Cammin facendo: dieci storie di incontro e di scoperta

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SUL MARE

Sul mare ci si sta bene, sì, ci si sta bene. Ma distinguo. Per godere il mare, bisogna trovarsi proprio a tu per tu con lui, bisogna allontanarsi dalla spiaggia un bel pezzo: soprattutto dalle spiagge dove nei mesi più caldi si trasporta e si raccoglie la vita cittadina. Allora il mare diventa complice di molte cose, di troppe cose. Dovrebbe essere il medico pietoso che cura gli ammalati, l’affascinatore simpatico che ne rialza gli spiriti ed è… tutto fuori che questo. I cafés chantants non gli sono ignoti: di mode ne sa quanto i primi sarti delle città: le donne lo consultano per trovarvi l’ispirazione a diventar più belle e ad esser meglio corteggiate, gli uomini a mentire con più disinvoltura, ad annoiarsi meno, a trovare qualche cosa per intrattenersi oltre il sigaro e il giuoco. No, no: non è questo il mare ch’io amo: il bel mare che si stende sconfinato allo sguardo, che ti culla l’occhio e la mente in un sogno delizioso: il mare che ti fa pensare al genio della grandezza, alla poesia del terribile e dell’infinito. E com’è bello imaginarlo amico pietoso e benefico di tanti che gli chiedono la vita e la salute, com’è bello veder corpi di bimbi esili e infelici diguazzarsi nelle sue onde, cercandovi quella felicità che a loro par negata: il mare tomba e altare, grandezza e miseria, Dio e mostro, in cui tante delle cose umane si riflettono e trovano paragoni rapidi e incalzanti! Oh io l’ho contemplato e benedetto il mare, mentre il treno mi portava lontano lontano sulla spiaggia adriatica e lì, ritta davanti al finestrino, ho visto in fondo in fondo il cielo incurvarsi e il mare rialzarsi e solo per una leggiera differenza di tinte li ho distinti ancora uno dall’altro. L’ho visto e amato e benedetto il mare che, Circe e Sirena, ti adesca da Napoli e da Salerno: il mare che ci fa pensare alle nostre isole, il mare che in un giorno di burrasca, mentre il vento soffia e le onde si infrangono contro la spiaggia, in una piccola stazione abbandonata dove aspetti l’arrivo di un treno che ti deve portar lontano, ti fa pensare che esso ti deva portare nell’abisso: il mare che fa cessare il tuo riso e il tuo pianto, perché esso sa ridere e piangere meglio di te. Questo, questo il mare: le altre sono caricature del mare, così come la nostra vita d’ogni giorno è una caricatura di quella grande e bella che la natura ci ha segnata.

Ero tutta contenta una domenica in cui dovevo imbarcarmi a Venezia su un vapore della Navigazione Generale, diretto a Costantinopoli e che avrebbe condotto me fino ad Ancona. Non era la prima volta che facevo quel viaggio: ma a parecchi anni di distanza era curiosa di vedere se si rinnovavano le impressioni altra volta provate, o come e quanto fossero modificate. E poi il viaggiare è sempre bello. Chi non viaggia con piacere, non solo non ha anima d’artista – e l’averla è di pochi, – ma non può nutrire sentimenti gentili, perché non lo commuovono la natura e l’arte, che sono i più gentili di tutti i sentimenti.

Il grande vapore che doveva accogliermi era lì fermo sullo scalo e io, avvicinandomi a lui, lo guardai con un senso che non era di sgomento, ma che non so ben dire che cosa fosse. Un giovinetto che mi accompagnava, mi andava ragionando di molte cose: ma io l’ascoltavo così poco che se ora dovessi riferire i suoi ragionamenti, non saprei farlo. Come si può ragionare quando presentite di godere uno spettacolo bello e incantevole, quando lo gustate già nel pensiero, quando il cuore è lì pronto per destarsi a mille affetti, a mille emozioni?

Il cammino per giungere a bordo è finito. Non c’è più da passare che la tavola di legno, che serve di ponte tra il bastimento e la riva. Presto presto: la tavola è passata. Non è più la terra che vi sostiene: è il mare. A pensarci non si può restare indifferenti. Sarà sgomento, sarà dolore, sarà gioia che v’invaderà: ma qualcosa deve essere. Non è la stessa cosa camminare o essere trasportati in carrozza o nel treno su una superficie solida, compatta, su quella superficie che vedete ogni giorno, ogni ora, che è sempre la stessa e che solo per un caso strano, inaspettato, per qualche cosa che sembra fuori della natura, potrebbe mutarsi e il trovarsi su una superficie galleggiante, in un elemento infido, che della sua poca fedeltà v’ha dato innumerevoli prove, senza che voi le cercaste. Finché parlate con le persone che vi accompagnano o vi hanno seguito per poco sul bastimento o son lì sulla riva a domandare e a rispondere: finché i comandanti e i macchinisti parlano con i viaggiatori senza affrettarsi, come gente che goda del riposo, perché l’opera sua non è ancora necessaria; finché alla quiete non succede il tramestìo, che è indizio di gran cambiamento, finché le corde sono ancora immobili al loro posto, non si pensa, non si riflette. La vita della terra continua. È così piccolo lo spazio che separa dalla riva che tra questa e il bastimento quasi non vedete nemmeno l’acqua. Chi vi toglie di pensare che il bastimento sia un pezzo di terra aggiunto alla terra? E son lì le persone con cui vi siete trovati ieri, l’altro ieri nelle vostre, nelle loro case, che non eran sul mare. Sulla riva i ragazzi giuocano, i facchini bestemmiano, gli uomini discorrono e guardano. È ancora la terra. Ma quando il bastimento ha preso il largo, quando ai primi ordini rumorosi e concitati ne seguono altri dati più a bassa voce e lentamente, quando cessa il gridare e il rispondere da un capo all’altro del bastimento, quando l’occhio si posa sul mare da qualunque parte tu guardi, allora è un’impressione nuova che ti entra nell’anima e protendi le mani alla terra per salutarla con amore e con rimpianto, come si saluta con amore e con rimpianto tutto ciò che il cuore ama e da cui è costretto a dividersi anche per poco. Le protesi anch’io. Eppure ero partita volentieri, né avevo lasciato persone care, anzi andavo a ritrovarne. Tutti motivi dunque per essere contenta. Me lo dissi e lo fui.

Prendiamo proprio il largo. Passano, passano le ultime vestige della terra. Si salutano le isole, a cui guizzate dinanzi con un senso di dolcezza e di accoramento. Ne avete sentito parlare tante volte. Esse son lì. O perché non si può fermarsi un momento solo, portarne via un filo d’erba, un pugno di polvere? Son terra italiana. Di là da quelle il mare e di là del mare una terra che non è italiana. Il faro della Rocchetta13 vi saluta. Lì in quell’eremitaggio, che solo una lunga diga unisce con l’abitato, c’è qualcuno che veglia alla salvezza delle navi di tutto il mondo, che entrano nel porto. Nella potenza e nella meraviglia della natura l’opera e il sacrifizio dell’uomo non scompaiono, ma vi s’abbellano e s’ingrandiscono. Mi rammentai di una sera passata con una lieta compagnia in quella piccola casa, della scala a chiocciola salita con tanta fatica, del mare contemplato dall’alto. Andando, avevamo percorso la diga. Al momento del ritorno il mare ingrossato l’aveva coperta e ci fu forza servirci delle barche, in cui entrammo allegra e rumorosa brigata, lieti di godere uno spettacolo diverso, di provare un’impressione nuova a cui l’animo non s’era prima preparato.

Siamo fuori. I confini del porto sono ormai varcati. Non c’è più nulla che occupi, che attiri l’attenzione fuori che il mare. Nessuno degli incomodi, delle seccature dei viaggi di terra. Lì, uniti, addossati in uno scompartimento, non potete muovervi, non potete respirare, senza timore di dar noia al vicino e senza che il vicino la dia a voi. Sul mare non è così. Passeggiate sul bastimento in lungo e in largo. Vi incontrate: vi vedete e non vi vedete: vi salutate e non vi salutate. Siete liberi d’incominciare una conversazione e d’interromperla, di parlare con quello dei viaggiatori, che imaginate più affine a voi per carattere, per pensieri, per sentimenti. E poi lo spettacolo bello, grande, imponente è lì aperto a tutti gli sguardi, sorridente a tutti gli spiriti. Uno non lo ruba all’altro: una parete opaca non fura14 come nel treno quanto v’ha di meglio nella natura e nell’arte che la ricopia: un finestrino non è oggetto d’invidie e di litigi. Qui è il banchetto a cui tutti gli uomini di buona volontà possono partecipare e tristo chi non ha occhi per vedere e cuore per ammirare!

(da Sul mare, in Attraverso la vita. Ricordi e impressioni, pp. 127-134)

Nell’ultima parte del passo, nel viaggio nella sconfinata distesa marina, meraviglioso patrimonio comune – ovviamente limitatamente alla categoria dei “sensibili” – si riafferma, per gradi, la presenza umana. Dapprima la narratrice introduce un’immagine del passato (la lieta compagnia del faro della Rocchetta), poi prosegue cogliendo, con evidente compiacimento, nella traversata per mare (che non confina il viaggiatore in uno spazio limitato) il luogo di una specifica applicazione della libertà, fondamentale ai fini del nostro discorso: la scelta nella comunicazione. Seguono, prima della notte insonne trascorsa sottocoperta (per il timore che le incutono il soffiare del vento e le onde rotte dall’imbarcazione, e per il silenzio tutt’altro che assoluto)15, il dialogo col macchinista di cui si è detto sopra, poi la cena a bordo16 con alcune “persone addette al bastimento, tranne il comandante”, compagnia assai più interessante delle abituali e scontate figure dei passeggeri, come lei in gita di piacere17. Esplicita, in proposito, è la cauta riflessione di carattere generale della protagonista, proprio dopo la conversazione col macchinista:

In generale la gente di mare è buona e simpatica e io naturalmente non posso affermarlo che per quel poco che ne so, ma credo proprio che sia così. Il vivere in una piccola società, sempre in contatto con la natura che ingentilisce e ingagliardisce, l’abitudine di disprezzare il pericolo, che è d’ogni giorno, d’ogni ora, d’ogni momento; l’esattezza nel compiere il proprio dovere, perché il non compierlo o il non compierlo bene costerebbe troppo, la disciplina a cui sono continuamente sottoposti, quasi soldati in marcia […]; il freddo, il caldo, la pioggia, le onde, le burrasche, che essi conoscono così da vicino, come noi conosciamo da vicino il mezzo per ripararcene: tutto, tutto contribuisce a dare a loro qualche cosa di caratteristico: un caratteristico in cui entra della rozzezza, ma della sincerità: della forza, ma della gentilezza: dell’orgoglio, ma della bontà. Se non pare male adatta, essi sembrano selvaggi inciviliti, che della civiltà hanno preso tutto il buono, il vero, il sostanziale, rigettando tutto ciò che è convenzione e ipocrisia18.

 

Conclude la prosa, all’arrivo ad Ancona, un sentito e intimo commiato dal mare rivolto dalla terraferma: “Lì ferma, guardai il mare come un amico a cui si perdona ogni cosa, perché egli è tale da farsela perdonare” 19.

Un ultimo, efficace momento lirico della viaggiatrice abile nel fondere insieme, all’interno del tessuto della prosa, impressioni, emozioni ed immaginazione, che si accompagnano ad un sistema di riflessioni (secondo il gusto moderno, un po’ troppo) ordinato. Impegnata nell’ambizioso studio dell’abbondante materiale raccolto “attraverso la vita” – come turista e come insegnante – in Sul mare la protagonista è travolta dalla grandiosità della natura che l’attornia, senza però smarrirsi mai. Tutto ciò, accanto ad una lingua a tratti prolissa ma accessibile, senza abuso di complessi e fastidiosi ornamenti retorici – il composito testo autobiografico dell’educatrice è pensato per essere utile ad un vasto pubblico – fa sì che anche il lettore di oggi si avvicini ai due scritti qui presentati con interesse; scavalcando sia l’ingombrante intento didascalico che li caratterizza (meno evidente in Sul mare, dove la vicenda personale ha un ruolo altrettanto importante) che la richiesta a lui rivolta, e continuamente percepibile, di condividere il punto di vista offerto.

Come si evince dall’intero gruppo delle prose, nel suo percorso l’io narrante non esita a mettersi alla prova, dando con la sua nobile e vasta curiosità un efficace esempio al pubblico e manifestando un delicato, ma chiaro sentimento di compiacimento per il proprio operato. Proprio per questo entusiasmo, che determina l’energia della narrazione, non può infine sfuggire – né non venire apprezzato – quanto la viaggiatrice, così come l’insegnante, tenga a veder riconosciuto il proprio impegno.

1.2 Alfredo Panzini, La lanterna di Diogene

Un’impresa originale, quasi atletica è al centro de La lanterna di Diogene, del 1907, dello scrittore senigalliese Alfredo Panzini (1863-1939), insegnante liceale a Milano e a Roma, italianista e linguista, autore di racconti e romanzi apprezzati da gran parte della critica20. Nei suoi testi, in tono umoristico o ironico, attraverso una riflessione spesso filosofica si mettono in luce gli aspetti, anche amari e tragici, della realtà umana.

Il lungo racconto, scritto in prima persona e in uno stile vivace e fluido, si articola in diciannove capitoli: durante la pausa delle vacanze estive il protagonista, un insegnante ginnasiale quasi quarantenne, parte da Milano, dove vive, e si accinge a compiere una lunga pedalata diretto a Bellaria, dove ha in affitto una casetta in cui trascorre la villeggiatura con la famiglia. Attraverso quello che è, dunque, un viaggio di piacere tutto particolare, affronta una vera e propria avventura, utilizzando per coprire una notevole distanza, unico caso tra gli autori qui presentati, un veicolo azionato dalla forza dei muscoli21.

Nell’incipit del testo, con notevole vigore narrativo e attraverso immagini argute e umoristiche che definiscono immediatamente il tono del racconto, si forniscono le informazioni fondamentali, insieme alle premesse dell’impresa.

Cap. I
LA CURA DEL MOTO E DEL SOLE

L’undici di luglio, alle ore due del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall’alto della mia vecchia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana.

La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori su l’Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che sia non lungi dall’antico pineto di Cervia e che, per l’aere puro, abbia il nome di Bellaria.

Ora, quel giorno della partenza, il cielo era senza nubi, e per fare piacere alla città che mi ospita da tanti anni, dirò che era anche azzurro: certo ne pioveva un’afa così ardente e greve, che in ogni altra città d’Italia gli uomini si sarebbero addormentati; e anche le motrici e le macchine si sarebbero fermate.

Vero è che a Milano non si sciopera per così poco. Per mio conto, tuttavia, avrei giurato che in quell’ora ventilavano i più puri zeffiri del mare, e che la cappa del cielo era proprio così bella come assicura il Manzoni nei Promessi Sposi.

Questo singolare fenomeno illusorio avveniva in me perché in quell’ora il fresco maestrale della contentezza spirava nel mio cuore. Ero io contento veramente in quell’ardente pomeriggio dell’undici luglio? Certo ero leggero, leggero come uno il quale, dopo essere rimasto tutta la giornata nelle strettoie d’un abito nero per assistere ad una interminabile cerimonia ufficiale, arriva a casa, si strappa il colletto e manda in aria il palamidone22.

Precisamente: io ero stanco e greve e, ben ripensando, più che del lavoro giornaliero, io ero stanco della cerimonia ufficiale della vita, tanto stanco che in questo senso di tedio mi parve di essere meravigliosamente solo fra gli uomini, e ne ebbi paura come di un prodromo di malattia insanabile dell’anima.

Lo sforzo continuo di equilibrarmi con gli altri, di portare anch’io sopra il colletto un bel volto mansueto e cerimonioso, mi squilibrava sempre di più. Buttavo all’aria la carta stampata; la letteratura mi chiamava in mente i fiori secchi nelle scatole dei droghieri; gli scritti di politica, di filosofia mi facevano venire in mente le emulsioni e le più vantate specialità farmaceutiche. Mi pareva di essere stato anch’io sino a quel tempo un droghiere e un farmacista in una botteguccia scura. E intanto la stella di Venere illumina i vertici dei monti, e il mare palpita sotto l’Aurora!

V’erano poi certi libri che mi facevano un effetto diverso da quello che fanno agli altri studiosi. Così per esempio, dall’Orlando Furioso veniva fuori una gran cavalcata; dalla Gerusalemme un pianto di belle donne amorose; dall’Odissea un profumo di grande mare azzurro su cui si stende il pianto di Circe, la maga. Dalla Divina Commedia veniva fuori l’alba che vince l’ora mattutina e un gridio di uccelletti su la divina foresta spessa e viva.

Ma il più bello era che questi magici libri non mi dicevano mica: “Mettiti lì, a far dei commenti!”, ma invece mi dicevano paternamente: “Va’, cammina, svagati!”.

(da La lanterna di Diogene, pp. 5-6)

Sulla sua strada l’io narrante tocca Lodi, Piacenza, Fiorenzuola d’Arda, Parma, Reggio, Rubiera, Modena. In seguito, decide di allungare il cammino per godersi appieno il viaggio: “Ecco: andare da Modena all’Adriatico pigliando le vie di Pavullo e dell’Abetone non è la più diretta, e quelli che mi attendevano nella casetta al mare, certo – pensai – ne avranno dispiacere; tuttavia se tralascio questa occasione, chissà quando la potrò riafferrare, e mi vinse la nostalgia di rivedere i grandi monti e le ginestre selvagge23”.

Nel suo percorso risanatore il ciclista cerca di evitare i centri e i corsi cittadini, preferendo gustare sulla via la vista di paesi pittoreschi. I paesaggi naturali e umani, poi, richiamano alla memoria del professore personaggi storici e storico-letterari, associandosi in più punti a citazioni poetiche, in particolare da Dante, e ad immagini tratte dal repertorio del mito greco.

I paesi dell’Appennino tosco-emiliano captano il suo sguardo ammirato anche per l’autenticità e la gentilezza degli abitanti, mostrando il quadro di una vita semplice, non contaminata dalla confusione e dal desiderio di beni superflui che caratterizzano i grigi agglomerati urbani. Fa eccezione la località dell’Abetone, contrariamente agli incantevoli paesi di Pavullo e Lama Mocogno rinomato centro turistico.

All’Abetone trovai il mondo in piena civiltà internazionale: grandi hotels, luce elettrica, automobili, chauffeurs, le solite signore vestite secondo il culto feticista imposto dalla moda, camerieri in grande sparato e abito nero, bambinaie che parlavan tedesco; signori dal vestito impeccabile: in una parola il solito culto del “Vitello d’Oro”. Questa specie di culto si riproduce continuamente; ed io penso che Mosè, se tornasse al mondo, si risparmierebbe la fatica di abbatterlo. Qui per forza si diventa filosofi positivisti e demolitori. Orribile questo culto del “Vitello d’Oro”! “Anche perché non avete mai provato, e non sarete mai in condizioni di provare”, mi si può rispondere. “È verissimo anche questo!”.

Ad ogni modo io, che avevo fatto i miei conti senza i grandi hotels e mi ero promesso un riposo di qualche giorno fra quella meravigliosa foresta, mi vi sentii a disagio: ne partii lasciando un po’ di cuore a quei giganteschi abeti […]24.

Questa meta di “villeggianti di tipo aristocratico”25 non si rivela per nulla interessante agli occhi esigenti dell’io narrante che, infastidito, riparte subito, superando un vero e proprio ostacolo sul suo cammino beato.

Lungo la strada il protagonista incontra altri sportivi dilettanti coraggiosi, con cui percorre alcuni tratti, ed entra in contatto con abitanti del luogo: una massaia saggia e gentile26 e un carrettiere che assiste premuroso al suo bagno in una fontana27, casari, negozianti e osti, pronti ad aiutare il singolare “viandante” nella sua vacanza dalla quotidianità che, come si è visto, già nelle intenzioni iniziali si carica di un significato più profondo. Il suo sguardo, poi, si mantiene fermo sui diversi tipi umani anche una volta giunto a Bellaria, dopo cinque giorni di pedale: “Questa casetta appartiene ad un villaggio presso il mare, e il suo nome io l’ho già svelato. Gli abitanti e le abitazioni possono – io credo – fornire ad un archeologo elementi bastevoli per ricostruire al naturale una città troglodita: un filosofo può fare degli studi sul prodotto umano allo stato naturale”28.

Qui la vacanza, oltre che dall’attenta osservazione della vita dei paesani, pescatori, contadini e venditori, è arricchita da escursioni nei dintorni della cittadina balneare – per visitare “Il camposanto ove nacquero le Myricae” (titolo del capitolo XII) di Pascoli29; per l’acquisto di vino presso una parrocchia nelle vicinanze – e da frequenti gite nella pineta confinante. Fa eccezione, per la distanza della meta e l’asperità del territorio, caratterizzato da vegetazione selvaggia, lidi sabbiosi e paludi30, un viaggio di due giorni per visitare Comacchio, nei pressi della foce del Po, in compagnia di un collega e del fratello di lui. Con una deviazione rispetto agli intenti iniziali, questa volta l’escursione in bicicletta prevede l’ingresso nel centro del paese e, il giorno seguente, l’utilizzo di un ulteriore mezzo di trasporto, il battello, che conduce il gruppetto alla celeberrima abbazia altomedievale di Pomposa, al tempo rovina “indegnamente negletta”31.

Nell’estate inoltrata il viaggiatore, finalmente ricaricato grazie agli effetti benefici del “moto e del sole”, può compiere quello che si avvicina ad un viaggio quasi turistico, con tempi e modalità di spostamento organizzati; insomma, non è più il ciclista-viandante che aveva raggiunto Bellaria.

 

In generale, il testo è ricco di citazioni letterarie scolastiche ed erudite e contemporaneamente di momenti di viva ammirazione per il paesaggio naturale, che spesso pare prendere vita, celebrato nella meraviglia della campagna fertile, delle pendici dei monti, dei prati luminosi dell’Appennino, del mare e della costa con la pineta. Mentre si rileva un tono polemico nell’ambito della critica alla vita sociale moderna, in cui da un lato le convenzioni e l’ipocrisia, dall’altro il disagio materiale e psicologico opprimono l’uomo, intristendone l’esistenza e a scapito della sua qualità di vita. D’altra parte, come si evince dal testo, l’impossibile raggiungimento di uno stato di felicità è il destino condiviso da tutti gli individui della specie umana, sia quando colpiti da lutti e sventure o dalla malattia, sia quando vittime della povertà.

Costituendo un’oasi unica di benessere, nelle sue diverse tappe il viaggio rafforza la salute fisica e psicologica del ciclista, appagandone il corpo e l’animo e permettendogli di raggiungere un prezioso stato di comunione con la natura e con l’umanità, senza distinzione di ceto, età e provenienza.

Lo stesso titolo dell’opera ne esplicita il messaggio. Vi si richiama il filosofo greco Diogene di Sinope che, predicando un ritorno alla natura, secondo quanto riferisce lo storico Diogene Laerzio conduceva una vita estremamente austera (non possedeva alcun bene materiale, nemmeno per le necessità quotidiane) e in assoluta libertà, nel completo disprezzo di ogni convenzione sociale, indifferente alle reazioni del pubblico dinanzi al suo stile di vita stravagante ma del tutto coerente32.

Ugualmente, pur senza arrivare ad eguagliare il filosofo cinico, l’insegnante in viaggio rifiuta il lusso, le esteriorità e, in generale, il conformismo che domina la società del tempo rigidamente divisa in classi e con profonde differenze regionali. E assapora con gioia la cucina genuina delle sobrie osterie di campagna, così come le profonde dormite sui letti degli alloggi che lo accolgono stremato dalla fatica quotidiana del velocipede – stremato, ma sereno.

Inoltre, a contatto con gli individui e i gruppi che incontra nel corso della sua speciale vacanza, l’io narrante della Lanterna di Diogene non si sente mai veramente un estraneo: è sempre pronto ad entrare in comunicazione con tutti, in modo naturale e spontaneo, e spesso sviluppa una vera empatia con i suoi numerosi interlocutori e con chi lo sostiene nel cammino. Lo stesso arrivo a Bellaria (nel capitolo IV, a circa un quarto dell’opera), dove è accolto con gioia dalla propria famiglia che lo aveva preceduto in villeggiatura, determina solo un cambio di scena nel racconto, senza alterarne il tono e il messaggio. Come si è detto, da qui il viaggiatore prosegue nel suo progetto di esplorazione e compie escursioni nelle località limitrofe. Ancora, come Diogene di Sinope, alla ricerca dell’uomo.

Le impressioni – che si fondono anche col ricco corredo di conoscenze sfoggiate dall’io narrante – e le sensazioni provate nel tratto tra Fiorenzuola (in provincia di Piacenza) e Rubiera (nei pressi di Reggio Emilia), ritratte nel testo che segue tratto dal secondo capitolo, costituiscono un significativo esempio della celebrazione della libertà conquistata e assaporata col suo effetto energizzante e armonizzante.