisti permici (a sud) e calcari triassici (a nord); esso corrisponde ad altre simili isole di gneiss sul lato ovest delle Alpi Occidentali (tali i gruppi del Pelvoux e del Monte Bianco) ed è chiamato dallo Zaccagna «Massiccio del Mercantour» causa un singolare errore dei cartografi sardi che attribuirono 3167 m. invece di 2775 alla Cima di Mercantour, punta piuttosto secondaria, vicina al Colle Ciriegia, e che ancora adesso da San Martino Lantosca taluno confonde colla Cresta dell’Argentera.

Le rocce, affatto prive di fossili, sono molto variate per aspetto e per durezza, trovandovisi diverse specie di granito, protogino, gneiss e micaschisto dai colori talvolta vivi e bellissimi (biancastro, bruno chiaro, verde, violaceo, rosso scuro, nerastro, ecc.); la struttura è spesso cristallina, talvolta però oltremodo compatta ed uniforme; raramente incontrai minerali cristallizzati, ma se ne rinvengono di bellissimi sulla Rocca dell’Abisso e su qualche cresta dietro ad Entraque.

Altro fenomeno molto comune in queste Alpi, dove la denudazione ha assunto vaste proporzioni, è la presenza delle «clapere» o macereti, o petraie, dovute all’azione delle meteore e del gelo sulle nude e ripide creste di roccia; i massi che se ne staccano rotolano giù, nella fredda stagione, sui ripidi campi di neve sino al punto più basso che incontrano e talvolta perfino sul lato opposto della valle; nei circhi contornati su tre lati da catene rocciose, il fondo deve naturalmente riempirsi man mano con tali massi. È ciò che ha avuto luogo nei valloncini laterali della Gordolasca, nell’alto vallone della Barra dal Prajet al Colle delle Finestre, nel vallone di Lourousa e in quello di Meiris sopra il Lago Soprano, nei rami terminali del Vallasco ed in molti altri luoghi. Altre volte le petraie ricoprono dorsi ondeggianti (come sul M. Clapier), più raramente formano ripide falde. I macereti inferiori delle Alpi calcaree, invece, ricoprono d’ordinario i fianchi inclinati dei monti e si distinguono dal resto pel loro materiale assai più minuto. Però, anche nelle vere petraie incontrai raramente blocchi di oltre 1 a 2 metri cubici di volume, salvo nella grande cassera ad ovest del Passo del Trem, ove predominano elementi grossi.

Sviluppatissimi sono in tutta quella regione i fenomeni glaciali, specialmente le rocce montoni, che nel Vallone della Miniera scendono sino a circa 800 metri, vicino a S. Dalmazzo di Tenda. In molti punti esse formano larghi dorsi ondulati o pianeggianti che col loro fianco precipitoso sbarrano la vallata, mentre il rio ne scende d’ordinario per mezzo di stretta spaccatura che vi si è scavata; simili dorsi si osservano, per es., nella Val Gordolasca sotto il Lago Lungo e sotto la Vastera Streit, poi nella Val d’Inferno, sotto i Laghi di Valmasca e dell’Agnel, nel vallone di Peirabroc e specialmente dietro al Lago della Ruina. Di questo ultimo sito, notevole per lo sperone abbastanza alto, arrotondato e tutto levigato dal ghiaccio, che s’innalza tra il sentiero ed il burrone del rio (la carta sarda lo chiama Baus del Fasà), parla il Freshfield dicendo che mai non vide un luogo che dimostri meglio la capacità dei ghiacciai di levigare le roccie e l’incapacità di rimovere seri ostacoli. Ritroveremo le rocce montoni quando tratteremo dei laghi alpestri.

Quanto alle morene, se ne vedono delle ben sviluppate nel vallone di Vallasco, in quello di Meiris davanti al gias della Sella, e specialmente nel vallone Lourousa, sbarrato più volte da terrazzi morenici a mo’ di scale regolari. Le più basse, sul lato sud, si vedono nel bacino di Tenda, poi sotto a San Dalmazzo, vicino allo sbocco del rio della Miniera (circa 650 m.); nella parte nord ne sono singolarmente ricchi i dintorni di Demonte e di Entraque, quest’ultimo villaggio è tutto attorniato da dorsi morenici colla superficie pianeggiante, ora coltivata o ridotta a praterie, mentre il corso dei torrenti vi è molto incassato, come lo è anche quello della Stura a valle di Demonte. Il maggiore dei colli morenici a sud di Entraque, chiamato Serriera dei Castagni, forma un largo dorso quasi uniforme che corre diritto per ben 3 km., elevandosi man mano da 1100 a 1330 m. e dominando il rio della Trinità dall’altezza di circa 200 metri.

Nelle Alpi Ligustiche, i fenomeni glaciali sono di minor rilievo, eccetto forse a nord del Mongioje: invece l’erosione vi ha prodotte potenti formazioni carsoidi e le vallate settentrionali vi sono anche singolarmente ricche di caverne, tra le quali quelle di Bossèa, dell’Orso, di Nava, ecc., che hanno poche rivali in Italia.

2) Formazione delle Vallate

Le valli delle Alpi Marittime sono in maggior parte trasversali. Le poche longitudinali o parallele alla catena principale, cioè quelle dell’alta Tinea, del Varo medio e inferiore, della Stura, del Tanaro e dell’Arroscia, non sono dovute, a quanto pare, esclusivamente all’azione dell’erosione, corrispondendo invece a breccie naturali, lungo il confine dei vari sistemi orografici. Esse valli—le più antiche—sono perciò più perfette in quanto concerne la loro direzione quasi uniforme e il loro «thalweg» profondo, largo e poco inclinato per lunghi tratti. Le valli più complete sotto questo riguardo sono: quella della Stura, che presentasi larga da 1 a 2 km. sotto Demonte e più sopra fino a Vinadio, poi quella del Tanaro dalla sorgente fino ad Ormea, e quella del Gesso fin sopra Valdieri; sul lato sud quella dell’Arroscia sino a Pieve di Teco, poi lunghi tratti delle Valli della Tinea (sotto Santo Stefano), del Varo, dell’Ubaye, ecc.

La maggior parte delle valli meridionali di queste Alpi costituiscono però tipi caratteristici di valli trasversali, scavate intieramente dalle acque, talvolta in terreno molto difficile, e non presentando il carattere di valli perfette e piane che verso il loro sbocco nel mare. Così la Valle del Roja non è che una interminabile serie di chiuse strette e talvolta meandriformi, separate tra loro da bacini più o meno larghi, il più lungo—quello della Giandola—non misurando oltre a 4 km. di lunghezza. Questi bacini, in parte letti di antichi laghi, apronsi quasi sempre là dove s’incontrano due o più rivi di qualche importanza.

Le chiuse meridionali delle Alpi Marittime, per carattere selvaggio e fantastico, sono veramente uniche in Europa. Quella della Vesubia, nel terreno orgoniano, era in gran parte affatto inaccessibile, finchè due anni fa si aprì una nuova strada strategica che da Lantosca mette nella Valle del Varo; la strada postale invece corre a 200 o 300 m. sopra il torrente, sull’asprissimo fianco sud, esposto alle valanghe d’inverno, attraversando per mezzo di una galleria la roccia a picco conosciuta sotto il nome di «Salto dei Francesi»; se qui non mancò la tragedia (i montanari esaltati vi precipitarono, a quanto si dice, molti «maraudeurs» francesi nelle guerre della prima Repubblica), almeno si deve confessare che il posto era straordinariamente adatto ad avvenimenti tragici; dalla strada per lo più non si vede il fondo del precipizio.

La gola del Ciaudan, dominata da pareti calcaree, parte con stratificazioni oblique molto ben accusate, parte liscie o strapiombanti, sopra le quali erte cime s’innalzano sino a 750 m. sopra la valle, è ora attraversata dalla nuova ferrovia da Nizza a Poggeto Teniers; il Varo vi appare molto copioso nel suo stretto alveo, e nei tempi di piena vi corre con velocità incredibile; all’ingresso, il villaggio di Baussone è letteralmente sospeso sul culmine di una roccia a picco alta 250 m.; simile posizione è, del resto, di regola per tutti i luoghi abitati di quella regione.

 

Le gole del Cians, del Loup e quella del Varo vicino a Daluis, che comincia per mezzo di una «porta fluviale» molto caratteristica, sono veri «cañons» cioè spaccature, per lo più colla forma della lettera U, scavate in altipiani aridi e poco ondulati, dalle stratificazioni orizzontali o quasi. Vedonsi, specialmente nella gola di Daluis, roccie dalle forme più singolari, e l’insieme di quegli stretti e tortuosi canaloni è così strano ed imponente, che in molti punti ricorda vivamente le incisioni del Dorè per l’Inferno di Dante. Si aggiunga poi la luce vivissima del sole contrastante colle ombre profonde, i colori svariati e d’ordinario molto vivaci (rossi, bianchi, gialli) delle rocce, i curiosi effetti dell’erosione e degli scoscendimenti, le numerose caverne, sorgenti e cascate, poi la flora quasi del tutto ancora mediterranea, che con ricchezza infinita di fiori e di arbusti sempreverdi ricopre le nicchie, le fenditure e le sporgenze della roccia, mentre questa in altri punti appare tutta nuda o ricoperta di piccole incisioni a mo’ di geroglifici.

Bellissima è anche la gola di Gaudarena, lunga 7 km., nella alta Val Roja, con paesaggi svariatissimi, rocce di forme molto diverse, alte sino a 300 metri, costituite in gran parte da schisti permici verdi, rossi, violacei o grigi, e popolato da molti vegetali più o meno meridionali, quali il castagno, il pino silvestro, vari ginepri, un acero (A. opulifolium), il sommaco (Rhus cotinus), l’edera, il fico selvatico, l’erica arborea, il cistus albidus, lo spartium junceum, l’ostria carpinifoglia, l’inula viscosa, ecc.

Tutto alpestre invece è il carattere della grande fessura di Val Negrone, lunga 14 km., tra Upega e Carnino ed i Ponti di Nava, ed accessibile soltanto per mezzo di difficili sentieri, impraticabili per chi soffre di vertigini; le sue orride rocce si alzano fino a 500 m. sopra il letto del torrente, e sul lato sud nereggiano ancora boschi popolati da lupi.

Quanto ai vertici delle valli, i meno modificati dal tempo—cioè i più giovani—sarebbero stretti burroni, poco incisi e più o meno ripidi, come riscontrasi alla testata di molte vallette secondarie. Una forma già più sviluppata è il circo, attorniato su quattro lati da ripide ed alte pareti, dalle quali sfugge l’acqua per mezzo di una stretta spaccatura; tali circhi, d’ordinario con fondo eguale e sassoso, altre volte o ancora adesso occupato da un lago, si osservano all’estremità superiore di molte valli alpestri: i più caratteristici sono quello del vallone di Gordolasca, colla bella prateria della Fous nel fondo, e quello del Lago Brocan nel vallone della Ruina.

Non meno numerosi sono gli altipiani, spesso riempiti da laghi, coronati da erte giogaie su tre lati, mentre un dorso morenico o di rocce montoni li chiude a valle; tali sono, per esempio, i bacini terminali del vallone della Miniera, gli altipiani lacustri della Valmasca, dell’Agnel, del Lago Lungo, di Fremamorta, di Valscura e molti altri. I circhi, come gli altipiani, esistevano evidentemente già nell’epoca glaciale, che lasciò la sua varia impronta nei loro dintorni.

La Gola di Gaudarena

Disegno di A. Viglino da una fotografia di F. Mader.


Più antiche e più finite sono le valli che al loro vertice salgono con pendìo dolce verso un’insenatura della cresta, che le congiunge insensibilmente con un’altra valle, formando quasi un’interruzione della catena alpestre ed una via naturale per attraversarla; tale è il fondo della Val Stura, congiunto colla Valle dell’Ubayette per mezzo dell’altipiano della Maddalena (m. 1995), e su più piccola scala il bacino terminale del vallone di Carnino, verso il Colle dei Signori; ma è ben raro che una valle fin dal suo cominciamento raggiunga in simile modo il colmo della sua escavazione.

Sotto ai circhi od agli altipiani, le valli alpestri formano tutte una serie di scaglioni più o meno lunghi, d’ordinario con davanti una barriera di rocce montoni; strette gole o ripidi pendii con cascate congiungono questi scaglioni, al cui margine superiore si presenta spesso un pianoro ovale, antico bacino lacustre, come ve ne sono due bellissimi esempi nel vallone di Vallasco. Uno dei più estesi di tali piani è quello di Casterino, alto in media 1550 m.; lungo ben 4 chilometri e largo da 300 a 800 m.: esso costituisce certamente la più grande superficie piana del territorio di Tenda.

3) Clima, nevi, ecc

Non essendovi, nelle Alpi Marittime, altre stazioni meteorologiche fuorchè quelle della costa, poi Cuneo e Boves, sul limitare della pianura, non possiamo dare sul clima delle alte regioni notizie di qualche rilievo. A Tenda, dal 1º luglio al 15 settembre, la temperatura di giorno è ben raramente superiore ai +25° C. (misurammo una volta +28°), mentre la notte si mantiene d’ordinario tra 15° e 19°. Però, in tutte quelle vallate aperte verso sud, ed accessibili ancora ai venti del mare, l’influenza del clima marino si fa sentire sino ad altezze molto ragguardevoli e vi cade relativamente poca neve, essendo un caso ben raro che questa, come nel 1895, perduri a Tenda più settimane. Del resto, dalla fine di giugno alla metà di settembre, è raro che nevichi nelle Alpi Marittime, mentre cade più spesso la grandine.

Il clima veramente alpestre è pertanto limitato, sul lato sud, a parecchie valli alte e molto chiuse, come quelle di Valmasca, di Gordolasca, del Borreone, di Ciastiglione, ecc. Il lato nord invece ha, causa l’alta catena che si erge per lungo tratto a meriggio, un clima singolarmente continentale ed un inverno rigidissimo, comparativamente alla sua latitudine piuttosto meridionale ed alla vicinanza del mare. Le Valli di Valdieri hanno un clima certo meno mite di quello della Lombardia e perfino della Valle d’Aosta. Nell’inverno vi cade neve in quantità straordinaria, raggiungendo, per es., ad Entraque nel febbraio 1888 quasi m. 4 ½ di altezza; anche l’estate è assai meno secca e meno stabile che sul lato sud, e alle Terme di Valdieri, protette dai venti su quasi ogni lato, la temperatura media del giorno, nei mesi più caldi, sarà poco superiore a +15°.

Risulta già da questi pochi dati che nella parte sud delle Alpi Marittime non s’avrà da aspettare molta neve eterna. Che però se ne incontri in taluni luoghi bassi favoriti dalla struttura orografica, dall’esposizione verso nord, dalla protezione contro i raggi del sole (almeno per molte ore), non può sorprendere chi conosca l’ingente volume di neve che cade d’inverno.

Nella parte sud della grande catena nevati di qualche estensione non trovai che su fianchi esposti verso nord od ovest, o almeno protetti da alte pareti verso meriggio; ve ne sono due abbastanza grandi, sovrapposti sul fianco occidentale del Clapier, scendenti sino ai 2600 m., poi uno nel canalone a nord del Monte Capelet, sopra il Lago Autier, e due cospicui sotto la Cima dei Gelas, dietro il Lago Lungo, sino alle cui sponde (m. 2572) scendono piccoli campi di neve perpetua; altri stendonsi nei rami terminali di Val Vesubia sotto il Gelas, dietro ai laghi del Balour, dove il sig. Bozano ebbe da attraversare, come dice, una larga vedretta; poi a sud del Lago Agnel ed attorno al Lago Gelato, nella Valmasca, ed in qualche altro luogo di questo alto gruppo.

Quasi affatto prive di neve estiva, sono le Alpi Ligustiche, facendo astrazione dei buchi profondi nella regione degli Scevolai a circa 2200 m. e forse di qualche avallamento al piede della grande parete nord della Cima di Marguareis.

Sulla parte nord delle Alpi Marittime, trovammo prima, li 17 agosto 1890, un grande nevato a circa 1800 m. di altezza nel circo a nord del Colle del Sabbione, e più basso, sin verso 1650 m., due altri, nei quali il torrente si era scavato delle gallerie, il cui vôlto era ancora saldo abbastanza per potervi saltare sopra con tutta forza. È vero che questi nevai non v’erano più nel 1894, e che l’inverno 1889-90 era stato particolarmente ricco di neve; però, nell’estate 1885, perdurò una quantità di neve ancora molto maggiore.

In generale non c’è forse nella parte nord un monte che superi i 2700 m., senza essere troppo ripido, che non ritenga, almeno su uno de’ suoi lati, un po’ di neve per tutto l’anno. Le più basse nevi estive si trovano nel fondo di fessure che servono regolarmente di raccoglitori delle valanghe; così trovai alla fine d’agosto 1893 un ammasso cospicuo di neve sul lato est di Val Ruina, ad appena 1450 m. d’altezza. Nevi eterne di maggiore estensione trovansi (non sotto i 2400 m.) nei recessi terminali del Vallone di Vallasco, a nord della Cima dell’Oriol e sui fianchi delle alte catene che fanno capo al Lago Brocan; ma i nevati più estesi sono limitati ai tre più alti gruppi delle Alpi Marittime.

Immediatamente sulla parte nord della catena principale, per un tratto di circa 4 km. di estensione, dal Monte Clapier alla Cima dei Gelas, v’è un complesso abbastanza considerevole di nevaj e perfino di ghiacciaj di secondo ordine (vedrette). Di questi non esisteva finora, a quanto io sappia, una descrizione qualunque. La carta sarda li segna assai inesattamente; Coolidge, che li percorse, menziona appena il loro nome e così pure Purtscheller, che parla di due soli ghiacciai, quello dei Gelas con kmq. 1 ½ e quello del Clapier con 1 ¼ di superficie; queste dimensioni sono molto esagerate, ma nel tempo in cui il sig. Purtscheller visitò questo distretto, v’era ancora tanta neve da non poter determinare l’ampiezza dei nevati eterni.

Eppure questo gruppo avrebbe meritata un’attenzione tutta speciale, costituendo la massa di ghiaccio più meridionale di tutte le Alpi, eccetto la piccolissima sul lato nord del Monte Capelet. Del resto, in tutto il sistema delle Alpi Occidentali non si trovano ghiacciai di maggiore estensione a sud del massiccio del Pelvoux e del nodo del Tabor, l’altissimo Monviso non avendo che il piccolo ghiacciaio del Triangolo, inferiore in estensione anche ai «glaciers de Marinet» sull’Aiguille de Chambeyron.


Il versante Nord del gruppo dei Gelas dalla Cima della Valletta Grande

Disegno di A. Viglino da una fotografia di F. Mader.


Parlandosi d’ordinario di soli due ghiacciai in quella regione, cioè quelli della Maledìa e del Clapier, osservo prima che se ne devono contare 6 principali, affatto distinti tra loro, e parecchi di grandezza molto minore. Il nome Maledìa è una denominazione generica usata per tutti i ghiacciai e nevai del gruppo dei Gelas, alludendo forse al loro carattere sempre invernale, nemico all’uomo, o, come si vuole anche, ad una curiosa leggenda corrente nelle Valli del Gesso.

La nuova carta dell’I. G. M. segna abbastanza bene quei ghiacciai, ma esagera non poco la loro estensione verso la valle; inoltre, il piccolo muro di roccia che separa i due ghiacciai di Murajon non vi è ben segnato; il ghiacciaio del Clapier invece, nella sua parte superiore, mi apparve veramente assai più largo che non sulla carta.

Do qui appresso, procedendo da ovest ad est, alcune notizie sommarie sui 6 principali ghiacciai, che propongo di distinguere coi nomi qui aggiunti:


Le sovra riferite cifre s’intendono approssimative e senza tener conto delle irregolarità della superficie dei ghiacciai.


Il Ghiacciaio dei Gelas, dalla cima omonima, scende verso nord nel vallone omonimo, nel quale si riversa per mezzo di 4 o 5 rivi. Una cresta poco ragguardevole—che però costituisce lo spartiacque tra i valloni della Barra e di Monte Colomb—lo separa dai due ghiacciai di Murajon, distinti tra loro per mezzo di un’altra cresta, stretta e poco elevata, ma continua; essi estendonsi a nord-ovest del gias del Murajon e formano per lo più nevati larghi, ripidi e molto bianchi, terminantisi in basso con lingue di neve ghiacciata di spessore piuttosto esiguo. Tratti ghiacciati alquanto cospicui vedonsi lungo le roccie della Cima dei Gelas, verso l’estremità superiore dei nevati. Nell’angolo nord-ovest del grande anfiteatro nel quale questi sono racchiusi, trovasi il Laghetto Bianco (m. 2544), alimentato dalle acque di neve e trattenuto da una grande morena; esso non ha emissario visibile, ma più sotto un grande rio raccoglie tutte le acque che scendono dai ghiacciai, guadagnando il rio di Monte Colomb sotto il gias Murajon. Sulla carta, pare che il nevato si estenda sino al laghetto, mentre cessa assai più in alto; però pochi lembi di neve scendono ancora sino a circa 2500 m. Altri due nevati meno importanti scendono dalla Cima dei Gelas verso ovest.

 

Il Ghiacciaio della Maledìa, ossia quello più particolarmente conosciuto sotto questo nome (si potrebbe anche chiamarlo «di Pagarì», dal passo sul quale comincia), è separato dai due di Murajon per mezzo della cresta chiamata Caire Murajon, molto ripida sul lato est; esso scende quasi sempre con declivio dolce, abbastanza precipitoso soltanto nella parte media, sotto la Punta della Maledìa; ivi è anche più largo di 250 metri. È attorniato lungo tutto la sua estensione dalle cosidette crepaccie periferiche (bergschrund), rare volte larghe oltre 1 metro; la sua superficie è in gran parte agevole da percorrere. Pochi tratti trovai di puro ghiaccio, di color grigiastro, raramente azzurrognolo; nella parte inferiore trovansi piccole crepaccie mediane, poi alcuni tratti foggiati a scala, con sassi disposti attorno ad ogni scalino. La morena frontale è regolare, alta circa 5 m., e consiste di blocchi abbastanza grandi disposti l’uno sopra l’altro in sorprendenti condizioni d’equilibrio; il rio vi passa sotto, precipitandosi poi tra rocce montoni ed infine per uno stretto burrone nel vallone Peirabroc87.

Osservo qui che le morene frontali ben caratterizzate di questi ghiacciai dimostrano come essi non siano più retrocessi da molto tempo; così la lunghezza esagerata che assegna loro la carta può tutto al più dipendere dal fatto che i cartografi li rilevarono in una stagione ancora molto nevosa. Immediatamente ad est del ghiacciaio della Maledìa, altro nevato più piccolo (circa 6 ettari) scende sino a circa 2605 metri; nei giorni caldi le acque che ne scolano formano, dietro alla morena, uno stagno biancastro.

Il Ghiacciaio che chiamerò «di Peirabroc» dal nome della valle sottostante, dominato da una cresta alta m. 2940 scende più basso di tutti gli altri ed è nello stesso tempo quello sviluppato più normalmente, costituendo quasi un piccolo modello dei grandi ghiacciai alpestri. Lungo il suo orlo non mancano le crepaccie trasversali, però di modesta estensione. Nelle minori concavità osservai talvolta piccole «pulci» (probabilmente «Desoria glacialis»). Il ghiacciaio si termina con una lingua triangolare di ghiaccio puro, coperto di sassi in tal modo da potersi attraversare in ogni senso; vi trovai anche un esemplare minuscolo di tavola di ghiacciaio. Le due ripide morene laterali di questa lingua di ghiaccio hanno dimensioni veramente smisurate, e, viste dal basso, sembrano due grandissimi coni di sabbia; quella occidentale, molto regolare, è alta ben 20 m. dal lato interno e 30 dal lato esterno; vi cresce qualche Linaria alpina. La morena frontale è invece abbastanza piccola; il rio che vi passa scorre poi per un precipitoso burrone, incontrando più sotto gli emissari del ghiacciaio del Clapier, coi quali forma il rio di Peirabroc. Nel detto burrone vidi ancora qualche piccolo nevato, tra 2250 e 2350 metri.

Il Ghiacciaio del Clapier, infine, che ad oriente del monte omonimo sale fin sulle creste, spingendo parecchi rami sui ripidissimi fianchi ad ovest, forma in gran parte un campo ondulato e ininterrotto di neve piuttosto impura, con qua e là piccole morene mediane, però tutte isolate; la morena frontale è invece molto cospicua. Più sotto, parecchi lembi di neve stendonsi verso il Lago Bianco (m. 2328). Il ghiacciaio del Clapier è il più meridionale delle Alpi, trovandosi sotto la latitudine di 44°7´ e 45 km. direttamente a nord di Monaco, cioè del punto più caldo della Riviera.

La Cresta dell’Argentera, stante la sua estrema ripidezza, non contiene nevati proporzionati alla sua altezza. La carta Sarda ne segna due grandi, sovrapposti sul lato ovest; ma veramente non se ne trovano ivi che pochi di minore estensione; il più grande ha forse 2500 m., dietro il vallone dell’Argentera, sul cui lato nord osservai anche qualche stretto e ripidissimo canalone di neve. Più scarsa ancora è la quantità di neve estiva sul lato est, sopra il gias del Baus. Trovai invece parecchi nevati assai grandi, in parte ripidi, con piccole morene, nel fondo del vallone Lourousa, sotto la gran parete del M. Stella (m. 2200-2500).

Più importante è il Ghiacciaio di Lourousa o dell’Argentera, che si estende in una conca laterale, coronata da rocce ertissime; è lungo circa 720 m., largo sino ai 250 ed alto 150, con pendenza media tutto al più di 10 gradi (superficie circa 18 ettari); la sua grande e larga morena frontale trovasi a circa 2400 o 2450 metri di altitudine; sul lato sud, il famoso canalone di neve del Monte Stella sale sino a m. 3150; Coolidge, per accedervi, dovette attraversare una bergsrunde per mezzo di un ponte di neve. Nell’agosto, la salita del canalone—impraticabile agli alpinisti inesperti—è piuttosto pericolosa, causa la durezza della ripidissima neve e l’esposizione del burrone ai sassi cadenti.

Anche il Gruppo del Matto contiene parecchi nevati, fra cui uno quasi pendente sul lato della grande parete nord, e due altri più bassi, quello inferiore scendendo forse sino a 2250 m.: essi hanno piccole morene frontali ed alimentano il rio del Latous. Assai più grande è il nevato che scende dalla sella fra le due punte principali (circa m. 3040) verso ovest; esso ha un declivio piuttosto dolce, molto più risentito però lungo le rocce meridionali, e contiene molte concavità acquose, dando acque ai rivi Meiris e Cabrera; si termina con una piccola morena (m. 2950) sopra un lungo dorso di rocce montoni; verso nord, scende sino a circa 2850 m. In complesso, la sua lunghezza è di circa 600 m. con altrettanto di larghezza massima (superficie circa ettari 22).

Dal limite inferiore dei principali nevati persistenti sul lato nord delle Alpi Marittime, risulta un’altitudine di pressochè m. 2550 quale limite medio; questa cifra dimostra bene come la costituzione orografica modifichi profondamente le condizioni naturali di un paese. Infatti, se qui a 2600 m. non è raro di incontrare neve nell’estate, non ve n’è invece, o quasi non ve n’è, al disopra di 3000 m.; e la Punta dell’Argentera dovrebbe essere forse centinaia di metri più alta per avere il culmine coperto di neve perpetua.

87Nel settembre del 1895, dopo una stagione molto nevosa, trovammo il ghiacciaio assai più esteso, coperto da neve molle e mancante della bergsrunde. La morena era più larga e ferma.