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Ora e per sempre

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Ora e per sempre
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Czyta Manuela Farina
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“Stavo…” balbettò. “Ero venuta per…” La sua voce si strascicava.

“Chiedere un po’ di zuppa?” suggerì Daniel.

Emily si riscosse. “No. Perché lo pensava?”

Daniel le diede un’occhiata tra il divertito e il biasimevole. “Perché sembra mezza morta di fame.”

“Be’, non è così,” rispose Emily bruscamente, di nuovo infuriata per la supposizione di Daniel che lei fosse debole e incapace di prendersi cura di se stessa, per quanto avesse ragione. Odiava il modo in cui Daniel la faceva sentire, come se fosse una specie di stupida bambina piccola. “In realtà ero venuta per chiederle della corrente,” chiese. Non era che una mezza bugia; aveva davvero bisogno della corrente, a un certo punto.

Non ne era certa, ma pensò di vedere un lampo di disappunto negli occhi di Daniel.

“Posso sistemargliela domani,” disse con tono sprezzante, un tono che le diceva che la voleva via di lì e fuori dalle scatole.

Emily si sentì improvvisamente molto goffa, e preoccupata di aver detto qualcosa che l’aveva fatto arrabbiare. “Senta, perché non viene da me per un tè?” disse con esitazione. “Per ringraziarla di aver spalato il vialetto e per la consegna del gasolio. E per scusarmi per prima.” Sorrise piena di speranza.

Ma Daniel non si muoveva. Incrociò le braccia e alzò un sopracciglio. “Si aspetta che io voglia venire da lei? Che c’è, perché ha la casa più grande crede che tutti ci vogliano venire?”

Emily fece una smorfia, mentre la confusione le si gonfiava dentro. Non sapeva cosa avesse detto per giustificare la risposta di Daniel, ma non era pronta per un’altra conversazione esasperante con lui. “Lasciamo perdere,” borbottò.

Girò sui tacchi e se ne andò con passo pesante, tanto infastidita da sé e dal suo stesso comportamento quanto lo era da Daniel.

Ma pochi istanti dopo quando crollò davanti al fuoco, con lo stomaco che brontolava dalla fame, sentì un rumore come di passi venire dal portone. Lo riconobbe subito – lo stesso rumore che aveva sentito la notte precedente – e seppe che voleva dire che Daniel le aveva lasciato un altro regalo.

Corse alla porta, col cuore martellante, e la aprì di botto. Daniel era già scomparso. Emily guardò giù e vide che sulla soglia c’era un thermos. Lo raccolse, svitò il tappo e annusò. Sentì subito lo stesso aroma delizioso che veniva dalla casa di Daniel. Le aveva lasciato un po’ di zuppa.

Incapace di respingere le richieste del suo stomaco, Emily afferrò la zuppa e la divorò. Aveva un sapore fantastico, come niente che avesse mai mangiato prima. Daniel doveva essere un cuoco incredibile, un altro talento che andava ad aggiungersi alla pletora che già aveva. Musicista, lettore avido, cuoco e tuttofare – nonché arredatore di buon gusto – i talenti di Daniel si stavano davvero ammucchiando.

*

Quella notte Emily si raggomitolò nel letto della camera principale, più comoda di quanto fosse stata la notte precedente. Aveva pulito le coperte e spolverato ogni angolo della stanza, togliendole l’odore dell’abbandono. Era bello avere la casa in una sorta di condizione vivibile – anche se alcuni termosifoni non funzionavano ancora bene. Ma sapere di aver portato a termine qualcosa, di essersi tenuta in piedi da sola per la prima volta negli ultimi sette anni, la rendeva davvero orgogliosa. Se solo Ben avesse potuto vederla adesso! Si sentiva davvero diversa dalla donna che era quando stava con lui.

Per la prima volta da tanto tempo, Emily non vedeva l’ora che arrivasse il domani e ciò che il nuovo giorno le avrebbe portato: nello specifico, la corrente. Se avesse avuto un frigorifero e un forno funzionanti avrebbe potuto finalmente cucinare. Forse anche ripagare i favori che Daniel le aveva fatto preparandogli un pasto. Voleva sistemare le cose con lui almeno prima di andarsene, dato che praticamente era piovuta nella sua vita per portarci il caos.

Più Emily pensava alla prospettiva di tornare a casa, più capiva che non voleva farlo. Nonostante le difficoltà e le tribolazioni con cui aveva già dovuto fare i conti negli ultimi due giorni in quella casa, sentiva di avere un obiettivo qui, cosa che non aveva da anni.

Che cos’aveva di preciso a New York per cui valesse la pena ritornare? C’era Amy, certo, ma lei aveva la sua vita e non erano disponibile tanto spesso. Emily pensò allora che forse sarebbe stata una bella idea allungare un po’ la sua vacanza. Un lungo weekend nella casa era difficile che bastasse a sistemare tutto, e sarebbe stato uno spreco di energia far funzionare la corrente se poi doveva fare le valigie e ripartire di lì a poco. Una settimana sarebbe stata meglio. E poi doveva davvero conoscere a fondo la casa casa e il Maine, ricaricare davvero le batterie e prendersi del tempo per capire ciò che realmente voleva.

Nella vecchia camera dei suoi genitori si sentiva comoda e a suo agio, ed Emily venne colta da un improvviso ricordo di quando veniva qui da piccola, ad accoccolarsi tra di loro e ascoltare suo padre leggerle delle storie. Era qualcosa di cui avevano fatto un’abitudine, un modo per lei di sentirsi vicina ai suoi che sembravano, nella sua giovane mente, preoccupati della sua nuova sorellina, Charlotte. Solo attraverso i suoi occhi di adulta, Emily capì che non era tanto la preoccupazione nei confronti di Charlotte a impensierirli, quanto il rendersi conto che il loro matrimonio era spacciato.

Emily scosse la testa, non volendo ricordare, non volendo rivivere quei ricordi che aveva bandito da molti anni. Ma per quanto ci provasse, non riusciva a impedire che le si riversassero nella mente. La stanza, la casa, i ninnoli disseminati qua e là le ricordavano suo padre, tutti culminavano nella sua mente, riportandole alla memoria terribili ricordi che si era sforzata tanto di dimenticare.

I ricordi di come le storie narrate nella grande camera da letto principale un tragico giorno erano finite brutalmente; il giorno in cui la vita di Emily era cambiata per sempre, il giorno in cui il matrimonio dei suoi aveva fatto i conti con la sua finale e imbattibile tempesta.

Il giorno in cui sua sorella era morta.

CAPITOLO CINQUE

Dopo una notte di sonno profondo e pieno di sogni, Emily si svegliò con il caldo sulla pelle. Era così strano ormai per lei non sentire freddo che scattò a sedere, subito in allerta, per scorgere un frammento di luminosa luce del sole che si diffondeva da una fessura delle tende. Si riparò gli occhi scendendo dal letto e andò alla finestra. Tirando le tende Emily gioì della vista che le si apriva di fronte. C’era il sole, e si rifletteva brillantemente sulla neve, che si scioglieva veloce. Sui rami degli alberi vicini alla finestra, Emily vide gocce d’acqua che scendevano una a una dai ghiaccioli, e la luce del sole che le trasformava in gocce di arcobaleno. La vista le tolse il fiato. Non aveva mai visto nulla di così bello.

La neve si era sciolta abbastanza da far sì che Emily decidesse che ora era possibile avventurarsi in città. Aveva così tanta fame, come se la consegna della zuppa da parte di Daniel del giorno prima le avesse risvegliato l’appetito che aveva perso dopo il dramma della rottura con Ben e il licenziamento. Indossò i jeans e una t-shirt, e poi la giacca elegante sopra al top perché era l’unica cosa che aveva assomigliasse un po’ a un cappotto. Era un po’ strana nel complesso, ma pensò che la maggior parte della gente avrebbe comunque guardato la straniera con il catorcio parcheggiato abusivamente davanti alla casa abbandonata, quindi la sua tenuta era l’ultimo dei suoi problemi.

Emily scese veloce i gradini fino all’ingresso, poi spalancò il portone sul mondo. Il caldo le baciò la pelle e sorrise a se stessa, sentendo un’ondata di gioia.

Seguì il sentiero che Daniel aveva scavato lungo la via e seguì la strada che portava all’oceano dove ricordava dovessero esserci i negozi.

Mentre passeggiava, fu un po’ come tornare indietro nel tempo. Il luogo era del tutto immutato, gli stessi negozi che c’erano vent’anni prima svettavano ancora orgogliosi. La macelleria, il panificio, era tutto come se lo ricordava lei. Il tempo li aveva cambiati, ma solo nelle piccole cose – le insegne erano più vistose, per esempio, e i prodotti all’interno erano più moderni – ma sembravano gli stessi. Era tutto molto caratteristico – e ne gioì.

Emily era così assorta che non notò il pezzo di ghiaccio sul marciapiede davanti a lei. Ci scivolò sopra e cadde distesa a terra.

Senza fiato, distesa sulla schiena, gemeva. Sopra a lei apparve un viso, vecchio e gentile.

“Le serve una mano?” chiese il signore, allungando un braccio.

“Grazie,” rispose Emily accettando la sua gentile offerta.

La rimise in piedi. “Si è fatta male?”

Emily fece scrocchiare il collo. Era dolente, ma era impossibile capire se fosse per la caduta dalla credenza della lavanderia di ieri o per la scivolata sul ghiaccio di oggi. Avrebbe voluto non essere così imbranata.

“Sto bene,” rispose.

L’uomo annuì. “Ora, vado subito al punto. Lei è quella che sta alla vecchia casa sulla West Street, vero?”

Emily sentì l’imbarazzo strisciarle dentro. La metteva a disagio essere al centro dell’attenzione, la fonte del gossip da paesino. “Sì.”

“Allora ha comprato la casa di Roy Mitchell?” chiese.

Emily si bloccò al sentire il nome di suo padre. Che l’uomo che le stava di fronte lo conoscesse le fece barcollare il cuore con una strana sensazione di dolore e speranza. Esitò un momento, cercando di orientarsi, di ricomporsi.

“No, io, ehm, sono la figlia,” balbettò alla fine.

Gli occhi dell’uomo si spalancarono. “Allora tu devi essere Emily Jane,” disse.

 

Emily Jane. Era un nome irritante per lei. Non veniva chiamata così da anni. Era il nomignolo con cui la chiamava suo padre, un’altra cosa che era scomparsa dalla sua vita improvvisamente il giorno in cui Charlotte era morta.

“Solo Emily, adesso,” replicò.

“Be’,” disse l’uomo guardandola bene, “sei cresciuta adesso, eh?” Rise in modo gentile, ma Emily era rigida, come se la sua capacità di sentire le fosse stata succhiata via, lasciandole un buco nero nello stomaco.

“Posso chiederle chi è?” chiese. “Come conosce mio padre?”

L’uomo ridacchiò ancora. Era amichevole, una di quelle persone che riescono facilmente a mettere gli altri a loro agio. Emily si sentiva un po’ in colpa per la sua rigidità, per la scontrosità newyorkese che aveva acquisito negli anni.

“Io sono Derek Hansen, il sindaco. Io e tuo padre eravamo amici. Andavamo a pescare insieme, giocavamo a carte. Sono stato a cena da voi molte volte ma sono sicuro che eri troppo piccola per ricordartene.”

Aveva ragione, Emily non se ne ricordava.

“Be’, è un piacere conoscerla,” disse, desiderando interrompere subito la conversazione. Che il sindaco si ricordasse di lei, cose che lei non ricordava, la faceva sentire strana.

“Anche per me,” rispose il sindaco. “E dimmi, Roy come sta?”

Emily si irrigidì. Allora lui non sapeva che suo padre un giorno aveva preso e se n’era andato. Dovevano aver pensato che avesse smesso di venire alla casa per le vacanze. Perché avrebbero dovuto pensare qualcos’altro? Persino un buon amico, come Derek Hansen diceva di essere, non avrebbe dovuto necessariamente pensare che una persona fosse scomparsa nel nulla per non tornare mai più. Non era il primo pensiero che faceva il cervello. Certamente non era stato il primo pensiero di Emily.

Emily vacillò, non sapeva come rispondere a quella domanda apparentemente innocua eppure incredibilmente esplosiva. Divenne conscia del fatto che stava cominciando a sudare. Il sindaco la guardava con un’espressione strana.

“È morto,” disse senza riflettere, sperando che la risposta avrebbe messo fine alle domande.

Così fu. L’espressione dell’uomo si fece grave.

“Mi dispiace sentirlo,” rispose il sindaco. “Era un grande uomo.”

“Sì, è vero,” disse Emily.

Ma nella sua mente pensava: lo era davvero? Aveva lasciato lei e sua madre nel momento in cui avevano più bisogno di lui. L’intera famiglia piangeva la perdita di Charlotte ma era stato lui a decidere di scappare dalla sua vita. Emily riusciva a capire il bisogno di scappare dai propri sentimenti, ma abbandonare la propria famiglia era una cosa che non riusciva a comprendere.

“Farei meglio ad andare,” disse Emily. “Devo prendere delle cose.”

“Certo,” rispose il sindaco. Il suo tono era sobrio adesso, ed Emily si sentiva responsabile per avergli tolto la sua gioia. “Riguardati, Emily. Sono sicuro che ci incontreremo ancora.”

Emily salutò con un cenno e si affrettò ad andarsene. L’incontro con il sindaco l’aveva innervosita, risvegliando altri pensieri e sentimenti che aveva seppellito nel corso degli anni. Corse al negozio di alimentari e sbatté la porta chiudendo fuori il mondo esterno.

Afferò un cestino e cominciò a riempirlo di roba – batterie, carta igienica, shampoo e una tonnellata di zuppa in scatola – poi andò al bancone dove una donna pienotta stava in piedi alla cassa.

“Salve,” disse la donna sorridendo a Emily.

Emily si sentiva ancora a disagio per via dell’incontro di poco prima. “Salve,” borbottò, appena capace di incrociare lo sguardo della donna.

Mentre passava gli articoli e li imbustava, la donna continuava a guardare di sottecchi Emily. Emily seppe istantaneamente che l’aveva riconosciuta, o che sapeva chi fosse. L’ultima cosa che poteva affrontare adesso era un’altra persona che le chiedesse di suo padre. Non era sicura che il suo fragile cuore avrebbe potuto reggere. Ma era troppo tardi, la donna sembrava sul punto di dire qualcosa. C’erano solo quattro articoli nel cestino traboccante. Sarebbe rimasta incastrata lì per un po’.

“Tu sei la figlia maggiore di Roy Mitchell, vero?” chiese la donna strizzando gli occhi.

“Sì,” rispose Emily con una vocina.

La donna batté le mani con entusiasmo. “Lo sapevo! Riconoscerei quella chioma ovunque. Non sei cambiata di una virgola dall’ultima volta che ti ho vista!”

Emily non si ricordava della donna, sebbene dovesse essere venuta qui in negozio spesso da ragazzina per fare scorta di chewing gum e riviste. Era fantastico vedere quanto si era staccata dal passato, quanto bene aveva cancellato la sua vecchia se stessa per diventare qualcun altro.

“Ho qualche ruga in più adesso,” rispose Emily, cercando di fare una conversazione educata ma fallendo nel suo proposito miseramente.

“Appena appena!” urlò la donna. “Sei carina come una volta. Non vediamo la tua famiglia da anni. Quanto tempo è passato?”

“Vent’anni.”

“Venti? Bene, bene, bene. Il tempo vola quando ci si diverte!”

Passò un altro articolo nella cassa. Emily desiderò in silenzio che si sbrigasse. Ma invece di riporre l’articolo nella borsa, si fermò, con il cartone del latte sospeso sopra la borsa. Emily alzò gli occhi per vedere la donna che fissava qualcosa in lontananza con uno sguardo remoto negli occhi e un sorriso sulla faccia. Emily sapeva che cosa stava per arrivare: un aneddoto.

“Mi ricordo di quando,” cominciò la donna ed Emily si preparò, “tuo padre ti stava costruendo una nuova bicicletta per il tuo quinto compleanno. Passava al setaccio il paese in cerca dei pezzi, mercanteggiando sui prezzi. Riusciva ad affascinare chiunque, vero? E adorava sul serio i mercatini dell’usato.”

Sorrideva raggiante a Emily adesso, annuendo in un modo che pareva suggerire che stesse incoraggiando anche Emily a ricordare l’episodio. Ma Emily non poteva. La sua mente era vuota, la bici non era altro che un fantasma nella sua testa evocato dalle parole della donna.

“Se ricordo bene,” continuò lei, tamburellando le dita sul mento, “finì col prendere tutto, il campanello, i nastri, e tutto quanto, per meno di dieci dollari. Ci passò sopra tutta l’estate, carbonizzandosi al sole.” Si mise a ridacchiare, e gli occhi le brillavano al ricordo. “E poi ti abbiamo vista sfrecciare per tutta la città. Eri così orgogliosa quando dicevi a tutti che te l’aveva costruita tuo papà.”

Le viscere di Emily si rimestavano, in una colata di emozione vulcanica. Come aveva potuto cancellare tutti quei bei ricordi? Come aveva potuto non apprezzare quei preziosi giorni di infanzia spensierata, di gioia familiare? E come aveva potuto lasciarli suo padre? In quale momento era passato dall’essere il tipo di uomo passa tutta l’estate a costruire una bicicletta per la figlia al tipo di uomo che se ne va per non tornare mai più?

“Non me lo ricordo,” disse Emily con un tono che le uscì brusco.

“No?” chiese la donna. Il sorriso cominciò a svanire, come scucendosi. Ora sembrava piantato lì più per cortesia che per spontaneità.

“Potrebbe…” disse Emily con un cenno in direzione della scatoletta di mais sospesa nella mano della donna, cercando di spingerla a continuare.

La donna abbassò lo sguardo, quasi sorpresa come se si fosse dimenticata perché fosse lì, come se avesse pensato di chiacchierare con una vecchia conoscenza invece di servirla.

“Sì, certo,” disse, e il sorriso sparì del tutto adesso.

Emily non riusciva a far fronte ai sentimenti che provava dentro. Stare nella casa l’aveva fatta sentire felice e contenta, ma il resto di quella città la faceva sentire orribile. C’erano troppi ricordi, troppe persone che ficcavano il naso nei suoi affari. Voleva tornare in casa il prima possibile.

“Dunque,” disse la donna, non volendo o non potendo smettere di chiacchierare a vuoto, “quanto a lungo pensi di fermarti?”

Emily non riuscì a fare a meno di leggere tra le righe. La donna voleva dire, quanto a lungo ti intrufolerai nella nostra città con la tua aria scontrosa e il tuo atteggiamento stizzoso?

“Non ne sono sicura,” rispose Emily. “All’inizio doveva essere un weekend lungo, ma ora penso una settimana. Due, forse.”

“Dev’essere bello,” disse la donna imbustando l’ultimo articolo di Emily, “avere il lusso di una pausa di due settimane quando ti va.”

Emily si irrigidì. La donna era passata dall’essere gentile e felice a maleducatissima.

“Quanto le devo?” chiese, ignorando la frase.

Emily pagò e si raccolse le borse al petto, correndo fuori dal negozio più veloce che poteva. Non voleva più restare in città, la faceva sentire claustrofobica. Corse a casa, chiedendosi che cosa esattamente di quel posto avesse fatto innamorare suo padre.

*

Emily arrivò a casa per scoprire che un furgoncino elettrico era parcheggiato fuori. Si lasciò subito l’esperienza in paese alle spalle, scacciando le emozioni negative che sentiva proprio come aveva imparato a fare da bambina, e si permise di sentirsi entusiasta e speranzosa per la prospettiva di aver sistemato un altro grosso problema della casa.

Il furgoncino si avviò ed Emily capì che stavano per andarsene. Daniel doveva averli fatti entrare in casa a suo nome. Mise giù le borse e gli corse dietro, agitando le braccia mentre scendevano dal cordolo. Vedendola, il conducente si fermò e abbassò il finestrino, sporgendosi di fuori.

“È lei la proprietaria?” chiese.

“No. Be’, più o meno. Vivo lì,” disse ansimando. “Siete riusciti a dare la corrente?”

“Sì,” rispose l’uomo. “Fornelli, frigorifero, luci, abbiamo controllato tutto e adesso funzionano.”

“Fantastico!” disse Emily estatica.

“Il fatto è,” continuò l’uomo, “che ha qualche problema di sovraccarico. Probabilmente perché la casa è in pessimo stato. Ci saranno dei topi che si mangiano i cavi, una cosa del genere. Quand’è stata l’ultima volta che è salita nella mansarda?”

Emily scrollò le spalle mentre l’entusiasmo svaniva.

“Be’, farà bene a chiamare qualcuno della manutenzione in modo che dia un’occhiata lassù. Il sistema elettrico che ha lei è obsoleto. È un miracolo che siamo riusciti ad avviarlo, a essere sinceri.”

“Okay,” disse Emily con voce flebile. “Grazie per avermelo detto.”

L’uomo annuì. “Buona fortuna,” disse prima di partire.

Non disse altro, ma Emily riuscì a sentire il resto della frase nella mente: ne avrà bisogno.