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Ora e per sempre

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Ora e per sempre
Ora e per sempre
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Czyta Manuela Farina
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Daniel trasalì, come sorpreso dalla sua improvvisa aggressività. Appena un istante prima avevano condiviso un momento dolce e tenero. Secondi dopo lei gli urlava contro. Daniel le diede un’occhiataccia fredda. “Faccio del mio meglio. È una casa grande. E io sono da solo.”

“Scusi,” disse Emily tornando subito sui suoi passi, non volendo essere assolutamente la causa dell’espressione divenuta tetra di Daniel. “Non era mia intenzione attaccarla. Volevo solo…” Guardò la tazza e mescolò le foglie di tè. “Questo posto sembrava uscito da una favola quando ero bambina. Era così maestoso, sa? Così bello.” Alzò lo sguardo e scorse Daniel guardarla attentamente. “È solo che è triste vederlo così.”

“Che cosa si aspettava?” rispose Daniel. “È rimasto abbandonato per vent’anni.”

Emily distolse lo sguardo con tristezza. “Lo so. Probabilmente volevo immaginarlo sospeso nel tempo.”

Sospeso nel tempo, come l’immagine di suo padre che aveva in mente. Aveva ancora quarant’anni, non era invecchiato di un giorno, identico all’ultima volta che l’aveva visto. Ma in qualunque luogo si trovasse, il tempo doveva averlo toccato così come aveva fatto con la casa. La determinazione di Emily di sistemare la casa durante il weekend si fece ancora più forte. Non voleva niente di più che riportarla, anche se solo leggermente, alla sua vecchia gloria. Forse farlo sarebbe stato come riportare suo padre da lei. Poteva farlo in suo onore.

Emily bevve l’ultimo sorso di tè e mise giù la tazza. “Dovrei andare a letto,” disse. “È stata una giornata lunga.”

“Certo,” rispose Daniel, mettendosi in piedi. Si mosse veloce, lasciando la stanza e uscendo sul corridoio fino a raggiungere il portone, lasciando che Emily lo tallonasse. “Mi chiami quando è nei guai, okay?” aggiunse. “Sono nella rimessa che sta laggiù.”

“Non ne avrò bisogno,” disse Emily con sdegno. “Posso fare da sola.”

Daniel aprì la portone, lasciando che la neve ristoratrice entrasse. Si raccolse nella giacca, poi guardò indietro, al di sopra della spalla. “L’orgoglio non la porterà lontano qui, Emily. Non c’è nulla di male nel chiedere aiuto.”

Voleva urlargli qualcosa, litigare, rifiutare la sua affermazione che lei fosse troppo orgogliosa, ma invece gli guardò la schiena mentre lui spariva nella buia neve che vorticava, incapace di parlare, la lingua completamente legata.

Emily chiuse la porta, chiudendo fuori il mondo esterno e la furia della bufera. Ora era completamente sola. La luce si riversava nell’ingresso dal fuoco nel soggiorno, ma non era abbastanza intensa da raggiungere le scale. Guardò su la lunga scala di legno sparire nel buio. A meno che non fosse preparata a dormire su uno dei divani impolverati, avrebbe dovuto trovare il coraggio di avventurarsi di sopra nel buio pesto. Si sentì di nuovo una bambina, impaurita all’idea di scendere nella cantina piena di ombre, inventandosi ogni genere di mostri e cose macabre che la stavano ad aspettare là sotto per prenderla. Solo che ora era una donna adulta di trentacinque anni, troppo spaventata all’idea di salire di sopra perché sapeva che la vista dell’abbandono era peggiore di qualsiasi mostro che la sua mente riuscisse a creare.

Invece Emily tornò nel soggiorno per assorbire l’ultimo calore dal fuoco. C’erano ancora alcuni libri sulla libreria – Il giardino segreto, Cinque bambini e la cosa – dei classici che suo padre le leggeva. Ma il resto? Dov’erano finite le cose di suo padre? Erano scomparse in un luogo sconosciuto così come aveva fatto lui.

Mentre le braci si spegnevano l’oscurità la avvolgeva, in accordo con il suo umore tetro. Non poteva più ignorare la stanchezza; era venuto il momento di salire quei gradini.

Appena lasciò la stanza, sentì uno strano rumore strascicato venire dal portone. Prima il suo pensiero andò a una qualche creatura selvaggia che fiutava carcasse, ma il rumore era troppo preciso, troppo pensato.

Con il cuore martellante, si spostò silenziosamente attraverso l’ingresso e si avvicinò al portone, posandoci contro l’orecchio. Qualunque cosa pensasse di aver sentito, ora non c’era più. Tutto quello che riusciva a sentire era l’ululato del vento. Ma qualcosa la costrinse ad aprire la porta.

La spinse e vide che sistemate davanti alla soglia c’erano delle candele, una lanterna e dei fiammiferi. Daniel doveva essere tornato e doveva averglieli lasciati qui.

Li raccolse, accettando con riluttanza la sua offerta d’aiuto, con l’orgoglio che le pungeva. Ma allo stesso tempo era molto più che grata che ci fosse qualcuno a occuparsi di lei. Aveva pure abbandonato la sua vita per correre in questo posto, ma non era completamente sola.

Emily accese la lanterna e finalmente si sentì abbastanza coraggiosa da salire di sopra. Mentre la fioca luce della lanterna la guidava in cima alle scale, guardò i quadri appesi al muro, pieni di immagini sfuocate dal tempo, avvolte in ragnatele che le riempivano di polvere. Per la maggior parte i quadri erano acquerelli che ritraevano i dintorni – barche a vela sull’oceano, sempreverdi del parco nazionale – ma uno era un ritratto di famiglia. Si fermò, fissando la figura, guardando l’immagine di se stessa da piccola. Si era completamente dimenticata di questo quadro, che aveva confinato da qualche parte nella memoria e l’aveva relegato là per vent’anni.

Sopprimendo un’ondata di sentimenti, continuò a salire i gradini. La vecchia scala scricchiolava rumorosamente sotto di lei ed Emily notò che alcuni gradini erano rotti. Erano sbeccati da anni di passi e la colpì un ricordo di lei che correva su e giù da questi gradini in scarpe rosse.

Nel vestibolo al piano di sopra la luce della lanterna illuminò un lungo corridoio – le numerose porte di quercia scura, e alla fine la finestra che andava dal pavimento al soffitto che ora era chiusa dal compensato. La sua vecchia camera era l’ultima a destra, di fronte al bagno. Non riusciva a sopportare il pensiero di guardare in quella stanza. Troppi ricordi erano contenuti lì, troppi perché potesse liberarli adesso. E non le faceva tanto piacere l’idea di scoprire che genere di bestie avevano preso alloggio nel bagno nel corso degli anni.

Invece Emily incespicò lungo il corridoio, superò la cassettiera contro cui aveva sbattuto le dita dei piedi un sacco di volte, e si infilò nella camera dei suoi genitori.

Alla luce della lanterna, Emily riuscì a vedere quanto fosse impolverato il letto, quanto la biancheria fosse stata rosicchiata dalle tarme negli anni. Il ricordo del bel letto a baldacchino che i suoi avevano condiviso andò in pezzi nella sua mente mentre si confrontava con la realtà. Vent’anni di abbandono avevano devastato la stanza. Le tende erano sporche e spiegazzate, scendevano flosce sulle finestre sprangate. I portacandele da parete erano inspessiti dalla polvere e dalle ragnatele, sembrava che intere generazioni di famiglie di ragni ne avessero fatto la loro casa. Uno strato di spessa polvere stagnava su tutto, incluso il tavolo da toletta alla finestra, il piccolo sgabello su cui sua madre si sedeva molti anni prima quando si spalmava in viso la crema alla lavanda davanti allo specchietto di cortesia.

Emily vide tutto, tutti i ricordi che aveva sepolto negli anni. Non riuscì a trattenere le lacrime. Tutte le emozioni che aveva provato negli ultimi giorni la assalirono, intensificate dai ricordi di suo padre, dallo choc improvviso di quanto le mancava.

Fuori, il suono della bufera si intensificava. Emily ripose la lanterna sul comodino, sollevando una nuvola di polvere, e si preparò per andare a letto. Il calore del fuoco non era arrivato fin lassù e la stanza era di un freddo pungente quando si tolse i vestiti. In valigia trovò la camicetta di seta e capì che non le sarebbe stata molto utile lì; sarebbe stata meglio con una poco signorile calzamaglia e grossi calzini da notte.

Emily scostò la coperta patchwork cremisi e oro tutta impolverata e scivolò nel letto. Fissò il soffitto per un attimo, riflettendo su tutto quello che le era accaduto negli ultimi giorni. Sola, infreddolita e indifesa, soffiò sulla fiamma della lanterna, immergendosi nel buio, e pianse fino ad addormentarsi.

CAPITOLO QUATTRO

La mattina seguente Emily si svegliò presto, sentendosi disorientata. C’era così poca luce che entrava nella stanza dalle finestre sprangate, che le ci volle un po’ per capire dove si trovasse. Gli occhi le si abituarono piano alla penombra, la stanza le si materializzò intorno, e ricordò – Sunset Harbor. La casa di suo padre.

Trascorse un momento prima che ricordasse di essere anche senza lavoro, senza casa, e completamente sola.

Trascinò il suo corpo esausto fuori dal letto. L’aria del mattino era fredda. Il suo riflesso nello specchietto di cortesia impolverato la spaventò; aveva il viso gonfio delle lacrime che aveva versato la notte precedente, la pelle tirata e pallida. Improvvisamente le venne in mente di non aver mangiato abbastanza il giorno precedente. L’unica cosa che aveva messo nello stomaco la sera prima era stata la tazza di tè bollito sul fuoco acceso da Daniel.

Esitò momentaneamente davanti allo specchio, guardando il suo corpo riflesso nel vetro vecchio e sporco mentre la sua mente riviveva la notte appena trascorsa – il calore del fuoco, lei che sedeva al focolare con Daniel bevendo tè, Daniel che si prendeva gioco della sua incapacità di prendersi cura della casa. Ricordò i fiocchi di neve tra i suoi capelli quando gli aveva aperto la porta la prima volta, e il modo in cui si era ritirato nella bufera, scomparendo nella notte nera d’inchiostro veloce com’era apparso.

Il brontolio dello stomaco la riportò fuori dai suoi pensieri e nel presente. Si vestì velocemente. La camicia spiegazzata che indossò era troppo sottile per l’aria fredda quindi si appoggiò la coperta polverosa del letto sulle spalle. Poi uscì dalla camera e scese di sotto a piedi scalzi.

 

Dabbasso, tutto era silenzio. Scrutò attraverso la finestra gelata del portone e si stupì di vedere che nonostante la tormenta si fosse esaurita, erano caduti novanta centimetri di neve, rendendo il mondo di un biancore liscio, immobile e infinito. Non aveva mai visto così tanta neve in tutta la sua vita.

Emily riusciva a vedere solo le impronte di un uccello che aveva saltellato sulla strada lì fuori, ma oltre a quello niente era stato disturbato. Tutto sembrava pacifico, ma allo stesso tempo desolato, e ricordò a Emily la sua solitudine.

Capendo che avventurarsi fuori non era un’opzione praticabile, Emily decise di esplorare la casa e vedere cosa contenesse, se mai c’era qualcosa. La casa era così buia la sera prima che non era riuscita a dare tanto un’occhiata in giro, ma adesso con la luce del giorno era una cosa più facile a farsi. Andò prima in cucina, guidata istintivamente dallo stomaco che brontolava.

La cucina era ancora più disastrata di quanto le fosse sembrato la sera prima. Il frigorifero – un Prestcold originale color panna degli anni Cinquanta che suo padre aveva trovato a un mercatino estivo dell’usato – non funzionava. Cercò di ricordare se lo avesse mai fatto, o se fosse stato un altro fastidio per sua madre, un’altra di quelle cose inutili con cui suo padre aveva riempito la casa. Emily trovava le sue collezioni noiose quando era piccola, ma adesso faceva tesoro di quei ricordi, aggrappandosi a essi più forte che poteva.

Dentro al frigo Emily trovò solo un odore terribile. Lo chiuse subito, assicurando bene la porta prima di mettersi a esaminare il contenuto delle credenze. Lì trovò una vecchia scatoletta di mais con l’etichetta completamente scolorita dal sole, e una bottiglia di aceto di malto. Considerò brevemente di prepararsi qualcosa da mangiare con quelle cose, ma decise di non essere ancora così disperata. L’apriscatole era bloccato dalla ruggine comunque, quindi neanche volendo avrebbe potuto mangiare il mais.

Poi andò nella lavanderia, dove si trovavano la lavatrice e l’asciugatrice. La stanza era buia, la finestrella coperta dal compensato come molte altre della casa. Emily premette il bottone delle macchine ma non si sorprese nel vedere che non funzionavano. Sempre più frustrata dalla situazione, Emily decise di passare all’azione. Si arrampicò sulla credenza e tentò di strappare via un pezzo di compensato. Era più difficile di quanto si aspettasse, ma lei era determinata. Tirò e tirò, usando tutta la forza delle sue braccia. Alla fine l’asse cominciò a spaccarsi. Emily diede un ultimo strattone e il compensato cedette, venendo completamente via dalla finestra. Ci aveva messo così tanta forza che Emily cadde dal piano, la pesante asse le scivolò dalle mani e oscillò contro la finestra. Emily sentì il rumore della finestra che si rompeva nello stesso momento in cui si schiantava sul pavimento, attorcigliandosi su se stessa.

L’aria gelida entrò subito nella lavanderia. Emily gemette e si rimise a sedere prima di controllare il corpo ammaccato per assicurarsi di non avere niente di rotto. Le faceva male la schiena e se la strofinò mentre guardava la finestra rotta che lasciava entrare un fioco fiume di luce. La frustrò vedere che nel tentativo di risolvere un problema aveva solo peggiorato le cose.

Fece un respiro profondo e si mise in piedi, poi con attenzione raccolse l’asse dalla credenza dove era caduta. Pezzetti di vetro caddero a terra e si ruppero. Emily controllò l’asse e vide che i chiodi erano completamente ricurvi. Anche se fosse stata in grado di trovare martello – cosa di cui dubitava fortemente – i chiodi erano comunque troppo ricurvi. Poi vide di essere riuscita a spaccare la cornice della finestra mentre strappava il compensato. Doveva cambiare tutto.

Emily aveva troppo freddo per rimanere nella dispensa. Attraverso la finestra rotta si confrontò con lo stesso e infinito bianco panorama nevoso. Agguantò la coperta dal pavimento e se la rimise sulla spalle, poi lasciò la dispensa e si diresse nel soggiorno. Almeno lì era in grado di accendere il fuoco e scaldarsi un po’ le ossa.

Nel soggiorno, l’odore confortante del legno bruciato era ancora nell’aria. Emily si accucciò davanti al caminetto e si mise ad accatastare frasche e ciocchi su piramidi. Questa volta si ricordò di aprire la canna fumaria, e fu un sollievo quando la prima fiamma prese vita.

Tornò sui talloni e si scaldò le mani infreddolite. Poi si accorse del pentolino dove Daniel aveva preparato il tè seduto davanti al fuoco. Non aveva rimesso in ordine, e il pentolino e le tazze erano ancora dove le avevano lasciate la notte precedente. Le attraversarono la mente i ricordi di lei e Daniel che condividevano il tè, parlando della vecchia casa. Le brontolò lo stomaco, ricordandole la fame, e decise di preparare un po’ di tè proprio come Daniel le aveva mostrato, pensando che le avrebbe calmato la fame almeno per un po’.

Non appena terminato di sistemare il pentolino sul fuoco, sentì lo squillo del telefonino venire da qualche punto della casa. Anche se si trattava di un suono familiare, fece un salto a sentirlo suonare adesso, con l’eco che rimbombava nei corridoi. L’aveva lasciato perdere quando si era accorta che non prendeva, quindi lo squillo era davvero una sorpresa.

Emily balzò in piedi, abbandonò il tè e seguì il rumore. Trovò il cellulare sul mobile dell’ingresso. La chiamava un numero sconosciuto, e rispose un po’ confusa.

“Oh, um, ciao,” disse l’anziana voce da uomo all’altro capo del filo. “È lei la signora che sta al quindici di West Street?” Il segnale non era buono e la voce dolce ed esitante dell’uomo si sentiva appena.

Emily si accigliò, confusa dalla telefonata. “Sì. Lei chi è?”

“Mi chiamo Eric. Io, ecco, io consegno il gasolio in tutte le proprietà dell’area. Ho sentito che sta alla vecchia casa così ho pensato di passare per una consegna. Cioè, se, be’, se le serve.”

Emily poteva crederci a stento. Le notizie ci avevano messo ben poco a girare nella piccola comunità. Ma un attimo; come aveva avuto Eric il suo numero di cellulare? Poi si ricordò che Daniel le aveva guardato il telefono quando gli aveva detto di aver problemi con la linea. Doveva averlo visto e memorizzato, con l’idea di passarlo a Eric. Addio orgoglio, poteva a malapena contenere la sua gioia.

“Sì, sarebbe fantastico,” rispose. “Quando può venire?”

“Be’,” rispose l’uomo con la solita voce nervosa e quasi imbarazzata. “A dire il vero sono già sul furgone e sto venendo lì.”

“Sul serio?” balbettò Emily, non riuscendo a credere alla sua fortuna. Diede un’occhiata all’ora sul cellulare. Non erano neanche le otto. O Eric si recava al lavoro prestissimo normalmente, o stava facendo questo viaggio proprio per lei. Si chiese se l’uomo che le aveva dato un passaggio la scorsa notte si fosse messo in contatto con l’azienda del gasolio per conto suo. O era stato lui o… Daniel?

Scacciò il pensiero dalla mente e riportò l’attenzione alla conversazione telefonica. “Riuscirà ad arrivare qui?” chiese. “C’è molta neve.”

“Di questo non si preoccupi,” rispose Eric. “Il furgone può sopportare la neve. Si assicuri che ci sia la strada libera fino alla cisterna del gasolio.”

Emily si spaccò il cervello cercando di ricordare se aveva visto una pala da qualche parte in casa. “Okay, farò del mio meglio. Grazie.”

Cadde la linea ed Emily si mise in azione. Corse di nuovo in cucina, controllando ogni credenza. Non c’era nulla che neanche si avvicinasse a ciò di cui aveva bisogno, quindi provò con tutte le credenze della dispensa, e poi quelle della lavanderia. Alla fine trovò una pala da neve puntellata contro la porta sul retro. Emily non aveva mai pensato in vita sua di potersi sentire così emozionata all’idea di vedere una pala, ma ci si aggrappò come a una cima di salvataggio. Era così elettrizzata che quasi si dimenticò di indossare delle scarpe. Ma come la sua mano passò sopra al chiavistello per aprire la porta sul retro, vide le sue scarpe da ginnastica che facevano capolino da una borsa che aveva lasciato lì. Le indossò velocemente e poi tirò la porta, tenendo stretta la preziosa pala.

Subito, la gravità e la portata della tempesta di neve le divennero chiare. Guardare la neve dalla finestra era una cosa, ma vedere il cumulo di novanta centimetri che le si stagliava davanti come un muro di ghiaccio era un’altra.

Emily non sprecò tempo. Mandò a sbattere la pala contro il muro di neve e ghiaccio e cominciò a scolpire un passaggio fuori dalla casa. Era difficile; nel giro di pochi minuti sentì il sudore gocciolarle lungo la schiena, le braccia doloranti, ed era sicura che avrebbe avuto le vesciche alle mani una volta finito.

Dopo aver attraversato novanta centimetri di neve, Emily cominciò a trovare il ritmo. C’era qualcosa di catartico in quel lavoro, sullo slancio necessario a spalare la neve. Persino la sgradevolezza fisica sembrava importare meno quando cominciò a vedere come i suoi sforzi la stessero ripagando. A New York il suo sport preferito era correre sul tapis roulant, ma questo era l’allenamento più faticoso che avesse mai fatto.

Emily era riuscita ad aprire un sentiero di tre metri attraverso il cortile posteriore alla casa.

Ma alzò gli occhi disperata per vedere che la cisterna si trovava a dieci metri buoni di distanza – e lei era già distrutta.

Cercando di non disperarsi troppo, decise di riposare per un momento per recuperare fiato. Mentre riposava, vide la casa del custode lontano lungo il giardino, nascosta vicino ai sempreverdi. Una piccola cresta di fumo sorgeva dal camino e una luce calda si diffondeva dalle finestre. Emily non poté fare a meno di pensare a Daniel lì dentro, che beveva il suo tè, bello al calduccio. Lui l’avrebbe aiutata, non aveva dubbi, ma voleva mettersi alla prova. L’aveva presa in giro senza pietà la sera prima, e con ogni probabilità era stato proprio lui a chiamare Eric, tanto per cominciare. Doveva averla vista come una donzella in difficoltà, ed Emily non voleva dargli la soddisfazione di dargli ragione.

Ma aveva lo stomaco che si lamentava ancora ed era esausta. Troppo esausta per proseguire. Emily era in piedi nel fiume che aveva creato, improvvisamente travolta dalla sua situazione difficile, troppo orgogliosa per chiedere l’aiuto di cui aveva bisogno, troppo debole per fare ciò che aveva bisogno di fare da sola. La frustrazione le salì dentro fino a trasformarsi in calde lacrime. Le lacrime la fecero sentire ancora più arrabbiata, arrabbiata con se stessa per essere inutile. Nella sua mente frustrata, si sgridava e, come una bambina petulante e cocciuta, si decideva a tornare a casa non appena la neve si fosse sciolta.

Gettando via la pala, Emily tornò a passi pesanti dentro casa, con le scarpe fradice. Le calciò via sulla soglia e poi tornò nel soggiorno per scaldarsi al fuoco.

Si stravaccò sul divano impolverato e prese il telefono, preparandosi a chiamare Amy e a darle l’ovvia notizia di aver fallito nel suo primo e unico tentativo di essere autosufficiente. Ma la batteria era scarica. Trattenendo un grido, Emily lanciò l’inutile cellulare di nuovo sul divano, poi cadde di peso sul fianco, totalmente sconfitta.

Attraverso i suoi stessi singhiozzi, Emily sentì il rumore di passi strascicati venire da fuori. Si mise seduta, si asciugò gli occhi, poi corse alla finestra e guardò fuori. Vide subito che Daniel era lì, teneva in mano la pala che lei aveva gettato, scavava tra la neve e continuava quello che lei non era riuscita a portare a termine. Emily riusciva a stento a credere quanto fosse veloce ad aprire un passaggio, quanto fosse esperto, quanto fosse bravo, come se fosse nato per lavorare la terra. Ma la sua ammirazione ebbe vita breve. Invece di sentirsi grata nei confronti di Daniel o felice di vedere che lui era riuscito ad aprire un percorso fino alla cisterna, si sentì arrabbiata con lui, diresse la sua impotenza contro di lui invece che dentro di sé.

Senza neanche pensare a quello che stava facendo, Emily raccolse le scarpe fradice e le indossò di nuovo. Nella sua mente i pensieri correvano veloci; ricordi di tutti gli inutili ex fidanzati che non le avevano prestato ascolto, che erano intervenuti per “salvarla”. Non si trattava solo di Ben; prima di lui c’era stato Adrian, che era così iperprotettivo con lei da essere soffocante, e poi prima di lui c’era stato Mark, che la trattava come un fragile soprammobile. Ognuno di loro era venuto a sapere del suo passato – la misteriosa scomparsa del padre era solo la punta dell’iceberg – e l’aveva trattata come una cosa che aveva bisogno di protezione. Erano stati tutti quegli uomini del suo passato che l’avevano fatta così e lei non lo voleva più sopportare.

 

Si precipitò fuori nella neve.

“Ehi!” urlò. “Cosa sta facendo?”

Daniel fece una brevissima pausa. Non si girò neanche a guardarla ma continuò a spalare, prima di rispondere con calma, “Apro un sentiero.”

“Questo lo vedo,” ribatté Emily. “Quello che voglio sapere è il perché, dato che le avevo detto di non aver bisogno del suo aiuto.”

“Perché altrimenti congelerà,” rispose Daniel semplicemente, continuando a non guardarla. “E congelerà anche l’acqua, ora che l’ho accesa.”

“E quindi?” rimbeccò Emily. “A lei che interessa se congelo? La vita è mia. Posso congelare se lo voglio.”

Daniel non aveva fretta di interagire con Emily, né di alimentare il litigio a cui lei stava evidentemente cercando di dare il via. Continuava solo a spalare, calmo, metodico, così indifferente alla sua presenza che sembrava che lei non ci fosse nemmeno.

“Non sono preparato a mettermi seduto e lasciarla morire,” rispose Daniel.

Emily incrociò le braccia. “Credo che stia facendo un po’ il melodrammatico, no? C’è una bella differenza tra prendere un po’ di freddo e morire!”

Alla fine, Daniel ficcò la pala nella neve e si raddrizzò. Incontrò gli occhi di lei con un espressione indecifrabile. “Quella neve era tanto alta da coprire il tubo di scarico. Se riesce ad accendere la caldaia, torna tutto nella casa. Morirà di avvelenamento da carbonio in una ventina di minuti.” Lo disse come fosse una cosa così ovvia che Emily si sbalordì. “Se vuole morire, lo faccia nel suo tempo libero. Ma non accadrà sotto la mia sorveglianza.” Poi lanciò la pala a terra e tornò alla rimessa.

Emily se ne stava lì in piedi, a guardarlo andare, sentendo che la rabbia le si scioglieva solo per lasciare il posto alla vergogna. Si sentiva malissimo per il modo in cui aveva parlato a Daniel. Stava solo cercando di aiutarla e lei gli aveva ributtato tutto in faccia come una bambina maleducata.

Era tentata di corrergli dietro, per scusarsi, ma in quel momento il furgone del gasolio apparve alla fine della strada. Emily sentì il cuore alzarsi, sorpresa di quanto fosse felice dal semplice fatto che stava per esserle consegnato il gasolio. La vita nella casa del Maine era quanto più diversa possibile dalla vita a New York.

Emily guardò Eric scendere dal furgone, con sorprendente agilità per uno così vecchio. Era vestito con una tuta da lavoro macchiata di olio come un personaggio di un cartone animato. Il suo viso era segnato dalle intemperie, ma in modo dolce.

“Salve,” disse con la stessa insicurezza che aveva al telefono.

“Sono Emily,” disse Emily allungando una mano per stringere la sua. “Sono molto felice che lei sia qui.”

Eric si limitò ad annuire, e si mise subito al lavoro per sistemare la pompa idraulica. Chiaramente non era tipo da chiacchierare, ed Emily se ne stava lì in piedi scomoda a guardarlo lavorare, sorridendo debolmente ogni volta che notava il suo sguardo andare un attimo a lei, come confuso dal fatto che lei fosse lì.

“Può mostrarmi la caldaia?” chiese una volta che fu tutto a posto.

Emily pensò alla cantina, al suo odio nei confronti dei grossi macchinari che erano lì per dare energia alla casa, alle migliaia di ragni che vi avevano teso le loro tele nel corso degli anni.

“Sì, da questa parte,” rispose con vocina flebile.

Eric tirò fuori la pila e insieme scesero nella cantina buia e inquietante. Proprio come Daniel, Eric sembrava aver mano con la roba meccanica. In pochi secondi l’enorme caldaia tornò in vita. Emily non riusciva a trattenersi; buttò le braccia al collo dell’anziano.

“Funziona! Non riesco a credere che funzioni!”

Eric si irrigidì quando lo toccò. “Be’, non deve incasinare un casa così vecchia,” disse.

Emily mollò la presa. Non le importava neanche che un’altra persona le avesse detto di smetterla, di mollare tutto, che non era abbastanza brava. La casa adesso aveva il riscaldamento e l’acqua, e questo voleva dire che lei non doveva tornare a New York come una fallita.

“Ecco,” disse Emily prendendo la borsa. “Quanto le devo?”

Eric scosse solo la testa. “È stato già provveduto,” rispose.

“Chi ha provveduto?” chiese Emily.

“Qualcuno,” rispose Eric evasivo. Chiaramente non lo metteva a suo agio essere stato infilato in quella strana situazione. Chiunque l’avesse pagato per venire e fare scorta delle sue riserve di gasolio doveva avergli chiesto di mantenere il silenzio e tutta la situazione lo imbarazzava.

“Be’, okay,” disse Emily. “Se lo dice lei.”

Dentro di sé decise di scoprire chi avesse pagato, per restituire il denaro.

Eric si limitò ad annuire una volta, brusco, poi risalì le scale. Emily lo seguiva di corsa, non volendo restare sola in cantina. Un gradino dopo l’altro, notò di avere una nuova elasticità nei suoi passi.

Mostrò a Eric la porta.

“Grazie, dico davvero,” disse il più significativamente possibile.

Eric non disse nulla, le diede solo uno sguardo di commiato, poi uscì per raccogliere le sue cose.

Emily chiuse il portone. Esultante, corse di sopra alla camera da letto principale e mise le mani davanti al termosifone. Era abbastanza sicura che il calore stesse cominciando a diffondersi lungo i tubi. Era così felice da non fare neanche caso alle botte e ai rumori metallici, suoni che facevano l’eco per tutta la casa.

*

Man mano che la giornata passava, Emily gioiva della sensazione di stare al caldo. Non aveva realizzato appieno quanto a disagio si fosse sentita da quando aveva lasciato New York, e sperava che un po’ dell’acidità che aveva gettato addosso a Daniel fosse stata in parte causata da quel disagio.

Non avendo più bisogno della coperta impolverata della camera da letto principale per tenersi al caldo, Emily l’appese sulla finestra rotta della lavanderia prima di iniziare a raccogliere i frammenti di vetro. Appese i vestiti bagnati sui termosifoni, sbatté il tappeto pieno di polvere del soggiorno e spolverò tutti gli scaffali prima di rimettere in ordine i libri. La stanza era già più accogliente, e più simile al luogo che ricordava. Prese la sua vecchia e consunta edizione di Attraverso lo specchio e poi si preparò a leggerla al focolare. Ma non riusciva a concentrarsi. La sua mente tornava sempre a Daniel. Si vergognava così tanto di averlo trattato in quel modo. Anche se aveva fatto finta che non gli importasse, il modo in cui lui aveva buttato la pala ed era tornato a casa provava abbastanza chiaramente che le sue parole lo avevano scoraggiato.

La colpa la rose finché non riuscì più a sopportarlo. Lasciò il libro, indossò le scarpe da ginnastica ora calde e si diresse verso la rimessa.

Bussò alla porta e attese finché non sentì il rumore di qualcuno che si muoveva da dentro la casa. Poi la porta si aprì e lì c’era Daniel, illuminato alle spalle dal bagliore del fuoco caldo. Un delizioso profumo si diffondeva per la casa, ricordando ancora una volta a Emily che non aveva mangiato. Le venne l’acquolina.

“Che succede?” chiese Daniel, con il tono pacato di sempre.

Emily non poté fare a meno di sbirciare oltre la sua spalla, e così colse il panorama del vivace fuoco, delle assi del pavimento verniciate e delle librerie stipate, della chitarra puntellata a un pianoforte. Non aveva saputo cosa aspettarsi dalla casa di Daniel, ma di certo non quello. L’incongruenza tra il luogo in cui Daniel viveva e la persona che lei aveva pensato che fosse la sorprese.