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Ora e per sempre

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CAPITOLO SEDICI

Emily guidò fin casa veloce, con la vista annebbiata dalle lacrime. Non voleva reagire in maniera eccessiva ma davvero non aveva altre opzioni. Daniel le aveva mentito sulla parte più fondamentale del suo essere: il nome. Che genere di persona faceva una cosa del genere? Anche se l’aveva cambiato perché lo odiava o lo imbarazzava, era il genere di cosa che Emily si aspettava saltasse fuori in una conversazione a un certo punto. Lei non si faceva chiamare con il suo nome completo Emily Jane ma ne aveva comunque parlato a Daniel e anche allora, in quella specifica conversazione sui nomi, Daniel non aveva aperto bocca e non aveva detto nulla. Cosa che le faceva pensare che fosse stato per nasconderle deliberatamente la sua identità.

E se poteva mentire su quello, allora forse anche quello che avevano detto le donne sulla strage di cuori che aveva fatto poteva essere vero.

Mentre parcheggiata davanti a casa, Emily vide che Daniel era in giardino a occuparsi degli arbusti. Alzò gli occhi, corrugando la fronte al rumore della macchina che sgommava e dello stridio dei freni quando Emily inchiodò. Parcheggiò senza cura tutta storta, poi saltò fuori dal sedile del passeggero, lasciando l’auto con il motore acceso e la portiera spalancata. Poi si fiondò attraverso il cortile puntando dritta su Daniel.

“Chi sei tu?” urlò colpendolo al petto non appena l’ebbe raggiunto.

Daniel vacillò all’indietro, scioccato e confuso. “Che diavolo di domanda è?”

“Dimmelo!” gridò Emily. “Non ti chiamo Daniel, vero? Ti chiami Dashiel. Dashiel Morey.”

Si formò una grinza tra le sopracciglia di Daniel. “Come…”

“Come l’ho scoperto?” urlò Emily in tono accusatorio. “L’ho dovuto sentire da due vecchie al mercato delle pulci. Perché tu non hai avuto le palle di dirmelo. Lo sai quanto umiliante è stato per me?” Riusciva a sentire il sangue bollirle al ricordo mortificante.

“Emily, guarda che posso spiegare,” disse Daniel posandole le mani sulle spalle.

Emily si scostò le mani di lui dalle spalle. “Non toccarmi. Mi hai mentito per tutto questo tempo. È vero. Solo rispondimi. Ti chiami davvero Dashiel?”

“Sì. Ma solo il mio nome è cambiato. È…”

“Non posso crederci. E le donne? È vero anche quello, no!” Alzò le mani in aria esasperata.

“Le donne?” chiese Daniel accigliandosi.

“Tutti i cuori che hai spezzato! Hai una brutta reputazione, Daniel. O dovrei dire Dashiel?” Si voltò, con le lacrime che le pungevano gli occhi. “Non so neanche più chi sei ormai.”

Daniel sospirò con emozione. “Sì che lo sai, Emily. Sono esattamente la stessa persona che sono sempre stato.”

“Ma CHI?” urlò Emily, portandosi le mani al viso. “Un criminale violento che manda la gente all’ospedale? Un sensibile fotografo che scappa di casa? Una specie di don Giovanni che usa le donne e poi le scarica quando ha finito con loro? O sei solo il silenzioso e timido custode che vive alle mie spalle?”

La bocca di Daniel si aprì ed Emily seppe di essersi spinta troppo oltre. Ma non riusciva a sopportare di essere stata ingannata, da Daniel soprattutto, dopo tutto quello che avevano passato insieme. Aveva condiviso così tanto con lui – i suoi sogni, il suo dolore, il suo passato, il suo letto. Si era fidata di lui, forse ingenuamente.

“Questo è un colpo basso,” disse Daniel.

“Ti voglio fuori dalla mia terra,” gridò Emily. “Fuori dalla mia rimessa. Vattene! Prendi la tua stupida moto con te!”

Daniel la fissava e basta, la sua espressione stava tra l’inorridito e l’amareggiato. Emily non aveva mai pensato di vederlo così. Fu una pugnalata al cuore vederlo con quello sguardo negli occhi, sapere che era diretto a lei, e che erano state le sue parole crudeli a causarlo.

Daniel non proferì parola. Andò calmo al garage e portò fuori la moto. Poi la avviò, le diede un ultima occhiata di pietra, e se ne andò.

Emily lo guardò andare, le mani chiuse in pugni stretti, il cuore che batteva selvaggio, chiedendosi se sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe visto.

*

Emily tornò stancamente in casa. Il litigio con Daniel l’aveva scaricata, resa esausta. Voleva disperatamente parlare con Amy, ma di recente aveva avuto la sensazione che la sua amica si fosse stufata di lei. Il loro scambio di messaggi si era fatto più rado, meno frequente, e passavano giorni senza sue notizie. Chiamarla adesso con l’angoscia per un uomo, senza neanche aver detto ad Amy che stava uscendo con qualcuno, probabilmente avrebbe posto fine alla loro amicizia.

Mentre camminava lungo il corridoio, le pareva che tutto fosse stato contaminato da Daniel. La chiazza di pittura sulle assi del pavimento vicino alla scala dove lui aveva starnutito mentre dipingevano l’ingresso. Il quadro leggermente sbilenco su cui avevano lavorato quasi un’ora per metterlo dritto prima di lasciar perdere e concludere che semplicemente doveva essere il muro storto, non il quadro. Ovunque si voltasse, c’era un ricordo di Daniel. Ma proprio adesso Emily voleva ritagliarsi uno spazio da lui, non solo fisicamente ma mentalmente. E fu lì che le venne in mente che c’era una stanza della casa nella quale non aveva ancora messo piede, che non era contaminata da Daniel. Una stanza che era rimasta assolutamente preservata, non solo per gli ultimi vent’anni ma per ventotto. Ed era la camera da letto che avevano condiviso lei e Charlotte.

Emily adesso salì le scale, piena di angoscia. Da quando era arrivata lì aveva evitato quella stanza. Era un’abitudine che aveva preso dai suoi genitori, che non ci erano più entrati dopo la morte di Charlotte. Avevano immediatamente trasferito Emily in un’altra stanza della casa, avevano chiuso la porta della camera che ricordava loro la figlia deceduta, e semplicemente non l’avevano aperta più. Come se fosse così facile sradicare il dolore per la sua morte.

Emily percorse il corridoio e raggiunse la porta. Vedeva i piccoli graffi e i bozzi sul legno risalenti a quando lei e sua sorella sbattevano senza attenzione la porta giocando a prendersi. Vi posò la mano contro, chiedendosi se quello fosse il momento sbagliato per farlo dato che era già in un fragile stato, o se volesse entrarci per punirsi, un modo per causarsi del dolore autoinflitto. Ma voleva stare vicina a sua sorella. La morte di Charlotte le aveva rubato il fatto di avere una persona di cui fidarsi. Non aveva mai potuto parlarle di guai con i ragazzi né delle pene delle relazioni. Adesso le sembrava che questo fosse il modo in cui avrebbe potuto avvicinarsi di più alla sorella. E quindi strinse la maniglia, la girò, e attraversò l’uscio fin dentro una stanza conservata nel tempo.

Entrare fu come disseppellire una capsula del tempo o entrare in una foto di famiglia. Emily fu immediatamente colpita da un totalizzante senso di nostalgia. Ogni odore, sebbene nascosto dall’aroma della polvere, le portò ricordi e sentimenti che non aveva dimenticato. Fu incapace di trattenere le lacrime. Le venne strappato un grosso singhiozzo e strinse forte la bocca facendo un passettino in più nella stanza che conteneva tutte quelle preziose memorie di sua sorella.

Alle ragazze era stata data la stanza più grande della casa. C’erano un mezzanino da un lato e delle enormi finestre che partivano dal pavimento e arrivavano al soffitto con la vista sull’oceano. Emily rivide quando faceva salire le bambole sulla scala a pioli del mezzanino, fingendo che si trattasse di una montagna e che loro fossero intrepide esploratrici. Emily sorrise malinconica a se stessa al ricordo di un tempo così lontano.

Si aggirò per la stanza, raccogliendo oggetti che non venivano toccati da quasi tre decadi. Un salvadanaio con la forma di un orso. Un pony di plastica rosa fluorescente. Non poté fare a meno di lasciar andare una risata davanti a tutti i vistosi giocattoli con cui lei e Charlotte avevano riempito la stanza. Doveva aver fatto impazzire sua madre che le ragazze stessero nella stanza più bella ed elegante della casa e che l’avessero riempita di piovre color arcobaleno. Persino la casa di bambole in legno nell’angolo era stata coperta di adesivi e lustrini.

C’era un grande armadio a muro a un lato della stanza. Emily si chiese se i loro abiti da principessine fossero ancora lì. Avevano tutti quelli Disney. La sua preferita era la Sirenetta e quella di Charlotte Cenerentola. Emily si avvicinò e aprì la porta dell’armadio. Quando guardò dentro scoprì che tutti i costumi di Charlotte erano ancora appesi lì, intatti dalla sua morte.

Improvvisamente guardare i vestiti portò a Emily un altro flashback. Ma questo era molto più vivido dei frammenti di ricordo che le erano venuti in mente passeggiando per la stanza. Questo flashback sembrava reale, immediato, e pericoloso. Si aggrappò al muro per sorreggersi quando vide, con chiarezza, il momento in cui la sua presa sulla mano di Charlotte era scivolata e la bambina era scomparsa, il suo impermeabile rosso brillante ingoiato dalla pioggia grigia.

“No!” urlò Emily, sapendo come la storia finiva e desiderando disperatamente fermare l’inevitabile, il momento in cui sua sorella era caduta nell’acqua ed era annegata.

Poi d’un tratto la visione era terminata ed Emily era di nuovo nella stanza, i palmi viscidi di sudore, il cuore che batteva velocemente. Abbassò lo sguardo per scoprire che era aggrappata stretta alla manica proprio di quell’impermeabile; il suo disegno a pallini inconfondibile. Doveva averlo afferrato durante il terrificante ricordo.

Aspetta, pensò Emily all’improvviso, guardando il piccolo impermeabile rosso nella sua mano.

Frugò nell’armadio e trovò gli stivali con disegnate coccinelle di Charlotte.

 

Emily aveva sempre creduto che Charlotte fosse caduta nell’acqua e annegata perché le aveva lasciato andare la mano durante la tempesta. Ma qui c’erano i suoi vestiti. A meno che sua madre non li avesse fatti lavare dopo che il corpo di Charlotte gli era stato restituito, e che poi li avesse rimessi nell’armadio con tutti gli altri suoi vestiti, Charlotte doveva essere tornata a casa quel giorno, viva e vegeta. Poteva essere che Emily avesse fuso due momenti nella sua mente? Che la morte di Charlotte fosse avvenuta dopo la tempesta? Che fosse stata causata da qualcos’altro?

Come un razzo, Emily corse fuori dalla stanza e scese di sotto dove il suo cellulare era sul solito tavolino vicino al portone principale. Lo afferrò, scorse i numeri e chiamò sua madre. Il suono dello squillo le riempì l’orecchio.

“Dai, rispondi,” borbottò sottovoce, sperando che la madre rispondesse.

Alla fine sentì il rumore statico che indicava che la chiamata era stata presa, e poi la voce di sua madre, per la prima volta da mesi.

“Mi stavo chiedendo quando avresti preso su il telefono per scusarti con me di essere scappata da New York.”

“Mamma,” balbettò Emily. “Non è per questo che ho chiamato. Devo parlare con te di una cosa.”

“Fammi indovinare,” disse lei, sospirando. “Ti servono soldi. È questo?”

“No,” disse Emily vigorosamente. “Devo parlare con te di Charlotte.”

Ci fu un lungo, pesante silenzio all’altro capo della linea.

“No, non devi,” disse alla fine sua madre.

“Sì che devo,” insistette Emily.

“È stato molto tempo fa,” disse sua madre. “Non voglio rivangare il passato.”

Ma Emily non le avrebbe più permesso di tirare fuori scuse. “Per favore,” la pregò. “Non voglio non poterne parlare più. Non voglio dimenticare. Siamo rimaste solo noi due.”

Con questo sua madre parve raddolcirsi. Ma fu più calma di quanto fosse stata mai. “Cosa ti ha fatto decidere di voler improvvisamente parlare di lei?”

Emily si morse le labbra, sapendo che la madre non avrebbe gradito la risposta. “È stato papà, a dire il vero. Mi ha lasciato una lettera.”

“Oh, davvero?” disse sua madre, con un’amarezza nella voce inconfondibile. “Che carino da parte sua.” Emily cercò di non nutrire la rabbia della madre. Non voleva rientrare in quel vecchio discorso su suo padre. “E cosa dice la lettera di Charlotte?”

Emily spostava il peso da un piede all’altro. Anche dopo mesi lontano dalla sua stupefatta madre, il vecchio bisogno di accontentarla si rifaceva vivo, rendendola ansiosa e agitata. Le ci volle un momento per formulare la frase, per cacciare fuori le parole che aveva bisogno di dire.

“Be’, dice che non è stata colpa mia se Charlotte è morta.”

Ci fu un’altra lunga pausa all’altro capo del filo. “Non sapevo che pensassi fosse colpa tua.”

“Perché avresti dovuto?” disse Emily. “Non ne abbiamo mai parlato.”

“Perché non credevo che ci fosse qualcosa di cui parlare,” disse sua madre sulla difensiva. “È stato un incidente ed è morta e basta. Che cosa diavolo ti ha dato l’impressione che fosse colpa tua?”

Emily si sentì la testa girare di nuovo. Era così strano essere coinvolta in questa conversazione con sua madre dopo così tanti anni di silenzio, e così tanti mesi di separazione. Sentì una scheggia di dolore conficcarsi in gola quando le lacrime arrivarono agli occhi. “Perché le ho lasciato andare la mano durante la tempesta,” balbettò attraverso i singhiozzi. “L’ho persa e poi è annegata nell’oceano.”

Sua madre sospirò forte. “Non è stato l’oceano, Emily. Non è così che è morta.”

A Emily parve che il mondo le andasse in pezzi attorno. Tutto ciò che aveva creduto vero si stava frantumando. Non solo Daniel aveva tradito la sua fiducia, ma adesso non poteva neanche far affidamento sui suoi ricordi?

“Allora come è morta?” chiese Emily piano con voce nervosa.

“Davvero non te lo ricordi?” le chiese la madre, scioccata e confusa allo stesso tempo. “Emily, tua sorella è annegata nella piscina. Non aveva niente a che fare con te né con la tempesta.”

“Piscina?” ripeté Emily sbalordita.

Ma non appena le parole ebbero lasciato le sue labbra ecco che un nugolo di ricordi si abbatté su Emily. Lasciò cadere il telefono e corse allo studio di suo padre. Lì afferrò il portachiavi che aveva trovato nella cassaforte, con tutte le sue chiavi. Attraversò la casa di corsa, il rumore dei pesanti passi agitarono i cuccioli e li fecero abbaiare dalla rabbia.

Uscì fuori dalla porta principale senza preoccuparsi di indossare le scarpe, e corse al granaio. Raj aveva rimosso l’albero dal tetto, quindi doveva solo scavalcare le assi rotte per entrare. Superò la camera oscura distrutta e le scatole che contenevano i resti rovinati dalla pioggia delle foto di Daniel, poi andò alla porta che aveva visto la prima volta che era stata lì, la porta che portava in nessun posto. Andò a tentativi con le chiavi, provandone una dopo l’altra, finché non trovò quella giusta per la serratura, la girò e aprì.

Si spalancò e picchiò dall’altra parte, con un botto che fece l’eco. Emily sbirciò la nuova stanza non ancora scoperta. Ed eccola. La grande e vuota piscina nella quale era annegata Charlotte, cambiando così il corso della vita di Emily per sempre.

Riusciva a vederla adesso, la sua sorellina vestita con il suo pigiama degli orsetti del cuore, a faccia in giù nell’acqua. I ricordi le si riversarono addosso con la forza di uno tsunami.

I suoi genitori avevano detto loro che avrebbero preso una piscina per la casa estiva. Lei e Charlotte avevano continuato a cercare di indovinare dove sarebbe stata messa la piscina, avevano curiosato in diverse stanze alla sua ricerca, poi alla fine l’avevano trovata nell’annesso. Charlotte voleva nuotare subito, ma Emily sapeva che non avevano il permesso senza supervisione e aveva ricordato alla sorellina di mantenere il segreto che avevano trovato la piscina. Quella sera la madre era uscita e il padre si era addormentato sul divano. Charlotte doveva essere uscita dal letto per andare a farsi una nuotata di nascosto. Emily era stata svegliata da qualcosa, forse dall’inusuale silenzio dato dalla mancanza del russare di Charlotte nel letto accanto al suo. Era andata a cercarla e l’aveva trovata nella piscina. Era stata Emily a dover svegliare il padre dal suo torpore da ubriaco.

Emily scosse la testa, sentendosi improvvisamente nauseata. Non voleva crederci. Era per quello che non se lo ricordava? Perché vedere la sorella morta l’aveva traumatizzata così tanto da rimuovere tutto? E la sua mente, nel tentativo di riempire i vuoti, aveva trasformato il senso di colpa che aveva provato per aver svegliato il padre in un senso di colpa di altro tipo, in una responsabilità maggiore?

Non era stata la tempesta. Non era stata colpa sua. Aveva vissuto sotto una nube di colpa tutti questi anni senza alcuna ragione – solo perché aveva imparato dai suoi genitori a ignorare i problemi, a dimenticare le cose che non le piacevano del suo passato. A causa loro aveva represso il trauma di aver trovato Charlotte a galleggiare faccia in giù senza vita nella piscina ventotto anni prima, e la sua mente aveva cercato di riempire i vuoti, di spiegare l’assenza di Charlotte, scegliendo i ricordi che avevano più senso.

Davvero non era colpa sua.

Emily crollò in ginocchio a bordo piscina e pianse.

*

Fu l’abbaiare convulso di Mogsy a farle finalmente riprendere i sensi. Emily guardò su, non certa di quanto fosse rimasta seduta lì a lato della piscina a fissare il vuoto, ma quando si alzò e tornò nel granaio, il cielo che riusciva a vedere attraverso il buco del tetto era nero. Le stelle le strizzavano l’occhio e la luna era caliginosa. Fu allora che Emily capì che era oscurata dal fumo. Annusò e sentì odore di bruciato.

Con il cuore a mille, attraversò di corsa il granaio e uscì sul prato. Vide la casa davanti a sé e il fumo levarsi a ondate dalla finestra della cucina. Mogsy e i cuccioli abbaiavano da là dentro.

“Oddio, no,” urlò forte correndo attraverso il prato.

Arrivata alla porta della cucina, cercò di afferrare la maniglia quando un’improvvisa forza la spinse via. Inciampò e guardò su. Era Daniel, d’un tratto apparso dal nulla.

“Sei stato tu?” gridò, terrorizzata all’idea che avesse provocato un incendio per vendetta.

Daniel la fissò, inorridito dall’accusa. “Se apri la porta crei un risucchio di aria. La fiamme correranno verso l’ossigeno. Verso di te. Ti stavo salvando la vita!”

Emily aveva ancora troppa paura per sentirsi in colpa. Tutto ciò a cui poteva pensare erano casa sua che andava a fuoco e i cuccioli intrappolati dentro, l’acuto abbaiare che le faceva l’eco nelle orecchie. Attraverso la finestra della cucina vedeva le fiamme arancioni danzare verso l’alto.

“Che cosa facciamo?” gli urlò, afferrandosi i capelli dal panico, la mente vuota.

Daniel corse alla canna per innaffiare il prato appesa alla parete della casa. Ruotò la maniglia e l’acqua cominciò a zampillare fuori. Poi spaccò la finestra della porta della cucina con il gomito e si abbassò quando le fiamme vennero attirate dalla fonte di ossigeno, sporgendosi sopra di lui. Mise la canna attraverso la finestra e spense le fiamme.

“Vai alla rimessa,” gridò a Emily. “Chiama i pompieri.”

Emily non riusciva a credere che stesse accadendo. Le girava la testa, piena di confusione e terrore. Casa sua andava a fuoco. Dopo tutto il lavoro che ci avevano fatto, tutto quanto stava letteralmente bruciando.

Arrivò alla rimessa e aprì la porta. Afferrò il telefono e riuscì a malapena a digitare il 9-1-1.

“Fuoco!” urlò quando la chiamata venne connessa all’operatore delle emergenze. “West Street!”

Non appena trasmessa l’informazione tornò alla casa. Daniel non si vedeva da nessuna parte e la porta era spalancata. Emily capì che era entrato.

“Daniel!” gridò, il terrore aveva preso il sopravvento. “Dove sei?”

Solo allora Daniel emerse dal fumo, con in braccio il cesto con i cuccioli che uggiolavano, Mogsy che gli sfrecciava alle calcagna.

Emily cadde sulle ginocchia e prese i cuccioli in braccio, così sollevata che stessero bene. Erano macchiati di fuliggine. Afferrò Rain e gli tolse la cenere dagli occhi, poi fece lo stesso con gli altri. Mogsy le leccò la faccia e scodinzolò come se possedesse la capacità di comprendere la gravità della situazione.

Proprio allora Emily vide le luci lampeggianti riflesse sull’erba. Si voltò per vedere il camion dei vigili del fuoco correre ululando lungo la strada solitamente tranquilla. Arrivò dritto alla casa, poi i pompieri balzarono giù e passarono all’azione.

“C’è qualcuno all’interno della proprietà?” le chiese uno.

Scosse la testa e li guardò, sconvolta fino al silenzio, correre dentro alla cucina.

Daniel le si avvicinò esitante. Lei lo guardò, i suoi capelli pieni di cenere e i suoi vestiti coperti di fuliggine.

“Se avessi solo sistemato quella dannata porta,” disse.

Emily lasciò andare un mezzo singhiozzo che era anche una mezza risata. “Grazie per essere tornato,” disse piano.

Daniel si limitò ad annuire. Si voltarono verso la casa e guardarono silenziosamente mentre la nuvola di fumo si trasformava in niente più che una cresta sottile.

Qualche istante dopo, i pompieri riemersero. Il capo andò da Emily.

“Che cosa è accaduto?” gli chiese.

“Sembra che avesse un tostapane difettoso,” disse, tenendo in mano l’oggetto distrutto.

“Ci sono molti danni?” Si preparò alle notizie.

“Solo danni da fumo causati dallo scioglimento della plastica. Dovrà arieggiare il posto per un po’. Il fumo è tossico.”

Emily fu così sollevata dal sentire che la casa aveva subito solo danni minori dati dal fumo che gettò le braccia al collo del pompiere. “Grazie!” urlò. “Grazie davvero!”

“Faccio solo il mio lavoro, Emily,” rispose.

“Aspetti, lei conosce il mio nome?” chiese Emily, facendosi indietro.

“Per via di mio padre,” rispose il pompiere. “Le è molto affezionato.”

“Chi è suo padre?”

“Birk della pompa di benzina. Io sono Jason, il figlio maggiore. Sa, la prossima volta che dà una festa, mi inviti, okay? Non credo che papà si sia mai divertito tanto in tutta la sua vita come quella sera. Se è una padrona di casa così brava, voglio esserci anch’io.”

“Ti inviterò,” rispose Emily, un pochino sconvolta dagli eventi della serata, e dal modo in cui tutti conoscevano tutti in quella piccola cittadina.

 

Emily e Daniel si alzarono in piedi e guardarono il camion andarsene, poi entrarono per stimare i danni. Oltre alla puzza, a una macchia nera che correva lungo il muro e a un rettangolo fuso sul piano di lavoro, la cucina era a posto.

“Posso pagare per la finestra rotta,” disse Daniel.

“Non essere sciocco,” rispose Emily. “Mi stavi aiutando.”

“Era un fuocherello. Ho esagerato. Solo che non volevo che Mogsy e i cuccioli soffocassero col fumo.” Prese Mogsy e la grattò dietro alle orecchie e lei lo premiò leccandogli il naso.

“Hai fatto la cosa giusta,” aggiunse lei. “Gli incendi si possono diffondere in un attimo. Grazie alla canna dell’acqua che hai preso prima che accadesse.” Guardò Daniel, il suo capo chino e le spalle piegate. “Che cosa ti ha fatto tornare?” gli chiese.

Daniel si morse le labbra. “Non mi hai dato modo di spiegare. Volevo difendermi.”

Dopo tutto quello che aveva fatto per lei, Emily glielo doveva. “Okay. Vai. Difenditi.”

Daniel prese una sedia e si sedette al tavolo della cucina. “Dashiel è il nome con cui sono nato,” cominciò. “Ma era anche il nome di mio padre. Per quello mi hanno chiamato così. Quindi l’ho cambiato legalmente quando me ne sono andato di casa perché non volevo diventare un fannullone alcolizzato come lui.”

Emily si mosse a disagio. Anche il suo, di padre, beveva spesso. Era un’altra cosa che lei e Daniel avevano in comune?

“Quella gente in città,” continuò Daniel. “Mi ricordano come Dashiel perché vogliono che sia cattivo. Vogliono che diventi lui. Che diventi cattivo.” Scosse la testa.

Emily si sentiva diventare piccola dall’imbarazzo, lì sulla sedia. “E le donne?”

Lui si strinse nelle spalle. “Abbiamo tutti relazioni passate, no? Non credo di averne avute più di quanto sarebbe normale per un giovane di questi giorni e della mia età. Quelle donne probabilmente sono sospettose perché non mi sono mai sposato, sai? Credono che sia un don Giovanni perché sono uscito con qualcuna, ho avuto qualche relazione lunga ma non mi sono mai sistemato. Non sono un monaco, Emily. Ho avuto degli amori passati. Ma credo che tu saresti più confusa se non li avessi avuti!”

“È vero,” disse, sentendosi anche più tormentata dal rimorso. “Scusami per essermi lasciata prendere da queste cose. Per essermi lasciata convincere che sei un cattivo ragazzo.”

“Adesso lo vedi che non lo sono? Che non sono il ragazzo che manda la gente all’ospedale? Che non può prendersi nessuna responsabilità e che è destinato a fallire? Che ti terrebbe in sospeso con le romanticherie per poi dar fuoco alla tua casa?”

Quando lo disse a voce alta, suonò un po’ assurdo. “Adesso lo vedo,” disse lei con voce timida.

“E tu LO SAI chi sono. Sono il ragazzo che se ne stava qui con te durante una tempesta a prendersi cura di un cucciolo affinché tornasse in salute. Che ti ha portato a un giardino di rose segreto in una calda giornata primaverile. Che ti ha comprato lo zucchero filato. Che ti ha baciato e ha fatto l’amore con te.”

Allungò la mano per stringergliela. Emily la guardò, il palmo aperto e invitante, poi fece scivolare la mano nella sua e intrecciò le dita con le sue.

“Non dimenticarti che sei anche il ragazzo che mi ha salvato da un forno infernale,” aggiunse.

Daniel sorrise e annuì. “Sì. Sono anche quel ragazzo. Un ragazzo che non vorrebbe mai farti soffrire.”

“Bene,” disse Emily. Si inclinò e lo baciò con tenerezza. “Perché quel ragazzo non mi dispiace proprio per niente.”