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Ora e per sempre

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CAPITOLO SEI

Emily si svegliò tardi il terzo giorno. Era quasi come se il suo corpo sapesse che era lunedì e che lei sarebbe arrivata al lavoro di corsa come sempre, spintonando i pendolari per salire sulla metro, schiacciandosi tra adolescenti annoiati e mezzi addormentati che masticavano chewing gum e uomini d’affari con gomiti protesi come se si rifiutassero di cedere i loro documenti, e avesse deciso di meritarsi di restare a letto fino a tardi. Scostando le coperte, con la testa intontita e gli occhi appannati, si chiese quand’era stata l’ultima volta che aveva dormito fin dopo le sette del mattino. Probabilmente non lo faceva da quando aveva vent’anni, da prima di incontrare Ben, un periodo in cui le feste con Amy erano all’ordine del giorno.

Giù in cucina, Emily trascorse molto tempo a preparare il caffè con la caffettiera e a cucinare i pancake usando gli ingredienti che aveva comprato al negozio. Le riempì il cuore di piacere vedere le credenze ora traboccanti, sentire il ronzio del frigorifero. Per la prima volta da quando aveva lasciato New York, si sentì come se si fosse rimessa in sesto, almeno abbastanza da sopravvivere all’inverno.

Assaporò ogni boccone del pancake, ogni sorso di caffè, sentendosi riposata, calda e rinvigorita. Invece dei rumori di New York City, tutto quello che Emily poteva sentire erano le onde lontano dell’oceano che lambivano la terra, e uno sgocciolio delicato e ritmato come del ghiaccio che si stava sciogliendo. Si sentì in pace per la prima volta dopo tanto tempo.

Dopo la colazione rilassante, Emily pulì la cucina da cima a fondo. Strofinò ogni piastrella, rivelando l’intricato motivo William Morris sotto alla sporcizia, poi lucidò il vetro delle ante della credenza, facendo brillare i disegni in vetro colorato.

Esaltata dal fatto di aver reso la cucina in quello stato fantastico, Emily decise di affrontare un’altra stanza, una a cui ancora non aveva dato un’occhiata per paura che le sue pessime condizioni l’avrebbero sconvolta. Era la biblioteca.

La biblioteca era stata di gran lunga la sua stanza preferita da bambina. Adorava il modo in cui era divisa in due da porte scorrevoli in legno bianco in modo da potersi chiudere in un angolino per leggere. E certo adorava tutti i libri che conteneva. Il padre di Emily non faceva lo snob quando si trattava di libri. La sua idea era che ogni testo scritto valesse la pena di essere letto, e così le aveva permesso di riempire gli scaffali con romanzi rosa da teenager e tragedie studiate al liceo, con copertine kitsch che raffiguravano tramonti e profili di uomini muscolosi. A Emily venne da ridere quando tolse la polvere dai libri. Era come se un imbarazzante pezzo della sua storia fosse rimasto preservato. Se la casa non fosse stata disabitata così a lungo, sicuramente li avrebbe buttati via a un certo punto nel corso degli anni. Ma a causa delle circostanze erano rimasti lì, a raccogliere polvere mentre il tempo passava.

Rimise sullo scaffale il libro che teneva in mano con un senso di malinconia che le si fissava dentro.

Poi Emily decise di dare retta al consiglio dell’uomo e di salire nella mansarda per controllare i cavi. Se erano davvero danneggiati dai topi non era sicura di quale sarebbe stata la sua prossima mossa – spendere il denaro necessario per le riparazioni o resistere per il resto del tempo che avrebbe trascorso nella casa. Non sembrava ragionevole investire nella proprietà se contava di rimanerci per due settimane al massimo.

Tirò giù la scala a pioli retrattile, tossendo quando una nuvola di polvere cascò dall’oscurità sopra di lei, poi sbirciò attraverso lo spazio rettangolare che si era aperto. La mansarda non la spaventava quanto la cantina, ma il pensiero delle ragnatele e della muffa non le metteva un grande entusiasmo. Per non parlare dei potenziali topi…

Emily salì la scala con attenzione, molto lentamente, emergendo nella stanza un millimetro alla volta. Più in alto andava, più vedeva la mansarda. Era, come sospettava, colma di cose. I viaggi di suo padre ai mercatini dell’usato e alle fiere delle antichità spesso rendevano più cose di quante fosse possibile mettere in mostra nella casa, e sua madre aveva bandito alcune delle più brutte nella mansarda. Emily vide un comò in legno scuro che pareva avere duecento anni buoni, uno sgabello da cucito in pelle verde stinta, e un tavolino da caffè fatto di quercia, ferro e vetro. Rise, immaginandosi la faccia di sua madre quando il padre aveva portato tutta questa roba a casa. Era così lontana dal suo gusto! A sua madre piacevano le cose moderne, lucide e pulite.

Per forza avevano intenzione di divorziare, pensò Emily con sarcasmo. Se non riuscivano ad andare d’accordo neanche sull’arredamento, che speranza avevano di andare d’accordo su qualsiasi altra cosa!

Emily salì del tutto nella mansarda e si mise a guardarsi in giro in cerca di segnali di attività dei topi. Ma non trovò escrementi indicativi né cavi rosicchiati. Sembrava quasi un miracolo che non ci fossero orde di topi nella mansarda dopo così tanti anni di abbandono. Forse preferivano le case piene di vita dei vicini, con la loro costante scorta di briciole.

Soddisfatta che non ci fosse nulla di degno di nota nella mansarda, Emily si voltò per andarsene. Ma la sua attenzione venne catturata da un vecchio cassettone in legno fece riaffiorare un ricordo, riportandolo in superficie dal profondo di lei. Sollevò il coperchio e sussultò a vedere quel che c’era dentro. Gioielli; non veri, ma una collezione di grani e gemme, perle e cipree di plastica. Suo padre si assicurava sempre di portare qualcosa di “prezioso” a lei e a Charlotte e loro mettevano tutto nel cassettone, chiamandolo il cassettone dei tesori. Era diventato il pezzo forte di ogni gioco che facevano da bambine, di ogni storia che creavano.

Con il cuore che martellava per il vivido ricordo, Emily richiuse il coperchio e si alzò subito in piedi. Improvvisamente non se la sentiva più di esplorare.

*

Emily trascorse il resto della giornata a pulire, attenta a evitare ogni stanza che avrebbe potuto innescare un umore malinconico. Le sembrava una vergogna trascorrere il poco tempo che aveva soffermandosi sul passato, e se ciò voleva dire evitare certe stanze della casa allora l’avrebbe fatto. Se aveva potuto trascorrere tutta la sua vita evitando certi ricordi, poteva trascorrere qualche giorno evitando certe stanze.

Emily era finalmente riuscita a caricare il telefono e l’aveva lasciato sul tavolino di fronte al portone principale – l’unico posto in cui prendeva – perché le arrivassero tutti i messaggi che non aveva ricevuto durante il weekend. Rimase un po’ delusa nel vedere che ce n’erano solo due; uno da sua madre che la rimproverava di aver lasciato New York senza dirglielo, e uno da Amy che le diceva di chiamare sua madre perché stava facendo domande. Emily alzò gli occhi al cielo e rimise a posto il cellulare, poi andò in soggiorno dove era riuscita ad accendere il fuoco.

Si sistemò sul divano e sfogliò il romanzetto adolescenziale che aveva preso dallo scaffale della libreria. Leggere la rilassava, soprattutto quando non si trattava di qualcosa di faticoso. Ma questa volta non riuscì a concentrarsi. Tutta la storia sull’amore adolescenziale continuava a riportarla alle sue relazioni fallite. Se solo avesse capito da bambina la prima volta che aveva letto questi libri che la vita vera non aveva nulla a che fare con ciò che veniva raccontato in quelle pagine.

Proprio allora, Emily sentì bussare al portone. Seppe immediatamente che era Daniel. Non c’era nessun altro che avrebbe avuto una ragione per passare, nessun carpentiere, nessun imbianchino né falegname, e certo nessun uomo delle consegne delle pizza. Si agitò e andò nell’ingresso, poi gli aprì la porta.

Stava lì sulla soglia, illuminato alle spalle dalla luce del portico, con le falene che gli danzavano intorno.

“C’è la corrente,” disse indicando la luce.

“Sì,” disse lei con un largo sorriso, orgogliosa di aver raggiunto un obiettivo che lui sembrava così convinto che non avrebbe raggiunto.

“Immagino che ciò significhi che non ha più bisogno che le lasci la zuppa sulla porta,” disse.

Emily non capiva dal tono se si trattava di uno scambio di battute cordiale o se Daniel stesse usando la situazione come un’altra occasione per rimproverarla.

“No,” rispose, alzando la mano alla porta come per prepararsi a chiuderla. “C’era qualcos’altro?”

Daniel sembrava indugiare, come se avesse qualcosa in mente, delle parole che non sapeva come dire. Emily strinse gli occhi, sapendo, apparentemente in modo istintivo, che quello che avrebbe sentito non le sarebbe piaciuto.

“Be’?” aggiunse.

Daniel si grattò il retro del collo. “A dire il vero, be’, mi sono imbattuto in Karen oggi, quella del negozio di alimentari. Lei, ehm, non le ha fatto una buonissima impressione.”

“È venuto qui per dirmi questo?” chiese Emily, accigliandosi ulteriormente. “Che a Karen del negozio di alimentari io non piaccio?”

“No,” disse Daniel sulla difensiva, “In realtà ero venuto per sapere quando se ne andrà.”

“Oh be’, è davvero meglio, no?” ribatté Emily con sarcasmo. Non riusciva a credere a quanto cretino fosse Daniel, a venir lì per dirle che a nessuno piaceva per poi chiederle quando se ne sarebbe andata.

“Non volevo dire questo,” disse Daniel, sembrando esasperato. “Devo sapere quanto rimarrà qui perché tocca a me tenere la casa in piedi durante l’inverno. Devo drenare le tubature, spegnere la caldaia e fare un mucchio di cose. Voglio dire ha mai pensato a quanto le costerebbe scaldare questo posto per l’inverno?” Daniel osservò l’espressione di Emily, che gli diede la risposta di cui aveva bisogno. “Non credo.”

 

“È solo che ancora non ci ho pensato,” rispose Emily, cercando di giustificarsi dopo le accuse di lui.

“Ma certo che no,” rispose Daniel. “Se ne va a spasso per la città qualche giorno, fa qualche danno alla casa, e poi lascia che sia io a rimettere insieme i pezzi.”

Emily si stava innervosendo, e quando qualcuno la sfidava o la faceva sentire minacciata o stupida non poteva fare a meno di provare il bisogno di difendersi. “Sì, be’,” disse alzando la voce fino a urlare, “forse non me ne vado tra pochi giorni. Forse me ne sto qui tutto l’inverno.”

Chiuse di scatto la mascella, sconvolta di aver sentito quelle parole uscirle di bocca. Non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci prima di sputarle fuori, la bocca aveva fatto di testa sua.

Daniel la guardò sconcertato. “Non sopravvivrà mai in questa casa,” balbettò, scioccato dalla prospettiva che Emily restasse a Sunset Harbor, come sembrava voler fare. “La lascerà al verde. A meno che lei non sia ricca. E lei non sembra ricca.”

Emily indietreggiò davanti al sogghigno sul volto di lui. Non era mai stata così insultata. “Lei non sa niente di me!” urlò mentre le emozioni le tracimavano fuori in rabbia sincera.

“Ha ragione,” replicò Daniel. “Lasciamo le cose come stanno.”

Se ne andò ed Emily sbatté la porta. Rimase lì in piedi ad ansimare, con le vertigini per via dell’incontro acceso. Chi diavolo era Daniel per dirle quello che poteva o non poteva fare della sua vita? Lei aveva ogni diritto di stare nella casa di suo padre. A dire il vero, aveva più diritto di Daniel di farlo! Se qualcuno doveva essere infastidito dalla presenza di qualcun altro, quella doveva essere lei!

Fumando dalla rabbia, Emily camminava su e giù, facendo scricchiolare le assi del pavimento e alzando nubi di polvere. Non ricordava l’ultima volta che era stata così furiosa – persino quando aveva rotto con Ben e aveva lasciato il lavoro non aveva sentito quella lava bollente che le pulsava nelle vene. Smise di camminare, chiedendosi che cosa ci fosse in Daniel che la agitava così, che le rimescolava una passione furibonda dentro in un modo che il suo compagno in sette anni non era riuscito a fare. Per la prima volta da quando aveva incontrato Daniel, si chiese chi fosse, da dove venisse, cosa ci facesse là.

E se nella sua vita aveva qualcuno di speciale.

*

Emily trascorse il resto della serata riflettendo sul suo ultimo litigio con Daniel. Per quanto le avesse dato fastidio sentirsi dire che alla gente del paese non piaceva, e per quanto fosse stato frustrante condividere il suo spazio con lui, non poteva fare a meno di ammettere che si era innamorata della vecchia casa. Non solo della casa, ma della calma e del silenzio. Daniel aveva voluto sapere quando se ne sarebbe andata a casa, ma si stava rendendo conto di sentire questa come casa sua più di ogni altro luogo in cui aveva vissuto negli ultimi vent’anni.

Con l’entusiasmo che le crepitava nelle vene, Emily corse al telefonino davanti al portone e chiamò la banca. Arrivò al menu automatico, digitò i codici di sicurezza necessari e ascoltò la voce robotica che le diceva il suo saldo. Si appuntò la cifra su un pezzo di carta in equilibrio sul ginocchio, con il tappo della penna stretto tra i denti e il cellulare incastrato tra il collo e la spalla. Poi portò il foglio nel soggiorno e si mise a fare due conti: il costo dell’elettricità e del gasolio, il costo di internet e quello per l’installazione di una linea telefonica fissa, la benzina per la macchina, il cibo. Una volta finito, capì di avere abbastanza soldi per vivere lì per sei mesi. Aveva lavorato così tanto e così a lungo in una città che lo richiedeva da aver perso di vista il quadro completo. Ora aveva l’opportunità di fermarsi, di non far nulla per un po’. Sarebbe stata una stupida a non coglierla.

Emily tornò a sedersi contro il divano e sorrise a se stessa. Sei mesi. Poteva davvero farlo? Restare lì, nella vecchia casa di suo padre? Si stava davvero innamorando delle vecchie mura di una casa, anche se non ne sapeva la ragione, se fosse per i ricordi che le rimestava dentro o per il legame con il suo padre perduto, non poteva esserne certa.

Ma decise di scoprirlo, da sola, e senza l’aiuto di Daniel.

*

Emily si svegliò martedì mattina con un’energia che non sentiva da anni. Aprendo le tende, vide che la neve se n’era quasi del tutto andata, svelando la verde erba incolta sui terreni attorno alla casa.

Invece della colazione indolente del giorno prima, Emily mangiò veloce e mandò giù il caffè in un sorso, prima di mettersi subito al lavoro. Le forze che aveva sentito durante le pulizie il giorno prima sembravano migliaia di volte più intense oggi, ora che sapeva che non sarebbe rimasta solo per una vacanza ma che si stava sistemando la casa per i sei mesi successivi. Se n’era andato anche il claustrofobico senso di nostalgia che aveva provato, la forte sensazione che nulla dovesse essere toccato, o spostato, o cambiato. Prima le era sembrato che la casa dovesse essere conservata o ripristinata nel modo in cui suo padre l’aveva voluta. Ma adesso sentiva che le era permesso metterci mano. Il primo passo per farlo era passare al setaccio gli ammassi di averi che suo padre aveva ammucchiato e dividere la spazzatura dalle cose di valore. La spazzatura, come i suoi ammassi di romanzetti estivi.

Emily corse in biblioteca, pensando che fosse un posto buono come un altro da dove cominciare, e raccolse tra le braccia i libri prima di portarli fuori, camminare sull’erba umida e gettarli sul marciapiede. Dall’altra parte della strada c’era una spiaggia rocciosa inclinata sull’oceano, ad appena una novantina di metri di distanza, e il lontano porto vuoto.

Fuori faceva ancora molto freddo – abbastanza freddo da trasformarle il respiro in spirali di vapore – ma c’era un brillante sole invernale che cercava di scaldare attraverso le nuvole. Emily tremava mentre proseguiva, poi vide per la prima volta da quando era arrivata che c’era un’altra persona sul marciapiede. Era un uomo con barba e baffi castani, che si trascinava dietro un bidone della spazzatura. Le ci volle un attimo per capire che doveva vivere nella casa accanto – un’altra villa vittoriana come quella di suo padre, ma in condizioni decisamente migliori – e cercò di ricatalogarlo nella testa come vicino. Si fermò, guardandolo sistemare il bidone vicino alla cassetta della posta e poi raccogliere le lettere – abbandonate lì dentro da giorni grazie alla bufera di neve – prima di attraversare a passo svelto il prato ben curato e risalire i gradini del suo enorme portico in legno. A un certo punto, Emily avrebbe dovuto presentarsi. Però, se piaceva così poco alla gente come le aveva detto Daniel, forse non era proprio una priorità.

Mentre riattraversava il prato, Emily fece un grande sforzo per non guardare verso la rimessa, anche se poteva sentire l’odore di fumo che veniva da lì e anche se sapeva che Daniel era sveglio. Non aveva bisogno che lui venisse qui a ficcare il naso nei suoi affari, a prenderla in giro, e così tornò veloce dentro casa per cercare altre cose che dovevano essere buttate.

La cucina era piena di spazzatura – utensili arrugginiti, scolapasta con i manici rotti, padelle con i fondi bruciati. Emily riusciva a capire perché sua madre fosse così frustrata da suo padre. Non era stato solo un collezionista di antichità o un appassionato di affaroni, era stato un accumulatore compulsivo. Forse l’amore di sua madre per la pulizia e il disinfettante era stato causato da suo padre.

Emily riempì un intero bidone di cucchiai piegati, stoviglie scheggiate e vari gadget da cucina inutili come i timer a forma di uovo. Poi c’erano tre risme di carta forno, stagnola per le teglie, rotoli da cucina e ogni sorta di attrezzatura elettrica. Emily contò cinque frullatori, sei sbattitori elettrici e quattro tipi diversi di bilance. Raccolse tutto e lo portò in braccio al marciapiede, dove gettò tutto con il resto della spazzatura. Stava diventando un bel mucchio. L’uomo con i baffi era di nuovo fuori sul portico, seduto su una sedia a sdraio, a guardarla, o, più specificatamente, a guardare l’ammasso di spazzatura che stava crescendo lentamente sul marciapiede. Emily ebbe l’impressione che non fosse per nulla infastidito dal suo comportamento e quindi gli fece un cenno che sperò sembrasse cortese prima di tornare in casa e continuare la sua epurazione.

A mezzogiorno Emily sentì il suono di un motore che scoppiettava. Corse fuori, entusiasta all’idea di ricevere il tecnico che le avrebbe collegato la linea telefonica e internet.

“Salve,” disse raggiante dalla porta.

La giornata si era schiarita anche più di quanto avesse previsto, e riusciva a vedere la luce del sole luccicare sull’oceano anche da questa distanza.

“Salve,” rispose l’uomo, chiudendo la portiera del furgone. “Di solito i clienti non sono così felici di vedermi.”

Emily fece spallucce. Mentre guidava l’uomo dentro casa, sentì gli occhi di quello con i baffi che la seguivano. Lascialo guardare, pensò. Niente l’avrebbe depressa. Era orgogliosa di se stessa per aver provveduto a ogni necessità. Installato internet, sarebbe stata in grado di ordinarsi le cose di cui aveva bisogno. In effetti, avrebbe ordinato un intero negozio online per evitare di incontrare ancora Karen. Se alla gente del paese non piaceva, allora non le avrebbe dato fastidio.

“Vuole del tè?” chiese all’uomo. “Caffè?”

“Sarebbe fantastico,” rispose chinandosi e aprendo la sua scatola degli attrezzi nera. “Caffè, per favore.”

Emily andò in cucina e preparò una nuova caffettiera mentre dall’ingresso si sentiva il trapano. “Spero che lo voglia nero,” disse. “Non ho crema.”

“Nero va bene!” le urlò in risposta l’uomo.

Emily si annotò mentalmente di mettere la crema nella lista della spesa, poi versò due tazzine di caffè bollente, una per il tecnico e una per sé..

“Si è appena trasferita?” le chiese mentre lei gli porgeva la tazzina.

“Più o meno,” rispose. “Era la casa di mio padre.”

Lui non chiese altro, chiaramente desumendo che le fosse stata lasciata in eredità o una cosa del genere. “Il sistema elettrico è un po’ scadente,” disse. “Immagino che non prenda la tv via cavo qui né altro.”

Emily rise. Se avesse visto la casa appena tre giorni prima non avrebbe neanche avuto bisogno di porre quella domanda. “Assolutamente no,” rispose gioviale. Suo padre aveva sempre detestato la tv e l’aveva vietata in casa. Voleva che le sue figlie si godessero l’estate, non che se ne stessero sedute a guardare la tv mentre il mondo passava loro accanto.

“Vuole che gliela colleghi?” disse l’uomo.

Emily fece una pausa, prendendo in considerazione la domanda. Aveva avuto la tv via cavo a New York. In effetti era stata uno dei piaceri della sua vita. Ben l’aveva sempre presa in giro per i suoi gusti televisivi, ma Amy condivideva la sua stessa passione per i reality show e così ne parlava con lei. Era diventato un punto di scontro, uno dei tanti, nella loro relazione. Ma alla fine Ben aveva accettato che se lui trascorreva tutti i weekend a guardare lo sport lei poteva guardare la nuova stagione di America’s Next Top Model.

Da quando era arrivata nel Maine a Emily non era mai venuto in mente che si stava perdendo tutti i suoi programmi preferiti. E adesso l’idea di far entrare di nuovo quella robaccia dentro la sua vita le sembrava strana, come se in qualche modo avrebbe macchiato la casa.

“No, grazie,” rispose, un po’ scioccata di scoprire che la dipendenza da tv era stata curata solamente uscendo da New York.

“Okay, be’, ho finito. La linea telefonica è installata ma dovrà procurarsi un ricevitore.”

“Oh, ne ho un centinaio,” rispose Emily non eccedendo per difetto – ne aveva trovato una scatola piena della mansarda.

“Ottimo,” rispose il tizio, un po’ confuso. “Internet c’è e funziona anche quello.”

Le mostrò il modem e le lesse a voce alta la password scritta sul retro, in modo che potesse collegare il cellulare a internet. Non appena fu connesso, il telefono, con sua grande sorpresa, cominciò a vibrare per un’ondata costante di email in arrivo.

Gli occhi le si appannavano mentre il conteggio in angolo continuava a salire. Tra lo spam e le email dalle mailing list delle sue aziende di abbigliamento preferite, c’erano manciate di email serie dalla sua vecchia azienda che riguardavano “l’interruzione” del suo contratto. Emily decise che le avrebbe lette più tardi.

 

Una parte di lei sentì la sua privacy invasa da internet, dalle email, e immediatamente desiderò i giorni passati in cui ne era priva. Rimase sorpresa nel vedere la sua reazione, dato quanto era stata dipendente dalle email, dal telefonino, quasi incapace di funzionare senza di loro. Adesso, con sua grande sorpresa, ne era davvero infastidita.

“Qualcuno è famoso,” disse il tecnico, ridacchiando mentre il telefono le vibrava ancora per un’altra email in arrivo.

“Una cosa del genere,” borbottò Emily rimettendo il telefono sul tavolino dell’ingresso. “Grazie, comunque,” aggiunse voltandosi verso il tecnico mentre apriva il portone. “Sono davvero felice di essere connessa di nuovo alla civiltà. Ci si può isolare parecchio qui.”

“Si figuri,” rispose facendo un passo fuori. “Oh, e grazie per il caffè. Era davvero fantastico. Dovrebbe aprire un bar!”

Emily lo salutò, rimuginando sulle parole che aveva detto. Forse avrebbe proprio dovuto aprire un bar. Non ne aveva visto neanche uno nella strada principale, mentre a New York ce n’era uno a ogni angolo. Riusciva a immaginare la faccia di Karen se avesse deciso di aprire una sua attività.

Emily tornò al lavoro di pulizia della casa, aggiungendo altra roba all’ammasso sul marciapiede, grattando superfici e spolverando credenze. Trascorse un’ora nella sala da pranzo, spolverando i quadri e i soprammobili delle vetrinette. Ma proprio quando sentì di essere a buon punto, tirò giù un arazzo per scuotergli di dosso la polvere e vide che dietro c’era una porta.

Emily si bloccò, fissando la porta con profondo cipiglio. Non ne aveva il benché minimo ricordo, sebbene fosse certa che una porta segreta nascosta dietro un arazzo sarebbe stato il tipo di cosa che avrebbe adorato da piccola. Provò a girare la maniglia ma vide che era bloccata. Tornò nella dispensa e prese una bomboletta di idrorepellente WD-40. Dopo aver oliato la maniglia della porta segreta finalmente riuscì a girarla. Ma anche la porta era bloccata. La prese a spallate una volta, due, tre. La quarta volta sentì che cedeva, e con un’ultima spinta fortissima aprì la porta.

Davanti a lei si aprì l’oscurità. Cercò a tentoni un interruttore ma non lo trovò. Sentiva l’odore della polvere che spessa le entrava nei polmoni. Il buio e l’inquietudine le ricordavano la cantina e corse a prendere la lanterna che Daniel le aveva dato il primo giorno. Illuminando il buio trasalì nel vedere ciò che aveva davanti.

La stanza era enorme, ed Emily si chiese se un tempo non fosse stata una sala da ballo. Adesso, però, era piena di roba, come se fosse stata trasformata in un'altra mansarda, in un altro posto dove buttare le cianfrusaglie. C’era una vecchia rete da letto in ottone, un armadio rotto, uno specchio spaccato, un orologio a pendolo, molti tavolini da caffè, una libreria gigantesca, un’alta lampada ornamentale, panche, divani, scrivanie. Spesse ragnatele attraversavano tutti i pezzi come fili che legavano tutto insieme. Sbalordita, Emily camminò piano per la stanza, con la luce della lanterna nelle mani che svelava la carta da parati ammuffita.

Cercò di ricordare se ci fosse stato un tempo in cui quella stanza era stata usata, o se la porta era nascosta dall’arazzo quando suo padre aveva acquistato la casa e se quindi non aveva mai scoperto la stanza segreta. Non le sembrava plausibile che suo padre non ne sapesse nulla, ma lei proprio non se la ricordava e perciò doveva essere stata chiusa prima della sua nascita. Se era così, allora tutta quell’ala della casa era stata abbandonata molto prima di qualsiasi altra parte, per un periodo indeterminato di tempo.

A Emily venne in mente che ci sarebbe voluta ancora più fatica per pulire la casa di quanto avesse previsto in precedenza. Era esausta dal lavoro di quella giornata e ancora non era arrivata al piano di sopra. Certo, poteva semplicemente chiudere la porta e fingere che la sala da ballo non esistesse, come evidentemente aveva fatto suo padre, ma l’idea di riportarla alla sua vecchia grandiosità era troppo attraente. Poteva immaginarsela così chiaramente nella testa; le assi del pavimento lucidate e splendenti, un lampadario che pendeva dal soffitto; lei avrebbe indossato un abito da sera in seta, con i capelli cotonati in stile anni Sessanta; e avrebbero volteggiato, ballando il valzer insieme sul pavimento della sala, lei e l’uomo dei suoi sogni.

Emily guardò ai pesanti e massicci oggetti nella stanza – divani, doghe di metallo, materassi – e capì che non c’era modo che fosse capace di spostarli con le sue mani, di sistemare la sala da ballo da sola. Risistemare la casa era un lavoro per due.

Anche se aveva deciso di non ricorrere al suo aiuto, Emily dovette ammettere per la prima volta di aver bisogno di Daniel.

*

Emily uscì a passo svelto dalla casa, preventivamente frustrata dalla conversazione che avrebbe avuto. Era una persona molto orgogliosa e l’idea di chiedere aiuto a Daniel, tra tutti, la irritava.

Attraversò il cortile sul retro verso la rimessa. Per la prima volta la neve si era sciolta abbastanza da darle uno scorcio chiaro della sua terra e capì quanto bene fosse tenuta, qualcosa di cui chiaramente si occupava Daniel. Le siepi erano state potate con cura e c’erano aiuole di fiori delimitate dai ciottoli. Riusciva a immaginare quanto dovesse essere bello in estate.

Daniel sembrava aver sentito che stava arrivando, perché quando alzò lo sguardo dalla siepe per riportarlo sulla rimessa, vide che la porta era aperta e che lui stava lì con la spalla appoggiata sull’uscio. Riusciva già a leggere la sua espressione. Diceva, “Vieni a strisciare?”

“Ho bisogno del suo aiuto,” disse, senza neanche degnarsi di salutarlo.

“Oh?” fu la sua unica risposta.

“Sì,” disse bruscamente. “In casa c’è una stanza che ho scoperto ed è piena di mobili troppo grandi perché io possa sollevarli. La pagherò per aiutarmi a spostare tutto.”

Daniel chiaramente non sentiva il bisogno di rispondere subito. In effetti non sembrava seguire per nulla le regole della normale etichetta sociale.

“Mi ero accorto che stava facendo un po’ di pulizie,” disse alla fine. “Per quanto pensa di lasciar lì quel mucchio di roba? Lo sa che i vicini si innervosiranno.”

“Lasci il mucchio a me,” rispose Emily. “Ho solo bisogno di sapere se verrà ad aiutarmi.”

Daniel incrociò le braccia, prendendosi il suo tempo, lasciandola cuocere a fuoco lento. “Di quanto lavoro parliamo?”

“A essere sincera,” disse Emily, “non si tratta solo della sala da ballo. Voglio pulire l’intera casa.”

“Ambizioso,” replicò Daniel. “E inutile, considerando che rimarrà qui solo due settimane.”

“A dire il vero,” disse Emily prolungando le parole per rimandare l’inevitabile, “Resto per sei mesi.”

Emily sentì una pesante tensione nell’aria. Era come se Daniel si fosse scordato di respirare. Sapeva che non le era particolarmente affezionato, ma sembrava una reazione esagerata da parte sua, come se qualcuno gli avesse annunciato un lutto. Che la sua presenza nella sua vita potesse causargli una tale palpabile sofferenza seccò Emily in modo incommensurabile.

“Perché?” chiese Daniel, con una profonda ruga che gli segnava la fronte.

“Perché?” sputò fuori Emily. “Perché è la mia vita e ho ogni diritto di vivere qui.”

Daniel si accigliò, improvvisamente confuso. “No, voglio dire, perché lo fa? Perché si sobbarca tutta questa fatica per sistemare la casa?”

Emily non aveva una risposta, o almeno non ne aveva una che avrebbe soddisfatto Daniel. Lui la vedeva solo come una turista, una che se ne era venuta tranquillamente in paese dalla città, che faceva un casino, e che poi se la svignava per tornare alla sua vecchia vita. Pensare che a lei potesse piacere una vita più semplice, che potesse avere una buona ragione per fuggire dalla città, era chiaramente più di ciò che potesse comprendere.