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Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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Il paesaggio del vallone Lourousa, nel quale poi si scende, è certo uno dei più grandiosi di queste Alpi, ma su tutto quel tragitto dal gias Monighet alle Terme di Valdieri non incontrammo acqua che in un solo punto, il rio Lourousa scorrendo nella valle superiore quasi continuamente sotto un ammasso di blocchi, cosicchè il suo mormorio cagiona veri supplizi di Tantalo.

Dal gias Lacarot (m. 1980), dove eravamo alle 19, la strada è quasi tutta carreggiabile, larga quasi 2 metri, e si svolge in interminabili giravolte attraverso una bella ma poco folta foresta. Qui ci avvenne uno strano incidente che dimostra bene come anche nei monti spesso si corre pericolo quando meno uno se lo aspetta. Un mulo, appartenente certo a boscaiuoli accampati in quei dintorni, stava ritto sulla strada, voltandoci la groppa; tentai di passar oltre, ma in quel momento mi sferrò due calci che mi avrebbero rotte le ginocchia, se non avessero invece toccato il mio stativo (piede dell’apparecchio fotografico). Siccome le ripide chine sotto la strada non si mostrarono praticabili, almeno in quel buio, non ci rimase altro mezzo che di cacciare giù innanzi a noi quell’animale per buon tratto, finchè ci si presentò una scorciatoia; passato poi il rio privo di ponte, giungemmo dopo le 21 alle Terme di Valdieri ove ci accolse una musica festosa, non però destinata a nostro onore; anzi i camerieri non si mostrarono entusiasmati a vedere il nostro esteriore piuttosto brigantesco, che molto contrastava colle belle toelette delle signore e colle brillanti divise degli ufficiali.

Il giorno seguente non proseguimmo che fino a Sant’Anna, ove cadde un po’ di pioggia, la sola che ebbi a vedere durante queste escursioni, anche nell’estate 1893, che sotto questo riguardo era piuttosto sfavorevole. Mangiammo e dormimmo nella Trattoria Piacenza, modestissima a dir vero, ma sufficiente per uno che è abituato allo scarso conforto dei gias.

Alla mattina, con tempo splendido, salimmo sul Monte Merqua (m. 2148), dal quale godemmo una bella veduta, poi scendemmo per boscaglie di rododendri ancora fioriti, nel vallone del Desertetto, senza trovar acqua che sotto il villaggio di San Bernardo. Alla sera eravamo ad Entraque, da dove il giorno 26 ripartimmo per Tenda.

Il risultato fotografico di questa spedizione essendo stato ben magro, mi decisi a tentarne un’altra, ciò che il pessimo tempo non mi permise per più settimane. Ma nella notte del 27 settembre, vedendo il cielo sereno e stellato, risolsi di mettermi tosto in marcia e dopo pochi preparativi partii alle ore 2. Rimontai lentamente al chiaro di luna il Vallone della Miniera e giunsi verso le 9 ai gias della Valmasca; proseguendo poi verso nord, attraverso macereti e dirupi, ebbi la fortuna di trovare subito la via di accesso più facile per guadagnare il Lago Agnel, passando a nord del rio che ne scende formando una bella cascata, che si precipita da una parete liscia, alta circa 200 metri; passai davanti all’imbocco di parecchie caverne, probabilmente poco profonde (il terreno essendo schistoso) e giunsi infine a una discreta altezza sopra il lago, senza che mai incontrassi traccia di sentiero.

Alle 14 quando mi fermai sulle sponde del lago, un vento di ovest spingeva davanti a sè la nebbia; speravo tuttavia che il tempo si rimettesse volendo ancora scendere pel Lago Bianco al gias Murajon e tornarmene l’indomani a Tenda pel Colle Vej del Bouc, quantunque tale percorso riuscisse assai faticoso. Aspettai invano fino alle 16 ½, ed allora la prudenza più elementare mi costrinse a tornare indietro. Volendo però evitare il giro sul lato nord, mi avventurai sulle roccie che fiancheggiano la cascata, e vi errai lungo tempo poichè giungevo sempre sull’orlo di precipizii, finchè sul far della notte mi decisi a rimontare sulle rive del lago. Alle 21 splendeva la luna, ma non sentendomi la voglia di ritentare la discesa, mi adattai a passare la notte dove ero. Non tirava vento, ma faceva freddo, tanto che le piccole pozze attorno a me si ghiacciavano; non trovai legna di sorta, nè un riparo qualunque, la casa rovinata, di cui parlava ancora il Coolidge nel 1879, essendo scomparsa.

Certo è che quella notte mi parve interminabile; passai il tempo alla meglio, recitando, cantando, urlando o rodendo le mie scarse provviste, ma specialmente contemplando l’indicibile orrore di quel paesaggio. Chi ebbe la fortuna di vedere un simile spettacolo, non l’avrà certo potuto dimenticare: la luce chiarissima, ma fredda dell’astro notturno si diffondeva su quelle rocce massiccie, brulle, fantastiche, scintillava sui nevati e si rifletteva nel nero ed immobile specchio del lago; le ombre poi parevano abissi senza fondo.

Alle ore 4, tremante di freddo, mi rimisi in marcia, seguendo la sponda nord del lago, molto sassosa. Alle 7 giunsi sull’altura del Colle dell’Agnel (m. 2568), giusto al levar del sole, salutato da me con una gioia che mi fe’ capire il fervore dei selvaggi adoratori di quell’astro benefico. Ebbi una vista grandiosissima sul Clapier, sui ghiacciai della Maledìa e sulle erte rupi dell’Argentera; sarebbe però difficile di immaginare una scena più desolata, più priva di ogni segno di vita; il Lago Bianco, sebbene situato quasi 100 m. sotto il Lago Agnel, era ricoperto da una spessa crosta di ghiaccio.

Il Colle dell’Agnel è certo tra quelli, che da Tenda conducono ad Entraque, il più degno di essere attraversato, ma è piuttosto malagevole, privo di ogni sentiero, e la discesa verso il Lago Bianco è piuttosto ripida; fa uno strano effetto il vedere, in mezzo a quel paesaggio squallido e polare, un palo coll’iscrizione: «Caccia riservata a S. M. il Re.»

Fermatomi a prender qualche fotografia, tornai indietro e, rifacendo l’itinerario del giorno precedente, giunsi a Casterino nel pomeriggio ed a Tenda alle 19, quasi sfinito dal sonno, al quale non avevo potuto pensare per ben 68 ore.

Nel 1894 cominciai la mia prima grande gita li 27 agosto, rimontando molto lentamente da Tenda per le case di Maima; la Ripa di Berno e la Baissa dell’Urno al Colle del Sabbione (m. 2264); il sole era caldissimo e l’insolito peso che m’ingombrava le spalle mi fece impiegare oltre 12 ore a compire quell’itinerario che si può facilmente effettuare in 5. Sul colle trovai da dormire in un casolare nel quale entrai per un finestrino: dentro vi era molta paglia, cosicchè non ebbi a soffrire dal freddo.

Il 28, passai al Lago della Vacca, vicino al quale vidi un piccolo stagno rotondo, ancora mezzo riempito di neve ghiacciata: 3 altri laghetti trovansi proprio a nord del colle, non segnati sulla nuova carta, bene invece sulla carta sarda; i due stagni sul lato sud non hanno acqua nell’estate. Poi per facile sentiero guadagnai la larga depressione del Colle Vej del Bouc (m. 2620); da questo volgendo verso nord, feci in un’ora, senza disagio, la salita della Cima della Valletta Grande (chiamata semplicemente «della Valletta» sulla nuova carta; m. 2812), la cui larga cresta, tutta frantumata, domina le petraie ed i dorsi della Schietta.

Il panorama è esteso e molto interessante; ma, se si eccettua la pianura piemontese e le pendici imboschite attorno al Vallone di Casterino, la vegetazione arborea manca quasi intieramente al paesaggio, come le due case vicino al Lago Vej del Bouc sono quasi i soli segni di vita umana in quei dintorni. Verso nord-ovest la lunga cresta dentellata di Monte Carbonè, le cui cime per buon tratto conservano un’altezza pressochè uguale (il punto più alto, chiamato Punta del Cairas sulla carta sarda, misura m. 2828), copre gran parte delle Alpi Graie e Pennine, mentre il selvaggio gruppo dell’Abisso, verso sud, cela i monti di Tenda. Brevi tratti di pascoli e qualche lago danno a quella natura desolata un aspetto più ameno: ben altro doveva essere quando folti boschi nereggiavano su tutte quelle pendici! Fra i laghi merita speciale menzione il Carboné (m. 2621), di cui si vede l’estremità orientale; esso è dominato a nord da un contrafforte con culmine quasi rettilineo (m. 2721).

Tornato al colle, scesi per un sentiero, rovinato in qualche punto, sulle sponde del bel Lago Vej del Bouc (m. 2060), attorniato in gran parte da pascoli; preso un bagno nella sua freddissima acqua ed ammirato il circo romantico di monti rocciosi che ne forma il quadro, andai a bere del latte dai pastori del vicino gias; v’è anche una bella casa che probabilmente è un ricovero di caccia del Re Vittorio Emanuele, e più sotto vedonsi ancora gli avanzi di una strada quasi carreggiabile, mentre il sentiero attuale, sebbene buonissimo, non è molto largo. Alle 20 ero al gias Colomb (m. 1460), ove mi feci fare un lettuccio all’aria aperta, poichè colla notte bellissima non mi sorrideva di rinchiudermi nella fumosa capanna.

Il 29, lasciando ivi parte dei miei bagagli, presi la strada che pel gias Murajon sale fin sotto il Passo Pagarì, colla intenzione di visitare il Lago Bianco ed il ghiacciaio del Clapier; però a tale scopo avrei dovuto a metà cammino volgere verso est, ma accorgendomene troppo tardi, mi contentai di visitare il piccolo ghiacciaio che chiamerò «di Peirabroc», attorno al quale incontrai qualche passo sdrucciolevole. Una grandinata che poco dopo scoppiò mi costrinse a rifugiarmi sotto una roccia sporgente ed a rinunciare al progetto, del resto un po’ temerario, di passare lungo le scoscese pendici orientali per guadagnare il Lago Bianco. Tornai dunque indietro, visitando ancora, verso sera, la bella cascata che si trova nel fondo del vallone di Peirabroc (m. 1627) e vicino alla quale si svolge sulla pendice una strada di caccia, ora abbandonata. Dormii ancora vicino al gias Colomb.

Il giorno 30 scesi ad Entraque, e nella sera del 31 mi recai a Sant’Anna di Valdieri, ove pernottai nella Trattoria Piacenza.

Il 1º settembre rimontai il bellissimo Vallone di Meiris per strada quasi carreggiabile sino al Lago Sottano della Sella; verso il tocco ero al Lago Soprano, ed alle 14 giunsi nel vallone superiore, al punto dove comincia la salita del Colle di Valmiana. Il tempo si era fatto un po’ minaccioso, ma le nubi essendo più tardi svanite, mi decisi a compiere l’ascensione del Matto. Però, avendo scambiato un contrafforte a nord poco elevato per la vetta orientale, salii direttamente in quella direzione, finchè mi trovai su ripido ed instabile macereto; accortomi dell’errore, dovetti fare un lungo giro non troppo comodo, finchè giunsi all’estremità del grande nevato ovest del Matto; tentai di rimontarlo per guadagnare la sua parte media, ben poco inclinata, ma sotto a questa la neve era troppo dura e sdrucciolevole; scivolai allora giù, fermandomi ad un piccolo sasso isolato, senza il quale sarei andato a battere con tutta forza contro i massi che fiancheggiano il nevato. Seguendo allora l’orlo settentrionale di questo, guadagnai in breve tempo, dopo 2 ore ½ di ascensione, la punta Est del Matto (m. 3087), per una china di detriti. Su quel culmine v’era una temperatura straordinariamente mite (+12° alle ore 17); in alto correvano le nuvole, velate erano la pianura e le Alpi, fuorchè le Marittime; osservai anche un grandissimo arcobaleno doppio che innalzavasi dietro la Val Gesso. La sommità rocciosa non offre posto che per sei o sette persone; non vi cresce più nessun fiore. Messo nel segnale, allora rovinato, un biglietto col mio nome, mi separai a malincuore da quel grandioso paesaggio.

 

Tentai quindi, per risparmiar tempo, di scivolare giù pel grande nevato nella sua parte più stretta, ma acquistai subito una velocità tale da non poterla tollerare pel rimanente tratto; così mi fermai e seguii al passo le numerose concavità della superficie, in parte ripiene di acqua. Poi presi a scendere lungo un facile dorso di rocce montoni, credendo di poter poi raggiungere il laghetto inferiore del Matto: ma me ne separavano dappertutto muri verticali, e così dovetti risalire con perdita di tempo quel dorso e girare poi a nord finchè guadagnai il detto laghetto. Prima di raggiungerlo fui sorpreso dalla notte su quelle interminabili petraie; però, sebbene non potessi distinguere bene che gli oggetti più vicini, avevo osservate le particolarità di quella valle abbastanza bene per raggiungere, senza smarrirmi, alle ore 20 ½, la strada, al punto dove avevo lasciato parte de’ miei bagagli. Ivi era una specie di misero rifugio (circa m. 2450) costituito da un solo muro; sebbene non fosse troppo aggradevole il passare una notte affatto buia in quel deserto di sassi, privo di ogni albero e distante ben due ore dall’ultimo gias, mi vi rassegnai avviluppandomi bene nella mantellina e ficcando le gambe in una piccola cavità; così riuscii perfino a dormire un poco. È certo che tali avventure non bisogna cercarle, potendo esse anche finir male; ma stimolano in modo singolare l’energia morale.

Quanto all’ascensione del Matto, osservo che dal lato del vallone di Meiris, si può facilmente eseguire in 2 ore dal punto dove si lascia la strada, passando per le chine erbose a nord del laghetto inferiore e volgendo poi, dietro quello di mezzo, sul dorso di rocce montoni. Dal lato di Val Vallasco, si guadagna questo stesso dorso dal fondo del vallone Cabrera per mezzo di una ripida e franosa china sul lato est, ed è questo il solo punto non tanto facile, mentre nel vallone Cabrera conduce, dalla strada di caccia, un buon sentiero che se ne diparte circa mezz’ora sopra il gias Valmiana; è del resto l’itinerario descritto dal signor Marinelli («Boll. C. A. I.» vol. XII). È da notarsi che la strada di caccia non varca punto la depressione (circa m. 2650) che trovasi immediatamente ad ovest del gruppo del Matto; questo colle è invece abbastanza malagevole. Quanto a scendere direttamente dalla punta Est alle Terme di Valdieri, difficilmente vi si deciderà chi dal disopra ha visto quelle precipitose balze; però potrebbe riuscirvi piegando un certo tratto verso sud.

La testata di Val Vallasco dal Colle di Valmiana

Disegno di A. Viglino da una fotografia di F. Mader.


Il 2 settembre all’alba proseguii sulla strada, passando accanto ad una buonissima sorgente ferruginosa e guadagnando alle ore 8 il Colle di Valmiana (m. 2920) sul quale v’è un ricovero ben costrutto. Il passo forma un largo terrazzo franoso e non è che lo sperone occidentale della Rocca Valmiana (m. 2990), la cui cima Est si può guadagnare facilmente in ¾ d’ora, mentre la seconda punta, di qualche metro più alta e coronata da un segnale, è un po’ meno comoda. Ad est del passo, un muro quasi verticale scende verso i laghi del Matto. La vista, poco meno estesa dal Passo che dalla Rocca, non vale quella del Matto, ma è pure bellissima, specialmente sui monti e sui laghi del Vallasco, sul magnifico gruppo dell’Argentera, sulle Alpi Cozie e sul Matto stesso, che verso sud si prolunga dietro il burrone di Cabrera, con rocce nerastre di aspetto oltremodo fantastico. La strada è sempre larga e ben riconoscibile, cosicchè ci vorrebbe poco a renderla di nuovo praticabile ai cavalli. Il lato sud del passo è anch’esso orrido e roccioso, ma offre sempre bei punti di vista. Più volte colà incontrai camosci che non si curarono di me, cosicchè potevo ammirare la loro straordinaria agilità.


Baissa di Valmasca, crestone del M. Capelet e monti a ovest del Lago del Basto

Disegno di L. Perrachio da una fotografia di F. Mader.


Un amante della natura apprezzerà certo l’effetto del divieto di caccia nei distretti riservati a S. M. il Re, poichè vi prospera la vita animale, della quale nelle valli di Tenda non si vede quasi traccia. Sul Matto non è raro il vedere sino a cento camosci; in altri punti vidi stormi di pernici, francolini ed altri uccelli, poi anche marmotte che non fuggivano che quando ero molto vicino; i rivi sono singolarmente ricchi di ghiozzi. Però, eccetto qualche aquila ed un certo numero di timorose vipere, il solo animale dannoso che incontrai in queste Alpi, fu un lupo che nel 1891 vidi sotto di me, sulle sponde del Lago del Trem.

Incontrata una fresca sorgente sopra il gias Valmiana ed attraversato un bellissimo e profumato bosco di larici, giunsi verso mezzogiorno nel piano di Vallasco. Dopo un po’ di riposo, scesi alle Terme di Valdieri, e verso sera rimontai ancora, per un delizioso sentiero, attraverso il magnifico bosco della Stella, ad un gias (m. 1753) sul lato sud del Vallone di Lourousa, passando poi per un ponte sull’altro lato, vicino al gias inf. Lourousa, ma si può anche proseguire sulla sponda sud fino al gias Lacarot.

Non saprei troppo raccomandare, a chi dalle Terme vuol recarsi al Colle Chiapous o sulla Punta dell’Argentera, di servirsi del detto sentiero invece delle 35 giravolte della strada di caccia; risparmierà molto tempo, senza contare il pregio di un’ombra continua. Ridiscesi per lo stesso cammino alle Terme, ove giunsi alle 20, e di là in vettura proseguii per Sant’Anna.

Il 3 settembre per bellissimi castagneti salii sul monte l’Arp, a ponente di Valdieri, senza però guadagnarne la cima, poichè il cielo cominciava a velarsi. Raccomando ad ogni visitatore della Val Gesso la facilissima ascensione di questo monte, coperto in gran parte da praterie e da faggeti. Alto pressochè come il Righi (ha m. 1830), esso deve la sua bellissima vista meno all’altezza che alla sua posizione singolarmente favorevole, centrale ed isolata nello stesso tempo; se gli mancano attorno i grandi laghi, ha invece ai suoi piedi le larghe ed ubertose valli di Demonte, Desertetto, Valdieri, Entraque, Barra e Trinità, e gli è vicinissima la grande pianura, coronata da verdi colli; vedonsi numerosi villaggi, lo stabilimento delle Terme di Valdieri, i gruppi di Monte Bussaja, del Clapier, dei Gelas, dell’Argentera, di Oriol, del Matto, con tutti i loro particolari, la bella piramide della Cima del Lausetto, in gran parte rivestita da praterie, il Nodo del Mulo a nord della Val Stura, il Monviso, le Alpi Graie e Pennine, ecc. Nello stesso giorno tornai da Valdieri a Tenda.

Non feci più altra gita prima del giorno 20, nel quale partii alle ore 6 pel Vallone di Rio Freddo, giungendo alle 13 ½ sulla Cima di Marguareis83.

II.
Osservazioni topografiche e scientifiche

1) Monti, roccie, ecc

Della Cima di Marguareis e dei distretti rocciosi circostanti ho già data una descrizione abbastanza particolareggiata84, e, come dissi or ora, avrò occasione di riparlarne per ulteriori studi che vi feci in parecchie visite alla medesima.

Passando alle Alpi Marittime proprie, non dirò che poco sul gruppo del Clapier.—Il Clapier stesso (m. 3046) si presenta molto diversamente, secondo il punto da cui lo si vede. Dal lato di Tenda ha quasi l’aspetto di un cubo, e si vede, all’estremità Est cadente a picco, una punta secondaria alta 3000 m. circa che costituisce l’estremità del crestone orientale. Dal lato nord, figura come una piramide rocciosa molto regolare ed acuta, la suddetta punta secondaria rimanendo nascosta. Dal lato di Val Gordolasca, infine, presenta un dolce declivio terminantesi con un corno arrotondato.

Tutto il fianco sud, dai 2800 m. in su, è coperto da massi di gneiss bruno chiaro, cosicchè il monte merita bene il suo nome; non vi trovai, oltre ai licheni, altra pianta che qualche «Leucanthemum coronopifolium», fiore abbastanza comune anche nei bassi monti e che ivi cresce fin oltre ai 3000 metri. Il muro di roccia a nord del Clapier è molto simile a quello del Marguareis; visto dal Colle dell’Agnel, non mi parve più alto di 300 a 400 metri; dalle rocce sporgenti sotto il segnale, non si vede la base della parete; al di sotto si stende il grande nevato, in parte ghiacciato, di cui parleremo più avanti.

Non ebbi la fortuna di trovarmi sul Clapier col tempo sereno, ma confesso che non credo di aver perduto molto. Le catene delle Graie e Pennine offrono quasi lo stesso aspetto, viste dal Colle di Tenda o dietro a Cuneo, come dal Clapier, e del resto, tra queste cime tanto lontane, non spiccano in modo imponente che pochi gruppi molto nevosi, quali il Gran Paradiso ed il Monte Rosa; il solo picco abbastanza lontano che per se stesso appare maestoso è il Monviso, che si vede da quasi dappertutto; molto attraente è certo l’aspetto della pianura che non è troppo lontana, ma pure spesso velata dalle nebbie; però la si vede ben meglio dalla Besimauda o dal monte l’Arp. Quanto al mare, anche nei giorni più limpidi, mai non vidi—dai monti di queste Alpi, distanti almeno 30 chilometri dalla costa—altro che una specie di piano abbastanza stretto, in apparenza immobile, senza lustro ed il cui uniforme colore bigiastro spiccava sull’azzurro dell’orizzonte. È vero che il Freshfield, dalla Cima di Nasta, vide una cappella vicina a Cannes ed il fumo del treno che proseguiva verso Nizza; ma questo deve essere un caso ben raro! In generale nelle vedute di paesaggi così lontani, c’entra più l’immaginazione che l’occhio, e l’immaginazione la si ha anche quando la nebbia vela l’orizzonte. Per me, le parti più amene del panorama del Clapier sono il bel bacino di San Grato, coronato da prati e boschi, le foreste di castagni dietro a Belvedere, i verdi monti della Valmasca ed attorno a Tenda, e sette laghetti, fra altri il Lago Bianco coperto di «icebergs» e gran parte del Lago Lungo. Imponente è invece l’aspetto di tutte quelle giogaie, per lo più nude, rocciose ed oscure; specialmente distinguonsi l’altissima Serra dell’Argentera, la lunga cresta del Carbonè, i picchi della Lusiera e del Ciaminejas, il Bego simile ad un cupolone, il Capelet, la Cima dei Gelas e la Punta della Maledìa. Quest’ultima, chiamata Cima di Caire Cabret sulla carta sarda, e lasciata senza nome sulla nuova dell’I. G. M., che le dà però 3004 m. d’altezza, mi parve visibilmente più bassa del Clapier, mentre al rev. Coolidge parve un po’ più alta; il sig. Bozano ne diede una descrizione abbastanza particolareggiata nella «Rivista Mensile» del 1891, ritenendo che la quota di m. 3004 sia alquanto inferiore al vero.

 

Il gruppo del Clapier e dei Gelas dal Monte Bego

Disegno di A. Viglino da una sua fotografia presa d’inverno.


Questo picco, che si vede benissimo dal Lago Lungo e dal Lago Agnel, forma una cresta molto acuta e tagliata quasi verticalmente, così che, da nord e da sud si presenta quale piramide tronca, dai lati molto ripidi; dall’est e dall’ovest invece (anche dal Clapier) perfettamente quale obelisco: il muro verticale a nord, sopra il ghiacciaio della Maledìa, è alto pressochè 200 metri (Vedi l’incisione qui contro).

Fra gli altri monti di questo gruppo, oltre la Cima dei Gelas (3135 m.), abbastanza conosciuta, meritano speciale menzione i due picchi rocciosi della Lusiera (m. 2913 e 2897), singolarmente acuti e precipitosi, con creste dentellate85.

Anche le altre creste attorno ai laghi di Valmasca, ai laghi delle Meraviglie ed all’alta Valle della Gordolasca presentano forme oltremodo orride e fantastiche, cosicchè il Purtscheller le paragonò alle Alpi Dolomitiche, sebbene siano costituite tutte da schisti, da gneiss e da granito. Ripidissimo è il picco (m. 2600?) che s’innalza direttamente ad est della Vastera Barma: ma il monte più maestoso di tutto quel gruppo—non eccettuando il Gelas—è certo il Monte Capelet (m. 2927), che si presenta molto imponente dalla Cima del Diavolo, dal vallone di Mairis, dal Lago Lungo e dal Passo Pagarì, ma specialmente dalla giogaia occidentale di Val Gordolasca; la sua cresta frastagliata cade verso ovest con balze precipitose e nerastre, spesso velate dalle nebbie, ed alte circa 800 metri; si distinguono benissimo dai colli attorno a Nizza, di dove quel monte, colla Cima dei Gelas e la Punta dell’Argentera, sembra il gruppo più cospicuo di quelle Alpi.

Quanto alla Cima del Diavolo (m. 2687), così ben nominata a vederla dal macereto di Mairis, essa deve godere di un clima piuttosto mite, essendo protetta quasi affatto, verso nord, da monti più alti; infatti, le due volte che vi salii trovai l’aria tiepida e calma, e la flora vi è ancora veramente subalpina, crescendovi per esempio il «Veratrum album» ed il «Sempervivum arachnoideum». La vista è inferiore a quella del Bego verso nord ed est, ma certo più libera sugli altri lati; verso sud non si vede più nessun monte che ecceda i 2200 metri, e ciò produce un singolare fenomeno ottico; infatti gli altipiani boscosi e prativi del Raus, dell’Aution e di Milleforche (oltre 2000 m.) coi loro fortilizî, sembrano assai più bassi dei monti di Mentone, Monaco e Nizza (800 a 1500 m.) dai quali sono separati per mezzo di profonde valli; non meno curioso è il succedersi quasi interminabile di catene, sempre più lontane e meno distinte, verso ovest sin oltre alle sorgenti del Varo. La Valle dell’Inferno con cinque de’ suoi laghi appare piuttosto leggiadra, mentre asprissimo e severo è il carattere della profonda Val Gordolasca, coronata da rupi erte ed orride, simili ai paesaggi dei Tatra.


Punta della Maledìa e Cima del Murajon dal Passo del Pagarì.

Disegno di L. Perrachio da una fotografia di F. Mader.


Le catene sul lato nord delle Alpi Marittime, nelle Valli del Gesso, formano quasi tutte creste oltremodo precipitose e strette, acute quasi come coltelli e frastagliate come seghe; le creste sono spesso sostenute sui lati da contrafforti simili a bastioni, mentre l’ultimo sperone della cresta sembra una torre od un pane di zucchero. Le più caratteristiche fra tali creste, che assumono il nome di serre o serriera, sono quella del Carbonè, tra i valloni della Trinità e di Monte Colomb, poi quella tra i valloni della Ruina e della Barra, il cui punto culminante è la Punta Ciamberline (m. 2791).

La cresta dell’Argentera è di molto la più alta e la più maestosa delle Alpi Marittime; vista dall’Osservatorio di Nizza, dalla Valle del Varo e dalle cime ligustiche, essa appare già sensibilmente più elevata delle altre punte. Essa forma una sèrra molto sottile, lunga circa 1 km. e non mai più bassa di 3150 m., con 4 punte principali, tra le quali quella Sud (m. 3313) è la più alta, mentre delle due settentrionali quella Ovest ha sulla nuova carta (che la chiama Gelas di Lourousa) la quota di metri 3260; quella Est (il Monte della Stella di Isaia e Coolidge) sarebbe di altezza un po’ minore secondo quest’ultimo, mentre il sig. Isaia le dava 3271 m. Grandiosissimo è l’aspetto di questa giogaia dal Vallone di Lourousa, sul quale il Monte della Stella ergesi con parete quasi verticale, di aspetto oltremodo massiccio e liscio, alta ben 900 m.; essa è costituita da un granito bruno chiaro, e si estende per circa 2 chilometri fin oltre al Colle Chiapous.

Fra le altre cime di quel gruppo, la Cima del Baus (m. 3068), che torreggia sopra il Lago Brocan, colpisce più di tutte lo sguardo. Al di là del Colle Chiapous poi, ergesi il picco singolarmente aguzzo dell’Oriol (m. 2961). Faccio qui osservare che il signor Purtscheller86 dà questo nome alla punta occidentale più bassa (m. 2945) da lui ascesa per la prima volta e chiamata Punta dell’Asta sulla Carta Sarda; egli parla vagamente della vera Cima dell’Oriol come di un picco a sud (è invece ad est) dell’altra cima e che avrebbe il nome Letous. Vuole poi che la Cima dell’Asta (m. 2871) si trovi veramente al posto dove la carta ha segnata la Cima Dragonet (m. 2684); infatti, quest’ultima mi parve raggiungere almeno i 2880 m., ma però si trova—poco più a sud della «Cima dell’Asta» della carta—una punta secondaria poco meno alta, alla quale potrebbesi riferire la prima quota. Mentre tutte queste cime sono selvaggie e di accesso difficile, la Cima del Lausetto, che vicino ad Entraque raggiunge ancora i 2740 m., si presenta invece quale bella piramide molto regolare, con declivi piuttosto dolci.

Passiamo infine al Monte Matto, che, a vederlo sulla carta, si crederebbe una punta isolata alta m. 3087. Esso costituisce invece due creste molto ragguardevoli, il cui punto di congiunzione è il picco orientale al cui segnale si riferisce la detta quota delle carte; la prima cresta corre per circa 750 metri di lunghezza verso sud-ovest, raggiungendo circa 3095 m. con un largo massiccio granitico; e circa 3092 m. con un altro picco molto acuto, poi supera ancora i 3000 metri in almeno 4 punte secondarie, di cui la maggiore mi parve raggiunga ben 3050 m., e fra le quali trovansi insenature di poco rilievo; la cresta si termina con una specie di torre rocciosa tagliata a picco (circa m. 2950), sotto la quale roccie oltremodo orride, di color nerastro, scendono fra i valloncini di Cuogne e Cabrera. L’altra cresta invece corre per circa km. 1 ½ verso nord-ovest, superando i 3000 m. ancora in quattro o cinque spuntoni di roccia (il più alto sarà circa m. 3050) e terminandosi poi con due cime di altezza pressochè uguale, di cui la settentrionale (alla quale si riferisce la quota 2803 della carta) è tagliata a picco sul lato del Vallone di Meiris, formando un muro imponentissimo, verticale per ben 500 m. L’angolo fra le due creste, rivolto verso ovest, è riempito da un grande nevato, per lo più poco inclinato, che dà acque tanto al rio di Meiris che a quello di Cabrera (Vallasco); più sotto corre un dorso di roccie montoni che si estende fino alla stretta sella (m. 2650 circa) che separa il Matto dalla Rocca di Valmiana, di cui già parlai.

I pendii della punta orientale, coperta di massi di gneiss, verso nord (sul vallone del Latous), come anche le roccie che la continuano verso est—sino all’insenatura (circa m. 2450) che la separa dal gruppo della Merà—sono ripidissimi. Verso sud-est, il Matto forma il più alto e ininterrotto pendìo di tutte le Alpi Marittime, elevandosi senza alcun contrafforte a circa 1790 m. sopra la Valle del Gesso; la parte più alta è costituita da una parete ripidissima di granito bruno, massiccia, solcata appena da qualche burrone poco profondo, quasi priva di neve e di piante, alta ben 1200 m. Vale a dire che l’aspetto ne deve essere maestosissimo, però si deve salire assai alto sui monti ad est o nel Vallone di Lourousa per farsene un’idea giusta. Già il Freshfield chiamò il Matto una montagna singolare ed imponente, estremamente precipitosa, ma troppo piana ed uniforme al culmine per essere pittoresca; infatti, dall’est esso appare come una lunga serie di denti rocciosi, di altezza pressochè uguale e separati da selle poco profonde; inoltre, nel pomeriggio tutto il pendìo si trova nell’ombra ed appare scolorito e nero, tanto più che verso la sera quasi sempre le nebbie lo velano in parte, formando spesso una cappa sul culmine e dando al monte un aspetto misterioso, quasi diabolico.

83Di questa cima, poichè ebbi occasione di ritornarvi e di fare uno speciale e minuto studio della regione in cui sorge, mi riservo di trattarne in apposito articolo.
84Vedi “Riv. Mens. C. A. I.„ 1892, pag. 82.
85Vedi l’articolo di A. Viglino: Quattro giorni fra le Alpi Marittime, nella “Rivista Mensile„, vol. XIV (1895), pag. 460-469.
86Vedi “Boll. C. A. I.„ vol. XXVI, pag. 310.