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Mater dolorosa

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XVII

L’arrivo del signor duca e il pellegrinaggio alla Madonna di Valsanta avevano messo Sandro di cattivo umore. Egli aveva aspettata la signorina nel tinello, senza poterla vedere, e dal modo col quale invece vide miss Dill uscir dalla sala da pranzo, e correre in un canto a confabulare con don Vincenzo, indovinò subito, con una stretta al cuore, che doveva essere accaduto qualche cosa di nuovo e di grave.

Le angoscie dell’incertezza, l’ansietà mortale dell’attendere invano, i mille sospetti, le mille paure della sua ombrosità di amante povero e geloso, lo avevano fatto montare in bizza con tutti, e più di tutti con Lalla, contro la quale sovente, sentiva sorgere, dentro di sè, un impeto di ribellione, che per altro si acquetava subito, appena la signorina gli fissava addosso gli occhi penetranti, con quel suo fare tra la superbietta e la canzonatura.

Egli pensava, arrovellandosi, che la divina fanciulla avrebbe potuto mostrarsi almeno un istante, per rassicurarlo, non fosse altro con uno sguardo, e… e invece nulla… Non si era mossa; lo aveva dimenticato solo, come un cane, fra il cuoco, Lorenzo e le serve che sonnecchiavano.

– Ma è tempo di finirla, sacrablù, colle albagìe aristocratiche!… È la mia amante, alla fine, è roba mia!… Oh, se mi stuzzica gliela voglio cantar chiara!… – Ma quando la Nena, più tardi, gli restituì L’affaire Clemenceau «da parte della padroncina», Sandro si calmò subito e, dimenticando ogni amarezza, corse a rinchiudersi nella sua cameretta, affannandosi a mettere insieme le parole segnate nel libro.

Cara quella sua Lalla!… era sempre buona con lui; era un angelo vero, del Paradiso!…

Ma poi, a mano a mano che andava copiando le parole sopra un foglietto di carta, egli si fece pallido e tremante:

– Dio, Dio, Dio santo!

– Ti aspetto questa sera tardi, – diceva Lalla, – ho un gran dolore da confidarti; non fo altro che piangere; sta ben attento che non ti veda nessuno.

Mille timori, mille sospetti, balenarono a un tratto nella mente di Sandrino; poi gli rimase un timore, un sospetto solo, ma terribile: il duca era venuto a portare una proposta di matrimonio per Lalla.

Allora fu preso da una febbre ardente che gli avvelenava il sangue, che gli dava fuoco al cervello. Era una folla, una ridda d’immagini strane e terribili; e in quella lotta, e nell’abbattimento profondo che la seguiva, i sensi vincevano e offendevano ogni poesia del suo cuore.

La fanciulla bianca e delicata, la figuretta misteriosa, la signorina bionda, che egli adorava colla tenerezza mistica di un’alta idealità: Lalla, la sua Lalla, alla quale aveva osato baciare trepidante la manina morbida e le vesti odorose, come le foglie di un fiore, era in piena balìa di un altro uomo… di uno sconosciuto!… Era chiusa sola con lui, tutta sua, nella complice sicurezza della camera nuziale. Nè quel delirio geloso gli concedeva tregua: Lalla, sempre Lalla; ora la vedeva in lacrime, disperata, ora timorosa; ora la vedeva appassionata e anelante e stanca ricambiare i baci fervidi con un bacio lungo, morente…

– Per Dio!… – sentiva che piuttosto l’avrebbe uccisa, l’avrebbe strozzata colle sue stesse mani!…

– Perchè non sarebbero fuggiti insieme?… Che!… La signorina non avrebbe mai acconsentito. Era troppo timida… teneva troppo ai riguardi del mondo; era troppo aristocratica! – E poi, fossero anche fuggiti, dove andare? – come vivere? – Sarebbero stati ripresi subito… Lalla maritata anche più in fretta.... e lui messo a marcire in un fondo di carcere. – Non c’era giustizia per la povera gente!… – .Chi era lui, Frascolini? Un plebeo, un pitocco, un villano! – Con lui si poteva far questo e peggio.

E qui, con un’invidia assaettata, egli imprecava contro l’ingiustizia infame del mondo, mentre, alla sua volta, si sentiva capace di commettere un delitto contro quel gran signore, che veniva a rubargli l’amante. – Sì, ci voleva la rivoluzione, la repubblica; ci voleva la Comune! Bisognava abbruciarle vive, impiccarle alla lanterna quelle carogne di nobili! – E quando era stanco d’imprecare e di soffrire provava uno scoramento strano; un gran vuoto doloroso e desolante gli si stendeva dinanzi; ad una ad una vedeva le ore affacciarsi lente e tristi, senza più quella sola, nella quale, e per la quale, sentiva la vita, a cui tutte le altre erano legate, come alla gemma preziosa una collana di perle: l’ora dei fidati colloqui. I disegni per l’avvenire, i bei sogni di ricchezza e di gloria cadevano in rovina… – Che cosa mai avrebbe egli potuto fare? Non era meglio tirarsi una pistolettata e morire, piuttosto di vivere dannato, con quello spasimo nel cuore?…

L’amore non lo aveva reso contento: gli aveva dato la guerra in casa e l’odio fuori; era un affanno, un’angoscia continua. Si vedeva distrutto, si sentiva ammalato di corpo e di spirito; ma tutti i dolori svanivano al fruscìo gentile della veste di Lalla, e quando essa gli era dinanzi buona, sorridente, casta come una santa, ed egli la vedeva arrossire sotto i suoi sguardi, erano dolcezze infinite, era l’estasi dell’anima tutta che gli avrebbe fatto benedire la vita anche se fosse stata per lui mille volte più dolorosa.

L’illusione di crearsi un nome, uno stato e, un giorno o l’altro, poter sposarla lui la signorina, era svanita da un pezzo. Lalla stessa non aveva mai coltivata una simile idea e, se Sandrino osava interrogarla in proposito, essa rispondeva seccamente al suo innamorato, che non avrebbe mai preso marito. E soltanto in questo mai il giovane Frascolini avea riposta tutta la fede e… e sperava. – Che cosa sperava? Forse non sapeva nemmeno lui; ma intanto quel barlume di speranza lo consolava, lo inebriava, trasportandolo di sogno in sogno, colla sua Lalla fra le braccia.

– Come mai avrebbe potuto farsi un nome? Da che parte incominciare? Si sa bene, trovata la strada, si corre facilmente, ma, trovarla… questo è il difficile! Sandrino, a sentir l’organista, aveva un tesoro in gola, e, a giudizio della signora Veronica, aveva pure molto talento drammatico; grazie tante! Ma, fosse diventato anche un Kean o un Tiberini, tant’è, il duca d’Eleda non gli avrebbe mai concessa sua figlia.

La letteratura? – È una camorra, – pensava Sandrino – è il monopolio di quattro o cinque giornali ignoranti e venduti che levano alle stelle il primo capitato che va avanti a forza di raccomandazioni… e di quattrini.

Da qualche tempo, il piccolo Dante di Santo Fiore, l’aveva a morte coi letterati e coi giornalisti. Una volta, agitato dai palpiti d’autore novizio, egli aveva spedito sotto-fascia, raccomandata, una sua novelletta ad un giornale letterario. Il giornale, tre mesi dopo, la rimandò pubblicata, unitamente alla polizza d’abbonamento, da pagarsi anticipato, per un anno. Quel suo nome A. Frascolini, stampato due volte in gotico, nel sommario e in fondo all’articolo, lo fece sognare ad occhi aperti. Egli la vedeva moltiplicarsi su tutti gli altri giornali, riempiere le vetrine dei librai; lo vedeva tradotto in tutte le lingue, e la mattina pensava sul serio di scrivere un’opera da sostituire ai Promessi Sposi, che ormai – avevano fatto il loro tempo. – La duchessina gli assicurò che aveva pianto nel leggere quel melanconico racconto: non era vero, ma Sandro lo credette e fu contento lo stesso. Ciò gli fu di sprone a lavorar con lena, e di lì a pochi mesi la Nena faceva andare e venire un grasso manoscritto, dalla povera casuccia del romanziere al palazzo d’Eleda. Lalla non ebbe fiato di leggerlo tutto, ma lo giudicò bellissimo, e Sandrino rimase colla convinzione di aver scritto un capolavoro.

Ma poi… non glielo volle stampar nessuno; nemmeno il giornaletto letterario, al quale era abbonato, e che lo aveva trovato splendido, ma troppo lungo.

Allora, il Frascolini, cominciò a credere che per essere edito e illustre bisognava diventar prima ricco, in questo mondaccio birbone, e si raccomandò a un suo cugino, appaltatore, dimorante a Venezia e che già una volta lo aveva chiamato presso di sè. In verità, gli affari di questo cugino erano loschi. Egli riteneva che il Frascolini padre avesse il gruzzolo messo da parte, e perciò voleva farsi mandare il figliuolo nella lusinga di mettere le unghie nel sacchetto del babbo. A Don Chisciotte le osterie parevano castelli; così per Sandrino, che vedeva da per tutto milioni, era una bella speranza anche quella… Gli appaltatori diventano ricchi in pochi anni… ricchi assai… Oh! ma lui non si sarebbe dato agli affari per sempre; voleva goderseli i soldi e fare intisichire di rabbia gli invidiosi e i rivali. Che soddisfazione quel giorno in cui egli potesse ricomperare al duca d’Eleda tutte le sue possessioni state confiscate dalla Repubblica… tale e quale come aveva visto in teatro, in una commedia di Scribe.

Ma adesso? Se Lalla prendeva marito?… era la vita sua infelice e cara ad un tempo, che si spezzava. Le ricchezze di Venezia, la gloria, la repubblica, i beni ricomperati… tutto inutilmente!…

La signorina, per altro, aveva detto mai… – Non mi mariterò mai… – Sì, lo aveva detto, ma poteva fidarsene? Essa, certe volte, si mostrava pochissimo espansiva!… Lalla era la sua innamorata… ma come sapeva essere, a suo tempo, anche la padroncina!

Si teneva in un gran riserbo, e non si era mai lasciata toccare nemmeno la punta di un dito… cioè no, era anzi la mano, soltanto la manina morbida, che si lasciava baciare. Lalla aveva evitato studiosamente ogni occasione di compromettersi. Di giorno si vedevano spesso in giardino, e si parlavano; ma senza mistero, in presenza d’altra gente. La sera, tornavano a vedersi in tinello; ma la signorina non vi si fermava lungamente; andava e veniva, sempre colla scusa di avere un qualche ordine da dare. In chiesa poi nessuna occhiatina; nè s’incontravano a passeggio. Una volta sola, egli aveva osato di avvicinarla mentre usciva con l’istitutrice, e di accompagnarla un bel pezzo di strada, ma s’ebbe dopo dalla giovinetta un rabbuffo tale, che non gli venne più voglia di ripetere la garbatezza.

 

Soli, affatto soli, era assai di rado che si potessero trovare. Il colloquio, allora, succedeva di notte, tardissimo, quando tutti gli altri erano andati a letto, Lalla scendeva dalla sua camera al buio, apriva la finestra di un piccolo salotto a terreno, e restava lì a discorrere con Sandro, che l’aspettava nascosto fra gli alberi del giardino.

La finestra, dietro il palazzo, dava in una viuzza nascosta da un vivaio di sempreverdi: aveva una inferriata a mandorla, che permetteva appena una stretta di mano, e quando Lalla si appoggiava sui regoli, Sandro, più bianco d’un panno lavato, le baciava in estasi i bei ditini, senza più sapere in che mondo si fosse! Quelle ore erano la vita, la felicità, la beatitudine del povero ragazzo, ed egli sciupava, divorava tutto il suo tempo nell’aspettarle, mentre la giudiziosa prudenza della giovinetta gliele faceva sospirare assai.

E anche quando giunse la sera che doveva essere l’ultima dei loro colloqui, anche allora Sandrino, dopo una giornataccia di angoscie, ebbe un primo istante di sollievo, insieme a un barlume di speranza.

– L’avrebbe riveduta; le avrebbe parlato; la avrebbe supplicata… – Oh era sicuro di commuoverla colle sue lacrime, d’intenerirla e di vincere ancora!

Nascosto tra il fitto del vivaio, egli era ad aspettare molto prima del tempo. Il giovanotto aveva levato due o tre volte un astuccio di tasca, lo aveva aperto, e guardava tra soddisfatto e dubbioso, un anello d’oro con una bella turchina incastonata fra le rose d’Olanda. Era un regaluccio comperato per Lalla, colle sovvenzioni dell’organista; ma Sandrino l’aveva preso con sè molte volte, senza mai aver avuto il coraggio di offrirlo alla signorina.

Quando Lalla, pian piano, aperse le imposte della finestra, poco mancò non risvegliasse la casa, con un grido di paura. Sandro era appoggiato colla fronte all’inferriata, e apparve così pallido, così disfatto, da sembrare una larva.

– … Dunque?…

Egli non potè dir altro. Lalla, invece, tranquillamente, gli manifestò la volontà del babbo e la partenza fissata per l’indomani. Sandrino ascoltò tutto fissandola sempre cogli occhi imbambolati, e quando la fanciulla ebbe finito di parlare, scoppiò, senza dir parola, in un pianto dirotto.

Lalla non si mostrò mai tanto assennata come in quella sera, e riuscì a confortare l’innamorato con buone ragioni. – Già non si poteva durare così; a una separazione bisognava venirci ad ogni modo; doveva pensare a farsi uno stato – e qui ricordò anche a Sandro, e molto opportunamente, il cugino di Venezia.

Sandro più sentiva la signorina parlare con tanta abbondanza di argomentazioni, e più vedeva il diavolo farsi meno brutto di quanto gli era sembrato dapprima. Ormai aveva giù dallo stomaco il dubbio tremendo che ci fossero disegni di matrimonio, e solo avrebbe desiderato che Lalla aspettasse ancora qualche giorno a partire; cioè, invece di andarsene subito, l’indomani, col duca, il quale precedeva Maria di un par di giorni, avesse aspettato a partire colla duchessa. Ma la signorina si scusò bene: – al babbo non si poteva far contro; lui quando voleva voleva, non c’era verso!…

Sandrino, quell’ultima sera, fu più ardito del solito; ma a prezzo di uno sgomento che lo invadea tutto quanto. Per avvicinarsi di più alla fanciulla che, ritta su di uno sgabello, col volto quasi appoggiato ai bastoni dell’inferriata, si distaccava con tutta la figura bianca dal fondo oscuro, come una Madonna nell’aureola stinta d’un vecchio quadro, egli, che a quella sua Madonna credeva, si era rizzato in punta di piedi: era passato colle braccia fra i regoli; con una mano stringeva quella di Lalla, e coll’altra cercava di toccare, temerità che gli mettea le vertigini, cercava toccarle i capelli. Con un giro di parole piuttosto confuse, volle il giuramento che ella non avrebbe mai sposato nessuno; e quando la fanciulla rispose il solito mai, senza giurare, Sandro, fuori di sè, le domandò un bacio. – No – -la signorina rispose – no; – e invece, con una lentezza irritante, fissandolo sempre negli occhi, gli prese una mano, e poi, piegatavi sopra la testina pallida, l’accarezzò colla guancia vellutata. Era giunto il momento per il regaluccio.

– Ho… avrei un’altra preghiera da fare…

Lalla alzò gli occhi dolcemente, e continuò a sfiorare colle guance la mano del giovanotto.

– Vorrei… avrei… un piccolo… ricordo.

Sandro s’era fatta rosso, balbettava, e ritirata la mano che aveva libera, di mezzo ai regoli, tolse di tasca l’anellino e volle porlo in dito alla fanciulla.

– Oh, carino!… carino!… – esclamò Lalla molto contenta del regaluccio, e gli andò così vicina, nel ringraziarlo, ch’egli potè toccarle colla bocca un ricciolo di capelli.

Si faceva già tardi, e conveniva separarsi. I due giovani, da molto tempo non parlavano… Sandro non la accarezzava più, ma brancicava le mani e le braccia della fanciulla colle sue mani convulse, attraverso i regoli dell’inferriata, che rugginosi e scabri, spesso gli graffiavano i polsi. Anche Lalla cominciava a sentire nel suo sangue il sangue di Sandro. Un’onda calda li avvolgeva entrambi; avrebbero creduto di avere la testa nel fuoco, tanto bruciava… La fanciulla spinse fuori dai vani quanto più potè il viso e le labbra, e per la prima volta, sulla bocca, prese un bacio lungo, bramoso, che le penetrò, diffondendosi via via, per tutte le membra… Sandro pieno di beatitudine voluttuosa, pur colle braccia imprigionate, la teneva serrata fortemente contro il petto; le sbarre di ferro ammaccavano le loro carni, ma essi non sentivano più nulla. Stettero un pezzo così, stretti, abbracciati, avvinghiati insieme… poi la fanciulla stanca, indolenzita, gli uscì di sotto le braccia, e scivolò ginocchioni per terra, col capo piegato sul davanzale della finestra.

All’indomani, poco prima della partenza della signorina, c’era nel cortile una brigatella che l’aspettava per augurarle il buon viaggio. La carrozza che doveva condurla alla stazione, con Prospero e con la miss, era già pronta; gli altri, cioè la Nena, Lorenzo e il signor Francesco, erano partiti fin dal mattino. Era venuto per salutare la signorina anche il signor Domenico, che soffriva una grande soggezione del duca Prospero; poi c’era il medico, al quale miss Dill, allungando gli occhi su don Vincenzo che tabaccava a due mani per nascondere l’emozione, chiedeva ancora un ultimo consulto. C’era, in fine, il buon Ambrogio cogli occhi rossi, il Frascolini padre, e il figliuolo Sandro colle mani approfondate nelle tasche e il cappello sulla nuca, pallido, istupidito. Accanto a lui la Luigia (questa doveva partire più tardi colla duchessa) teneva sotto il braccio Musette che, povera bestiola, aveva fiutata la partenza della padroncina e, scuotendosi, dimenandosi, sforzandosi invano per liberarsi dalle strette della cameriera e correre da Lalla, emetteva certi guaiti, che straziavano il cuore e le orecchie.

Prospero, cui non piacevano i cani, aveva desiderato che la figliuola lasciasse Musette in campagna, promettendole in premio un bel cavallino da sella. Lalla, insistendo un po’, avrebbe potuto ottenere l’uno e l’altra; invece, fu ragionevole, e si piegò subito ai voleri del babbo. Ma tutta mattina non seppe far altro che baciucchiare la cagnetta, protestando che Musette aveva capito ogni cosa; che Musette piangeva; che Musette non voleva più mangiare e che sarebbe morta dal dolore!… E si lamentava assai per quel distacco, godendo d’attirarsi la compassione altrui, per il capriccio del babbo tiranno.

Intanto la signorina era già salita in carrozza, e miss Dill insieme con lei: non si aspettava altro che il duca. Don Vincenzo, approfittando del ritardo, si avvicinò alla carrozza dalla parte dell’istitutrice. Miss Dill non poteva parlare; aveva il gozzo stretto, gli occhi gonfi e il naso pieno… quando ad un tratto, vinta dall’emozione, fe’ un cenno a don Vincenzo, e allora, per la prima volta alla luce del sole, in faccia alla gente, le sue dita gialle si sprofondarono adagio adagio nella complice tabacchiera.

Il buon Ambrogio era dolente e insieme anche un po’ mortificato: la duchessina partiva senza neppure salutarlo. Egli si teneva in disparte, sotto il portico, fra Sandro e la Luigia, fissando, ammirando la signorina, che non stava mai ferma nella carrozza. Lalla si voltava di qua, di là, domandando se tutto era pronto, se nulla era stato dimenticato; ridendo, scherzando, salutando ora l’uno, ora l’altro, colla sua vocina fresca, argentina. Il vecchio Ambrogio sperava sempre che avesse a voltar gli occhi anche dalla sua parte; ma Lalla non lo guardava perchè vicino a lui c’era Sandro. Si era congedata affabilmente con tutti; ma a Sandrino non aveva rivolto una parola, proprio come se il giovanotto non ci fosse stato nemmeno. Nel frattempo anche il duca Prospero, seguito da Maria, la quale voleva riabbracciare la figliuola, si avviava verso la carrozza, dispensando sorrisi, e strette di mano.

– Devo andare, eccellenza? – domandò il cocchiere, quando lo vide adagiato al suo posto.

– Sì; andiamo pure.

– No, no; aspettate… scusa, babbo! – esclamò Lalla, balzando a terra improvvisamente.

– Bada!… Che fai? – le gridò dietro Maria, mentre la fanciulla correva presso la Luigia. L’inaspettato ritorno della signorina fece battere il cuore, nello stesso tempo, a Sandro e ad Ambrogio. Sandro ebbe quasi paura che Lalla, non potendo più trattenersi, corresse a gettarsi fra le sue braccia; il buon Ambrogio, invece, sperava che la signorina si fosse ricordata anche di lui, e lo volesse salutare. Ma Lalla non badò nè all’uno nè all’altro; prese Musette fra le braccia, le scoccò in fretta sulla bianca testolina, un bacio forte, sonante, poi con un salto risalì lesta in carrozza, pestò sui piedi alla miss e senz’altro partì, fregandosi gli occhi col fazzoletto.

Due giorni dopo, anche Maria dovette partire per Borghignano. Ma sul punto di abbandonare quei luoghi si sentì troppo commossa, e volle far andare a vuoto la gentile attenzione degli abitanti di Santo Fiore, che le avevano preparato una dimostrazione di affetto. Anche il dolore ha la sua verecondia, e Maria sentiva nell’anima la delicata timidità dell’allodoletta ferita, che si trascina, per morir tutta sola, nel luogo più riposto e appartato.

Partì verso sera, senza averlo detto ad alcuno: lo sapevano solamente don Gregorio, Ambrogio e la Luigia. Uscì a piedi con don Gregorio, il quale volle accompagnarla alla stazione: presero una stradicciuola nascosta, fiancheggiata da due rivi, che scorrevano silenziosi sotto le fronde profumate delle acacie.

Tutti e due camminavano passo passo, senza parlare, e il loro sorriso era triste, come tristi dovevano essere i loro pensieri. Il buon vecchio si appoggiava al braccio di Maria; per altro la sua figura cadente, rovinata dagli anni, il suo volto solcato da rughe profonde, le lunghe ciocche di candidissimi capelli che lo contornavano, insomma tutto l’insieme di quell’aspetto venerando, non formava vicino alla delicata bellezza di Maria un contrasto sgradevole. Fra quella testa bianca e quella vaga testina bionda, c’era una mesta corrispondenza di espressione e di sentimento.

Maria era addolorata e sgomenta. In mezzo all’affanno dell’abbandono, nell’ignoto di una vita nuova, incerta, col rammarico della bella libertà, della quiete perduta, doveva pur confessare a sè stessa che una gioia colpevole, la certezza di rivedere Giorgio, serpeggiava ancora, e più forte e più indomabile, nel suo cuore. In quelle lotte, in quei rimorsi, anche sotto i baci di suo marito, l’ideale adorato era sempre vivo, vivo più che mai; e faceva arrossire di vergogna la poveretta, cui pareva di essere contaminata, di non essere più degna della immagine cara e gentile. Allora non ebbe coraggio, non volle, disarmata, sfidare il pericolo a cui moveva incontro, e con un filo di voce confidò l’affanno di quella sua gioia segreta a don Gregorio. Solo per un delicato riserbo tacque il nome del conte Della Valle. Don Gregorio l’ascoltò attentamente, guardandola con un sorriso buono e pio, e stringendole la mano con un’affettuosità paterna: – Fatti coraggio – le disse. – Tu sai da molto tempo che la vita è lotta e dolore. Combatti sempre colla tua fede nell’anima, col tuo retto sentire per guida, e trionferai… Tu sei forte e buona!…

– Oh, don Gregorio, no, non sono forte! Sono una povera donna affranta, allo stremo di forze; aiutatemi voi, voi che siete un santo!

– Noi, non sono un santo, figliuola. Io, vedi, sono stato sempre lontano dal pericolo; ho vissuto tranquillo e dimenticato, senza seduzioni, e senza battaglie. Il Signore non ha mai voluto provarmi, forse perchè nella sua sapienza infinita conosceva la mia debolezza. A essere buono, a essere onesto non ho dunque alcun merito; ma tu, tu hai combattuto e hai vinto: combatterai ancora, e quantunque nella lotta possa uscire col cuore sanguinante, non indietreggerai d’un sol passo, non ti farai colpevole di una sola debolezza, perchè, lo sento, tu sei fatta come Dio fa gli angeli!

 

– Ma se un giorno… se un giorno mi sentissi troppo debole, io, povera donna, sola, abbandonata a me stessa?…

– Allora ritornerai nel tuo sicuro rifugio, e se non mi troverai più vivo, ti aspetterò là, – e così dicendo don Gregorio indicava a Maria l’angusto cimitero di Santo Fiore, che si scorgeva poco lungi, colla chiesetta illuminata, tra il bianchiccio delle sepolture recenti. – Ti aspetterò là; e tu, sulla mia croce, ricorderai che questo povero vecchio ti amò, come amò la sua fede; penserai a tua madre, e ritroverai la calma e il coraggio.

– No, no; voi non dovete morire…

– Io sono vecchio; ho fatto molto cammino… e ormai sono stanco, figliuola…

In quel punto, dal vicino sagrato, frammisto al mormorio delle fronde e al vario e acuto frastuono d’una miriade di grilli cantaiuoli, giunse fino al loro orecchio una pia cantilena; un inno grave, melanconico, dolcissimo. Erano le litanie della Vergine, il vecchio canone, che nella sua monotona cadenza ha tanti fascini di mistica melodia, tanta dovizia di memorie intime e care. Erano le voci bianche, argentine delle povere giovanette del villaggio, così colme di fede, d’innocenza e d’amore, alle quali rispondevano in coro tutti i devoti, raccolti nella solitaria chiesetta.

– Sentite… – disse Maria a don Gregorio, fermandosi d’un tratto. – È la Vergine, la Vergine che mi parla in quelle preghiere, la Vergine che mi conforta; oh! beneditemi, beneditemi, padre mio! – E la sconsolata, palpitante, commossa, si curvò baciando, coprendo di lacrime, la scarna mano del vecchio.

Don Gregorio alzò gli occhi al cielo e pregò in silenzio; intanto dalla chiesetta, più chiaro, più lento, usciva l’inno dei credenti:

Sancta Maria

Sancta Dei Genitrix

Sancta Virgo Virginum

Ora pro nobis.

– Pregate ancora, pregate sempre per me!…

– La preghiera più bella, la preghiera più accetta è il tuo dolore. Piangi, figliuola mia, le lacrime sono la preghiera del cuore.

– Promettetemi adesso che, se io fossi presso a morire, voi verrete a consolarmi, a benedirmi, anche laggiù…

– Verrò… figliuola, verrò…

– E… se non riuscissi a dimenticare… se quell’immagine fosse sempre più forte della mia volontà?…

– Combatti, combatti sempre…

– Allora?…

– Allora la tua passione farà di te una martire, e non sarà una colpa, ma un esempio.

– Oh, grazie, grazie! Sento che Iddio non mi abbandona, sento che sarò forte sino alla fine.

Maria si rialzò più sicura e più consolata. Attorno a lei, perdendosi come un ultimo e caro saluto, vagava, fremendo nell’aere, l’onda armoniosa dell’inno sacro. Involontariamente don Gregorio unì la sua voce fioca, tremula a quella squillante, vibrata delle giovanette, che adesso si sentivano sempre più lontano cantare con l’invariata cadenza:

Regina Confessorum

Regina Virginum

Regina Sanctorum omnium

mentre Maria rispondeva col coro, invocando la Vergine santa della nostra fede: Ora pro nobis.