Cammin facendo: dieci storie di incontro e di scoperta

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Cap. II
EFFETTI DEL LAMBRUSCO

Or dunque mi congratulai ancora con me stesso e con le umili membra che mi avevano serbata questa cara sorpresa fuori della loro primavera. Le lontananze del paesaggio sfumavano nel vapore dell’aria, già radiosa di sole; la strada sotto quel bagliore abbacinava la vista. Eppure che bell’andare! Presso la strada qualche villa o castello, profondamente sommerso nel verde opaco del parco, mi faceva l’effetto che un sorbetto produce ad un assetato; e tuttavia non riposai a quelle ombre allettatrici, anzi mi fu piacevole il proseguire, e proseguii tutto solo in uno stato d’ebbrezza, che non proveniva da liquore o da vino, ma dal sole e dalla libertà, i due inebrianti che non fanno male. “Quanti bei nomi” andavo fantasticando “ebbero le antiche età per significare questa ebbrezza dell’andare liberi, senza orario e senza legge: i romei33, i cavalieri erranti, i clerici vagantes34, i trovieri35; e Iddio – o pensiero luminoso! – fece il mondo rotondo perché uno può girar sempre e illudersi di andare avanti, anche se torna sui suoi passi”.

I santi e i santuari nell’evo medio servivano a questo sport. San Giacomo di Gallizia [sic], il tempio di Gerusalemme, la santa casa di Loreto, ecc., corrispondevano agli odierni Ostenda, Aix, les Bains, Spa, Saint-Moritz, ecc. […] Oggi vi sono i globe-trotters; vi sono le automobili. Troppa roba inamidata, troppa moda anglo-americana, troppo puzzo di benzina e di dollari. Preferibili le figure antiche “dai portamenti e dagli aspetti strani”, figure confuse tra il sogno e la realtà.

Ecco quei che le carte empion di sogni:

Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,

Onde conven che ‘l vulgo errante agogni.

Vedi Ginevra, Isotta e l’altre amanti

E la coppia d’Arimino che ‘nsieme

Vanno facendo dolorosi pianti 36 .

“Bravo!” dissi a me stesso, “eccoti a far ancora della letteratura”.

“Sì, va bene”, risposi a me stesso, “se non che quella litania petrarchesca che pare così monotona, letta in una scuola, col registro delle classificazioni da vicino e gli scolari di fronte, recitata ad alta voce, fra i campi, correndo, fa un altro effetto! Questi sono fiori vivi!”. Le altre piante assentivano. E così seguitai a cantare il Petrarca; e così vidi il sole girare tutto l’arco del cielo; così passò Parma, passò Reggio, dalle vetuste mura; e l’umile duro pane, spezzato presso qualche osteria di campagna, mi parve saporito più di ogni ricercata vivanda. Perché io evitai le città, né mi fermai in esse; le grige mura mi avrebbero ricordato le morte età, le vane opere delle generazioni umane. Oh, più sapiente tu, o Terra! Tu riassorbi ciò che, da te prodotto, si muore, e ne ricomponi le giovani primavere.

Passare attraverso un corso; veder la gente che ancora decifra il giornale; leggere le scritte della civiltà: “Ufficio del Registro”, “Conservatoria delle Ipoteche”, “Monte di Pietà”, “Banco di Sconto”, “Tribunale”, “Provveditorato agli Studi”, ecc., avrebbe precipitato nel vuoto, disciolto tutta quella fiorita di fantasie.

E fu così che ad un certo punto m’accorsi che il sole andava perdendo nell’intensa sua luce, e la grande pianura emiliana largamente si discopriva nel vespero riposato. Chi percorre la linea da Piacenza a Bologna, trasportato dal treno, non ha nemmeno l’idea della bellezza maestosa e molle di quel paesaggio, da cui sorge, con l’insorgere dei colli e dei monti lontani, l’immagine della Patria.

Cadeva il sole dietro un gran piano verde, quando giunsi ad una borgata tranquilla. Sopra gli spalti di un antico castello sorgeva una villetta moderna, circondata da oleandri. Dietro il castello si dilungava una mansueta fila di umili case, sorrette da portici.

“Che paese è questo?” domandai ad una donna che falciava l’alta erba presso la siepe.

“Rubiera!”.

“Qui è bene riposare la notte”, dissi fra me.

Ora in quella dolcissima sera, così solo solo come ero in quell’alberghetto di Rubiera, io mi sentii preso da un mio antico e mobilissimo male. Questo male consiste in una specie di animazione del paesaggio materiale da cui viene fuori la storia, la quale mi canta di dentro una certa nenia eroica, ed ha per effetto di farmi piangere.

Si badi bene che io parlo di lagrime autentiche, non di quelle lagrime che si mettono agli angoli dei capitoli dei libri (come gli accattoni di mestiere agli angoli delle vie) e fanno tanto piacere a molti lettori.

“Se è così”, dirà alcuno, “è molto probabile che voi abbiate bevuto quella sera: il vino fa cantare, e qualche volta anche piangere”. No: io me ne ricordo bene: io non aveva ancora bevuto. Bensì è vero che l’ostessa (una formosa donna) mi aveva messo davanti al piatto una bottiglia di Lambrusco; ma era ancora da sturare.

(da La lanterna di Diogene, pp. 11-14)

Ed ora un esempio di una breve gita compiuta dal protagonista, giunto a Bellaria, lungo la ferrovia locale. Consapevole di suscitare con le sue ripetute “apparizioni” la curiosità e lo stupore dei componenti della famiglia del cantoniere, il ciclista identifica in quel punto immerso nella natura, ma nello stesso tempo attraversato dalla “vita che passa”37, il luogo ideale per raggiungere, insieme alla quiete, la felicità stessa.

Cap. XIII
LA QUAGLIA E IL NIRVANA

La casa del cantoniere.

Quasi tutti i vesperi le mie gambe mi portano là, verso la piccola pineta, lungo il bell’argine della via ferrata, da cui si domina il mare lì presso, ed il monte da lontano; ma quando arrivo alla casa del cantoniere, mi fermo. Non è che io mi voglia fermare; è come un “imperativo categorico” di questo terribile orologio dell’anima che ho dentro di me, e squilla la fermata davanti alla casa del cantoniere. Quella piccola casetta ride nell’eremo del paesaggio; e quella stazione quieta, accanto a quel binario (umile e pur congiunto ramo di quell’immenso sistema nervoso che fascia la terra con doppia sbarra d’acciaio), mi seduce più di una sontuosa villa.

Io non so che cosa pensi di me quella famigliola del cantoniere, vedendo questo intruso, fermo lì, fuori del recinto, e che fissa, e sta immobile: mi potrebbero ragionevolmente domandare: “Ma si può sapere cosa cercate qui?”. Invece non mi hanno domandato mai niente e mi lasciano guardare. Un bimbo – lo scorgevo dal vano della finestra a piano terreno – indicava pur me con insistenza alla madre sua, come a dire: “C’è di fuori quello lì!”. Quattro occhi di giovanette, apparendo e scomparendo dall’uscio, come testoline di rondini dal nido, devono aver compiuto una specie di indagine sul mio conto.

Avranno pensato: “Chi sarà? Uno che si vuole buttare sotto il treno? No, perché sono molti giorni che egli si ferma qui: i treni passano ed egli non si è ancora ammazzato. Un vagabondo, un ladruncolo? Nemmeno, perché non ne ha l’aspetto. Chi potrà mai essere? Eh, chi può essere?”.

Le vidi scoppiare in una risata di cuore, poi si ritrassero in casa; parlarono e anche la madre sorrise, assentendo. La risposta era trovata al quesito: “Un matto!”.

Così è forse: a chi percorre la dura via della Saviezza, ad un certo punto avviene di essere entrato nei regni della Pazzia. Spiegato così il mio incognito, nelle sere susseguenti il riso delle donne si mutava al mio apparire in sorriso fuggevole di pietà: il bimbo bensì seguitava ad indicarmi.

Così grandi, solenni, eloquenti erano le tacite cose all’intorno, così profondo era il senso dell’umiltà e di annientamento entro me, che io cominciai ad acquistare un nuovo senso e, palpitando, a tremare come se la natura mi avesse rivelato il suo essere profondo.

Una stradicciola saliva fino al passaggio a livello della via ferrata con due spalliere di pioppi; ma così aerei, così verdi e azzurri, così palpitanti pur nell’aria senza vento che pareva linguaggio come di foglie che una Sibilla avesse animate della sua verità. Di là della ferrata, la via scendeva ancora perdendosi fra le dune del mare, coperte di lieve peluria di prato, dove il sole stendeva su ardenti tinte di croco. Più lontana la breve selva dei pini.

La casetta del cantoniere sorgeva presso il cominciar di quei pioppi; e c’erano intorno tutte le cose buone che sono necessarie a chi deve vivere lontano dagli altri uomini: un piccolo forno per cuocere il pane, una catasta di marruche38 secche, il pozzo con le mastelle39 del bucato, alcuni filari di uva già nereggiante, quanto bastasse a fare un po’ di vinello per la famigliola.

Davanti, in un rettangoletto di terra, germogliava l’insalata tenera e, sopra sostegni di canne, gli ultimi pomidori si pompeggiavano nel loro rosso. Accanto al muro, ristretto da cannucce per frenarne il troppo rigoglio, il rosmarino (ros maris, cioè “rugiada del mare”) superbamente fioriva; fioriva il basilico che assorbe l’odor dell’estate, e molte rame di limoncella40 gareggiavano d’altezza con la mirice41.

Sì: io sorpresi me stesso dire a me stesso: “Ma che cosa sto a cercare più nella vita? Ma a quale scopo mi sono insino a questi giorni tanto affaticato nel mio peregrinaggio terrestre? Ma non sarei felice io qui? Io sono seccato a morte di dover ritornare fra poco ad essere dottore, professore, elettore, libero schiavo. Ecco: sventolare la bandiera a questi piccoli treni, non veloci, salutando reverentemente la vita che passa; e goder intanto questa solitudine, questa santissima quiete, dalla quale passerei senza avvedermene, senza contrasto, a più sicura pace, sepolto qui, presso questo mare, con una scritta che io vorrei dettata così: Exaudiam vocem maris42: ecco la felicità, e altro non chiedo”.

 

Lo so! Se io manifestassi questo desiderio a questa famiglia di cantonieri, ben mi direbbero “pazzo” e senza ritegno. Queste ragazze, forse, sarebbero più contente se potessero andare ad abitare in una tumultuosa via di Roma o di Milano; e il loro padre avrebbe bisogno, per la compiuta estrinsecazione della sua anima, di passare almeno un paio d’ore per giorno in una taverna e quivi discutere de’ suoi diritti con altri ferrovieri. Lo so: ma so che vi è nell’umanità un numero (e forse più grande che non supponiamo) di uomini che se lo potessero, e potessero vincere la superstizione di quella che si dice civiltà e la paura della scomunica che i grandi sacerdoti del progresso lancerebbero, uguale pensiero formerebbero di quello che io penso.

(da La lanterna di Diogene, pp. 91-94)

Nel testo viene omesso il ritorno a Milano, finita l’estate. Nell’ultimo capitolo, La fine e il principio del Nirvana, la vicenda si sposta direttamente dalla Romagna nell’autunno incipiente al rientro del protagonista nella quotidianità, in città, alla ripresa delle attività scolastiche. E subito viene introdotta l’improvvisa scomparsa, “verso l’inverno”, di un suo “collega, un buon compagno”43. Parlando in prima persona, e subentrando così direttamente al primo narratore, quest’ultimo pone termine al racconto col suo commiato da amici e allievi presenti alla sua sepoltura.

La scelta della leggerezza della rappresentazione, e il tono umoristico adottato anche in questa parte della storia, consentono all’autore di realizzare un originalissimo contrasto tra la magia del recente passato, con la sfida coraggiosa del viaggio ristoratore compiuto dal professore nel sole dell’estate, e il presente caratterizzato da dolore e difficoltà, con le onoranze funebri per il collega ai confini della città; con il convoglio che procede sulla neve diretto al cimitero. Il defunto è ricordato come una persona bonaria e positiva, a volte un po’ volgare e “strafottente”, e dalla salute debole: un grande fumatore, latentemente pessimista, con la “faccia gialla infossata”44. Una persona comune, il cui destino finale, gli fa dire Panzini, sarà quello di tutti.

Così come l’esempio del viaggiatore in bicicletta è messo a disposizione di tutti, poiché “la cura del moto e del sole” (questo il titolo del primo capitolo) è il mezzo più efficace per prevenire il dolore e la malattia (al compagno morto non erano giovate le cure termali a cui si era sottoposto) – non solo fisici – grazie alla forza della positività che il cammino infonde in chi lo intraprende. Questo è il monito di Panzini, alla luce della comune impossibilità di rimuovere il male estremo e con esso l’ultimo, inevitabile viaggio dell’uomo.

Nel brano che segue, si presenta la prima parte delle lunghe riflessioni del collega defunto durante le proprie esequie.

Cap. XIX
LA FINE E IL PRINCIPIO DEL NIRVANA

Oh, egli parlava ancora, l’allegro compagno, almeno mi pareva che dovesse dire così: Io sono veramente mortificato, o signori; io giaccio disteso e voi state in piedi; io sto al coperto, e voi sotto la neve e non vi posso né meno dire: “Accomodatevi!” non posso farvi gli onori di casa. Scusatemi, dunque: già, uno per volta vi troverete tutti in questa mia privilegiata condizione.

Ma quello che più di tutto mortifica la mia delicatezza è che dalla mia (oh, guardate che cosa è mai l’abitudine! Volevo dire “abitazione) dalla mia ex-abitazione al Cimitero Monumentale (sapeste come è pesante questa parola) sono circa tre chilometri: a cui aggiungiamo altri tre pel ritorno vostro, non mio, ed è una bella passeggiata. E nevica ancora! Lo so, è un giorno di vacanza oggi; ma con questa neve (guardate, arriva sino alle sale del carro!) io credo che anche gli scolari avrebbero preferito di scaldare i banchi della scuola. Io – ripeto – ne sono mortificato, ma credetemi, non l’ho fatto apposta! Cari scolaretti tutti in fila, ecco, voi vi levate il cappello con riverenza, ecco la vostra bella bandiera, ecco l’onesto bidello che vi sorveglia e ripete con la sua voce dialettalmente chioccia: “In ordine!” e la neve gli imbianca i barbigi.

“Non mi farete arrabbiare più, è vero, cari piccini?”. “No, signor Professore!”. Oh, questa volta vi credo sulla parola. Ma guardate! Anche le corone voi mi recate e col prezzo dei fiori freschi a questi giorni, ciò è molto commovente! E non potervi dire: “Grazie!”.

Sì, io sono mortificato. Ma ecco tutti i miei buoni colleghi che sbucano da varie strade. Arrivano trafelati, coperti di neve. Stringono la mano al signor Direttore che sta dietro il carro, condolendosi della mia morte. Il signor Direttore dice a tutti: “Mah! e non dice altro.

Già: “Mah!” è proprio così. “Mah!” Tutta la filosofia della vita e della morte – a ben pensarci – si riduce ad un “Mah!” con un’enorme “h” in fine. Oh, vedete, anche dei colleghi di altre scuole, persino del Liceo: anche il signor Professore di filosofia, quel dotto germanico che sospende oggi i suoi studi per farmi onore! Ma vedi! Ecco anche le Autorità scolastiche! E il posto di ruolo è così umile!

Finalmente ci muoviamo, ma per fare una tappa in chiesa. Chi ha stabilito così? Già che eravamo avviati si poteva proseguire.

Per fortuna si tratta di una semplice benedizione; però come rombano freddolose e frettolose quelle benedizioni dei preti, come bruciano svogliati quei ceri! Quella litania dei santi: “Sancte Michael, sancte Gabriel, sancte Raphael” ecc., e quell’“ora pro eo” detto automaticamente come fosse una sola parola “oraproeo”, spiace anche a me che sono il beneficiato. Figurarsi agli altri!

Finalmente il sacrestano vien fuori e buffa sui ceri. Siamo avviati. Avviati? Eh sì! È vero che io godo il diritto di preminenza nel passaggio, ma con questa strada! Il carro entra nei cumuli della neve e si rischia di fare altre tappe. Per fortuna, no; la neve è dolce, soffice. Speriamo di non essere ribaltati!

[…] il compianto è universale. “Morire con ventitré anni di servizio quando ci vogliono al minimo ventiquattro anni di servizio, sei mesi e un giorno per aver diritto alla pensione!”. Eh, lo so! È doloroso! Il problema della vita per noi, cari colleghi, è ridotto a questi termini; si muore bene quando sono compiuti i ventiquattro anni, sei mesi e un giorno. Io ho sbagliato di un anno. “Che c’aggio a fa?” Sono andato a Montecatini per questo. Del resto, io che sono il più direttamente interessato, accetto il mio destino senza discussione.

Ecco attraversiamo il parco. L’effetto del parco sotto la neve è splendido; ne convengo con voi. Ecco il recinto per l’Esposizione prossima. Che tumulto di vita sarà qui in questo parco fra sei mesi. Ma oggi pare fatto a posta per il passaggio dei morti. Osservate, colleghi, altri tre convogli neri si profilano nel bianco della neve! Guardatevi però dal pigliare un’infreddatura. Con l’influenza che c’è in giro, non si sa mai!

(da Lanterna di Diogene, pp. 144-146)

1.3 Italo Svevo, Corto viaggio sentimentale

Sul viaggio, questa volta sulla strada ferrata, si incentra anche l’ultimo lungo testo di Italo Svevo (1861-1928). Per i temi affrontati, e anche grazie all’originalità dello stile, l’autore triestino si annovera tra le voci più importanti nel panorama letterario italiano tra la fine del diciannovesimo e i primi decenni del ventesimo secolo45. Al centro della sua opera è la crisi esistenziale dell’uomo moderno, trattata attraverso l’indagine sulla psicologia dei personaggi e sui rapporti che li legano, sulla loro inadeguatezza alla vita e sulle loro nevrosi, sulla condizione umana della solitudine.

Il lungo racconto Corto viaggio sentimentale del 1928, articolato in sette capitoli di diversa estensione, rimasto inconcluso poiché interrotto dalla morte dello scrittore, è pubblicato postumo nel 194946. Il suo eroe ha in partenza un’enorme responsabilità: è il successore dei protagonisti dei precedenti romanzi Una vita47, Senilità48, La coscienza di Zeno49, tutti inetti alla vita, esseri deboli per i quali l’esistenza costituisce una sfida troppo ardua. Le tre creature del grande maestro appaiono, tuttavia, dotate di una resilienza direttamente proporzionale alla loro fortuna: Alfonso, il primo, muore suicida (solo, profondamente insoddisfatto nella sfera professionale, vedendo tradite tutte le sue aspettative in campo sentimentale); il secondo, Emilio, sopravvive alla perdita della sorella e alla caduta dell’illusione d’amore pur trascinandosi in un’esistenza insulsa e priva di emozioni; mentre l’ultimo, Zeno, dopo aver trascorso la prima parte della vita (fino alla piena età adulta) in una sostanziale inattività, riuscirà col tempo a divenire un esperto e abile uomo d’affari e ad accrescere la stima che lo circonda nella cerchia familiare, anche grazie alla sicurezza che gli trasmette il matrimonio con una moglie (da cui inizialmente non è attratto) non bella, ma dalla personalità solida e positiva.

A caratterizzare il protagonista del nuovo racconto è già il cognome, “Aghios”, che ci fornisce informazioni preziose: l’anziano (tale si sente il sessantenne) signore sarebbe “santo” (il significato del cognome, di origine greca) e, in quanto tale, non del tutto appartenente ad un mondo in cui, accanto alla cortesia e alla generosità, esistono anche le cattive azioni. Ma, se lo si osserva attentamente, lo si scopre, come si vedrà, più autonomo rispetto ai suoi tre “fratelli maggiori” Alfonso, Emilio e Zeno. È in viaggio, e nell’impresa si trova solo; dunque, pur essendo ancora una volta il contesto familiare un requisito fondamentale della storia, la situazione stessa esclude la presenza permanente dei personaggi (organizzati in un complesso sistema) strettamente legati agli altri eroi sveviani, che ne definiscono, e ne determinano, l’inettitudine alla vita.

Nel racconto, l’attempato signor Giacomo Aghios, attivo nell’ambito del commercio50, lascia a Milano per alcuni giorni la moglie, che lo accompagna alla stazione, e il figlio studente nella città lombarda, per raggiungere da solo in treno la sua Trieste – dove è nato e in cui vive – portando con sé una forte somma di denaro51 destinata a saldare parte di un debito, di cui non si dice la causa52.

Il testo si articola in sette parti, che coincidono con le tratte ferroviarie e che corrispondono ai diversi momenti dell’avventura: Stazione di Milano, Milano-Verona, Verona-Padova (dove scende il primo personaggio che occupa ampio spazio nel racconto), Venezia (la città in cui Aghios sosta diverse ore, in attesa della coincidenza per giungere alla meta), Alla stazione di Venezia, Venezia-Pianeta Marte, Gorizia-Trieste.

Per l’uomo è la grande occasione per sfuggire alla noia, ad una sensazione di malessere che “proveniva sicuramente dalla famiglia, l’ambiente chiuso ove c’è muffa e ruggine”53, per un breve recupero della sospirata libertà. Come emerge nel testo che qui si riporta, all’inizio del primo capitolo, egli ne è del tutto conscio; mentre il rapporto che lo unisce alla moglie non presenta segreti per il lettore: ritraendo con precisione i pensieri del protagonista, il narratore riferisce chiaramente come esso, sia pure piuttosto solido, appaia basato da entrambe le parti sulle convenzioni e sui ruoli piuttosto che su un sincero sentimento d’amore.

 
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