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Mater dolorosa

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XVI

Dall’allegrezza dimostrata e sentita veramente da Lalla, non si deve credere che il capriccetto per Sandrino fosse svanito: tutt’altro; Lalla continuava anzi a scherzare con lui, ma tenendosi sempre a fior d’acqua, mentre il giovanotto c’era dentro fin sopra la testa. Per la signorina quella simpatia lì, era parte della sua vita di villa. Si godeva a tenerselo ben legato perchè Sandrino, libero, non ritornasse dall’Ottavia. Finchè c’era lei a Santo Fiore, sarebbe stato uno smacco troppo forte per il suo amor proprio, ma una volta partita gliene sarebbe importato ben poco di tutta la razza dei Frascolini!… Tant’è, capiva che così non la poteva durare, che non c’era da cavarne nessun costrutto, che una volta o l’altra bisognava pure finirla con quell’intrighetto sentimentale. Lalla voleva vivere, voleva suscitare passioni, voleva primeggiare nel bel mondo, e però s’era consolata all’annunzio della partenza, che mentre l’avrebbe portata in mezzo alla gente, le dava il bandolo per sciogliere quella matassa ormai, fra Sandro e lei, anche troppo imbrogliata.

Ben diversamente certo sentiva e fantasticava il sognatore romantico che aveva creduto, con tutta l’ingenuità de’ suoi vent’anni, ai rossori, agli sguardi, ai teneri sorrisi della divina fanciulla; ma se Sandro era matto, peggio per lui. Sarebbe ritornato savio un giorno o l’altro, e intanto la divina che ci poteva fare? Era stata anche troppo buona da lasciarsi amare!…

Sandro era matto davvero; matto da legare. Egli non viveva che per la sua Lalla, non dormiva più, non mangiava più, non parlava più con nessuno. Camminava per la campagna i giorni interi, fabbricandosi castelli in aria per l’avvenire, e mandando intanto a gambe levate il suo stato presente. Si sentiva ammalato di spirito e infiacchito. Tremava del domani, ch’egli, a occhio nudo, spogliandolo degli smaglianti colori che gli prestava la sua fantasia, sentiva prepararsi ben triste; e allora, pauroso, si ingolfava tutto nell’oggi, e anche lì non c’era altro che una serie di dolori e di desideri, di smanie acute e insoddisfatte. Non lavorava più; fuggiva i compagni, le scampagnate festevoli e chiassose, delle quali un tempo era stato il capo più ameno. Divenuto superbo, lunatico, sospettoso, si era creato una infinità di inimicizie e di antipatie.

La vera cagione, per altro, del suo mutamento non l’aveva indovinata anima viva; neppure la Nena, che portava e riportava i libri da Sandro alla padroncina, senza mai sospettare che insieme coi libri ci fosse una corrispondenza secreta. La Sindachessa attribuiva quelle lune alla nausea del troppo mangiar di grasso; la Ottavia si dava a credere ch’egli la aveva lasciata perchè, come figlio del segretario comunale, non voleva inimicarsi colla moglie del sindaco; e l’organista, maestro di scuola, veterinario (e anche strozzino per meglio campar la vita) spiegava tutto col brutto viziaccio del giuoco, che, come una cancrena, divorava il giovane segretamente, tanto che più d’una volta aveva dovuto ricorrere a lui per aver quattrini.

Tali supposizioni, anche quest’ultima dell’organista, andavano ben lungi dal vero. Sandrino non toccava mai una carta, il bigliardo non sapeva nemmeno che cosa fosse, e se faceva debiti era un soprappiù da segnare sul conto delle sue fortune amorose. Lalla, certo, non lo faceva spendere direttamente per sè; ma, si sa bene, fantasie tutte le fanciulle ne hanno, e per gli amanti è un piacere il soddisfarle; poi ci sono le improvvisate; poi insomma bisogna cercare di fare buona figura, e quindi addio economie dei figliuoli, e insieme addio pazienza dei babbi. E babbo Frascolini, anche lui, la perdè la pazienza, e cantò chiaro sul muso al bambinone, che pecunia da buttar via non ne aveva altra, dandogli in pari tempo una buona lavata di capo per il suo ozio, la sua vitaccia, il suo vestire da bell’imbusto, tutto leccato, profumato, unguentato. – «Il figlio di un segretario di campagna! – vergognati!»

Infatti il giovine adesso era diventato irriconoscibile: tutte le bizzarrie della fanciulla erano sacro verbo per lui. A Lalla un giorno gli uomini piacevano vestiti di velluto, e un altro invece con certe giacche, con certi tout-de-même blu, bigi, verdi, ora a quadretti, ora a righette; e la si accorgeva poi sempre, delicatissima com’era, s’egli adoperava saponi od essenze che non fossero di Pinaud, di Violet o di Atkinson; cianciafruscole che costavano un occhio.

E la signorina aveva minor colpa che non paresse alla prima. Abituata, come si dice, a nuotare nell’abbondanza, il danaro non lo conosceva altro che di nome. Era una sporcizia ch’ella appena toccava colla punta delle dita per farne elemosine, e che credeva colasse giù, naturalmente, dalle mani sempre piene de’ suoi agenti e de’ suoi grassi e numerosi fittaiuoli. Lalla aveva tutto ciò che voleva senza cavar mai un soldo dal borsellino e, per ciò, come avrebbe potuto fermarsi per riflettere se anche a Sandro, sì o no, capitava la roba con la stessa facilità?… Era povero, la famiglia sua non viveva di rendita, ma per trovarsi senza quattrini bisogna essere affatto un pitocco. Un giovinetto che non ha mille lire() lo si compiange e può sembrare anche artistico, sotto un certo punto di vista; ma il giorno ch’egli non ne ha cento in tasca, e fa all’amore, diventa addirittura ridicolo. Per tutte queste considerazioni, Sandro sarebbe morto prima di confessare alla signorina la propria ignobile ristrettezza.

Un’altra spesa superiore alle sue rendite, e alla quale Lalla lo assoggettava senza darsi alcun pensiero, era quella dei libri. Ormai la biblioteca circolante, coi romanzi del Féval e del Ponson du Terrail, non appagava il gusto fine della giovinetta, che si appassionava col de Musset, col Feuillet, col Daudet, ed era poi curiosissima di leggere lo Zola. Perciò, due, tre volte al mese, preparava lunghe noticine di romanzi, che Sandro doveva comperare a quattro lire il volume, e ch’essa poi gli restituiva sempre appuntino, ed anzi, qualche volta, quando il romanzo era noioso, coi fogli non ancora tagliati. E Sandro, come avrebbe potuto rifiutarle quelle garbatezze? Era tutto ciò che la duchessina, circondata dalla ricchezza e dal lusso, non poteva ottenere se non per via del suo innamorato. E, oltre a ciò, i libri, erano pure l’unico espediente che si prestasse alla loro corrispondenza. Il giovanotto ci nascondeva dentro bigliettini pieni di foco, e la fanciulla, che non si era mai lasciata sfuggire una riga di scritto, segnando col lapis alcune parole dei romanzi, con un certo alfabeto combinato d’accordo fra loro due, gli indicava le ore, il luogo dove vedersi e trovarsi, gli mandava ordini e contrordini.

Quando capitavano a Sandro quelle piccole note ed egli si trovava senza il becco d’un quattrino, la disperazione del povero giovane arrivava al colmo; tanto più che la signorina se desiderava una cosa la voleva subito subitissimo, e gli allungava il musetto per ogni ritardo. Un giorno, non potendo più trovar soldi in casa, si ricordò d’un signorotto lì nei dintorni, un suo camerata di scuola; questi, un buon diavolaccio, gli prestò la firma e lo diresse dall’organista. Così Sandro potè contrarre il primo debito. Novellino a siffatte cose, egli non chiuse occhio la notte, tale e quale come la prima notte in cui si era aperto con Lalla, perchè le innamorate e i creditori producono spesse volte i medesimi effetti. Dopo qualche tempo si abituò un poco anche ai debiti, ma, povero figliuolo, si era abituato a star male. Che doveva fare? Anche lui preferiva l’aver debiti al non aver quattrini, e ricordava con raccapriccio la vendita del suo orgoglio, consumata prima ch’egli avesse scoperta la California della cambiale.

La signorina Lalla gli aveva dato appunto la noticina di tre romanzi del Feuillet: Monsieur de Camors, Sibilla, e un altro citato dal buon Filippi nella Perseveranza. Fatta la somma, e colla spesa del viaggio per giunta, occorreva una trentina di lire, ed erano già due giorni, due giorni brutti e neri, ch’egli mulinava spedienti e si grattava il capo inutilmente, quando, premendosi la mano sul petto, come per cacciarne fuori l’affanno, sentì da quella parte certi battiti leggeri che, pure non essendo quelli del cuore, annunciavano che lì c’era la vita: erano i battiti dell’orologio.

– Ah, sì, sì, le trenta lire sono trovate!… Torniamo dunque a volare nell’azzurro!…

Sarebbe partito l’indomani mattina, subito, in omnibus, quantunque da poco in qua egli sdegnasse di servirsi di quel democratico mezzo di trasporto, adoperato dalla gente di villa che viaggiava per economia. Ma necessità non ha legge, e la corsa della strada ferrata non l’avrebbe potuta pagare che a orologio venduto. Durante il viaggio, per altro, la sua gioia ricominciò a intorbidarsi. Sentiva crescere le inquietudini e i dubbi per quella vendita; in città non sapeva a chi avrebbe potuto rivolgersi, e sentiva una gran pena e arrossiva figurandosi d’entrare in una bottega, a domandare: – Quanto mi date di questo?… Se lo avesse saputo la signorina? Si sarebbe sotterrato dalla vergogna! – Per ciò appunto, non aveva voluto vendere l’orologio in paese; in città, almeno, nessuno sapeva chi egli fosse.

– Trenta lire!… Ma… daranno poi trenta lire?… Quando si deve vendere la roba, non si prende più niente!…

In fondo al cuore, sentiva anche un’angoscia grande, profonda per doversi dividere da quel suo vecchio compagno… L’orologio era una memoria della sua mamma; essa lo portava sempre con sè; il giorno della sua morte lo aveva accanto al letto!… Sandro, sospirando, lo levò dal taschino e lo guardò lungamente. Non gli era mai sembrato tanto bello! Gli pareva di vederci dentro qualche cosa della sua povera mamma ammalata, e sentì stringersi il cuore davvero. Diamine! quella goccia ch’era caduta sul vetro era proprio una lacrima; e quando volle asciugarla col dito, la goccia si allargò e lo appannò tutto quanto… No; non doveva vendere l’orologio della mamma. Il venderlo gli avrebbe portato sfortuna. Ma, a Lalla?… Lalla che lo aspettava col Monsieur de Camors, Sibilla, e quell’altro romanzo?… – Non doveva venderlo!… – Si fa presto a dirlo; ma ormai era troppo tardi. Il viaggio bisognava pagarlo, bisognava mangiare un boccone, e in tasca non c’era un soldo!… Si ricordò di essere stato altre volte da un orologiaio, in Piazza dei Mercanti, per qualche incarico avuto dal signor Domenico: egli sapeva ora dove far capo; e con questo pensiero tutte le incertezze svanirono. Un giorno, chissà, quando sarebbe diventato ricco, perchè la prospettiva della ricchezza e della celebrità gli stava sempre fissa dinanzi agli occhi, egli avrebbe potuto ricuperarlo; anzi, lo avrebbe ricuperato ad ogni costo.

 

Appena dentro dalle porte il giovanotto discese in fretta dall’omnibus. Non voleva farsi vedere allo stallatico in compagnia dei villani. Una volta ci si fermava e faceva gazzarra con loro; ma adesso, con una duchessina nel cuore, era diventato aristocratico.

Si avviò subito verso la Piazza dei Mercanti; a mano a mano, per altro, che si avvicinava alla meta, camminava sempre più adagio, fermandosi ritto davanti alle vetrine delle botteghe, senza sapere nemmeno lui che cosa guardasse. Quella strada gli era apparsa, le altre volte, il doppio più lunga, e come si trovò dinanzi alla bottega dell’orologiaio, non ebbe il coraggio di entrarvi. Tirò innanzi, poi ripassò: bisognava pure risolversi, sicuro, ma voleva prima vedere se in bottega c’era il padrone; con quello gli pareva di averci più confidenza: ritornò indietro di nuovo: le tendine erano calate sul cristallo. Occorreva uno sforzo eroico di volontà.

– Ancora un giro intorno la piazza, e poi se non entro diritto in bottega, vuol dire che sono un vigliacco! Alla fine non vado nè a rubare, nè a domandar l’elemosina; vado a vendere la roba mia, e il mercante, se la compera, la compera perchè ci ha il suo tornaconto.

Questa volta entrò veramente.

L’orologiaio, quello stesso appunto col quale Sandrino aveva discorso altre volte, sedeva davanti al tavolo con le sue brave pinzette in mano. Era un tedesco biondo, grassotto, colla faccia rasa; vestiva una zimarra larga, colle maniche rimboccate. Si levò da sedere, tutto d’un pezzo, posando sul banco da lavoro, sotto una campanella di vetro, il castello di un orologio che stava aggiustando, si tolse dall’occhio la lente, dopo aver alzata con due dita la ventola a visiera fin sulla fronte, e disse:

– Pon ciorno – accompagnando il saluto con un cenno del capo.

– Lei forse non si ricorda più di me? – cominciò Sandro, assai rinfrancato, dal trovare il suo omo solo, in bottega. – Sta bene?

Il tedesco squadrò il giovine con due occhiacci bigi, e un po’ loschi per l’uso della lente.

– Penissimo, crazie.

– Sono Frascolini di Santo Fiore. Si ricorda?

– No, signore, non ricorto. Necozio crante; fiene, fa molta cente. A’ suoi comanti.

– Io sono stato da lei l’anno passato…

– Oh! anno passato! Come posso ricortare anno passato…? – e il tedesco alzava una mano movendola in modo che pareva cacciasse le mosche dall’orecchio.

– Ci sono venuto per conto del signor Domenico; del nostro sindaco…

– Penissimo, penissimo. A’ suoi comanti.

– Vorrei, se le fosse di comodo, vorrei… – e Sandro, che aveva già in mano il suo bravo orologio, stava appunto per fare l’offerta, quando di colpo, sbattendo con violenza l’uscio a cristalli, entra in bottega una bella signora, e assai elegante. A Sandrino mancò nuovamente il coraggio; avrebbe aspettato, e sarebbe anche andato via volentieri, ma il tedesco non badava nemmeno alla signora, e continuava a guardare il giovane con una tal quale serietà, che voleva dire: – alle corte, sbrighiamoci.

– Vorrei, vorrei… cambiare il mio orologio. Ma non ho premura, posso anche ritornare più tardi, faccia il comodo della signora.

– Oh! la signora è mia moglie.

A questa risposta il filodrammatico si sentì cascare le braccia. Non poteva certo tornare indietro, e adesso, dopo quella maledetta parola – cambiare – che gli era scappata, non sapeva più come tirare innanzi.

Intanto la bella signora, passava d’accosto al marito, dall’altra parte del banco, e spogliatasi del cappellino e dei guanti, distendeva sopra il tappeto di panno verde, remontoirs, cilindri e cronometri di oro e d’argento, levandoli fuori da una cassetta suddivisa in tante piccole scatole, l’una dentro l’altra. La signora parlava l’italiano speditamente; era gentile e chiacchierina assai. Mostrava al giovane gli orologi accompagnandoli con certi sguardi che dicevano tutto; maneggiando la merce delicatamente colle dita bianche, un po’ impacciate dai grossi anelli ingemmati, e facendo saltare le casse e le calotte colle unghiette rosa, lucenti e forti come l’acciaio. Il tedesco non fiatava, lasciava fare alla moglie, e flemmaticamente, con una pezzuola di lino, ripuliva il metallo degli orologi che si appannava a toccarlo.

Sandro, dinanzi a tanto tesoro, restava intontito, colla bocca aperta, e l’orologio da vendere in tasca. Non sapeva risolversi, e capiva di essere in una condizione molto ridicola. Ad ogni momento credeva di sentire dietro le spalle il riso schernitore della duchessina, mentre tutti gli orologi a pendolo, appesi all’intorno, coll’oscillar dei dondoli, che variavano dalle note acute, argentine, a quelle più gravi e profonde, gli mettevano il capogiro, e pareva lo deridessero, ripetendo il nome di Lalla in ogni tono, coi loro tic tac, lenti, misurati e monotoni.

Non c’era più scampo; la sua parte era proprio quella dell’Arlecchino finto principe! Faceva un viaggio per guadagnare trenta lire coll’orologio della sua povera mamma, e l’orologiaia, invece, gli offriva certi patek a precisione che ne valevano seicento!… Già, vedendolo così elegante, lo avevano preso per un riccone!… E intanto restava lì, impalato, senza dir nulla. Andar via?… Si fa presto; ma come andar via, se non sapeva trovare una scusa?… Poteva dire che gli orologi erano troppo cari. Eh, ma la signora ne aveva anche di minor prezzo. Provare con un’offerta impossibile?… E se poi era accettata?…

Finalmente, prese tutto il suo coraggio a due mani, e – questo mio – domandò, levando l’orologio dal taschino – quanto me lo valuterebbe? – Il tedesco staccandoglielo dalla catenella di similoro, si ficcò la lente in un occhio, lo aprì, e dopo averlo esaminato ben bene di dentro e di fuori, borbottò qualche parola colla moglie.

– Sa – rispose la signora a Sandrino, sporgendo i labbruzzi – è un’anticaglia. Ha difettoso lo scappamento; ci sarebbe bisogno di molte riparazioni e – aggiunse poi sorridendo – le converrebbe meglio di tenerlo in serbo per la prima cresima. – Sandro, che si era sentito agghiacciare, sorrise un poco anche lui, per darsi tono.

Nel frattempo, erano entrati in bottega due nuovi avventori. Ma non avevano fretta, aspettavano che il forestiere avesse conchiuso il suo affare, esaminando le mostre e occhieggiando la bella signora.

– Anche se non mi conviene, poco importa. Non so che farmene di ferravecchi, e per le cresime, a far buona figura, sa bene, oggimai, ci vuol roba nuova.

Marito e moglie si consultarono, guardandosi negli occhi, senza parlare. – Tutt’al più – disse lei – posso valutarlo trenta… trentadue lire; e faccio un affare assai magro. – Trentadue lire! E Sandrino che avea ripetuta mentalmente la somma, ebbe un sussulto di gioia: i libri della signorina non iscappavano più. Allora si fece animo. Già non poteva tirarla in lungo fino a sera: i quattrini c’erano e ne cresceva: tornava conto finirla.

– Facciamo così – concluse con la voce che un po’ gli tremava: – intanto si tenga il mio: voglio liberarmene; coll’ordinario venturo poi, passerò con mio padre e allora, sentendo anche il suo parere, mi risolverò per l’uno o per l’altro di questi due. – E l’ingenuo ragazzo indicava un paio di remontoirs, dei più cari.

– Oh! – questa volta fu il tedesco a parlare – altra cosa fendere, altra cosa prender per cambio! – E marito e moglie, voltate le spalle a Sandro, presero a servire gli altri avventori, lasciandolo con un palmo di naso a contemplare il suo scaldaletto dimenticato sul tavolo, aperto e, per soprappiù, calunniato nello scappamento.

– Per finirla – conchiuse Sandrino, il quale, vedendo che non lo sbrigavano mai, cominciava a perdere colla pazienza anche un po’ la soggezione – quanto mi dà, dunque, adesso?

– Fenti lire, e foglio essere rincraziato.

– Bene, lo tenga.

Venti lire? Volevano strozzarlo; quest’era un rubare a man salva; ma al giovinotto, ancora digiuno, anche la fame gli diceva una parolina, poi non aveva più lena di andare avanti colla via crucis in un’altra bottega e in un’altra e in un’altra, col rischio magari, di non poterlo vendere neppure. – In tal caso, come se la sarebbe cavata? E a Santo Fiore, come ci sarebbe tornato? – L’orologiaio intanto, aveva borbottato di nuovo colla moglie, la quale, aperto un cassettino, buttò sul tavola due biglietti sudici da dieci lire.

Sandro li afferrò con orgasmo; poi, senza cavarsi il cappello, infilò diritto la porta; ma sentì richiamarsi.

– Quel giovane!… e la firma?

Sandro aprì tanto d’occhi, maravigliato; ma non c’era verso, dovette proprio scrivere nome e indirizzo sopra un apposito scartafaccio, mentre sentiva la bella signora spiegare agli altri, i quali comperavano un orologio davvero, come la faccenda del far apporre la firma fosse una prescrizione imposta dalla questura, per il caso che comperassero, senza saperlo, roba rubata. Sandrino sentì un gruppo alla gola, e scappò via per non piangere:

– Rubato!… l’orologio della mia povera mamma!… Rubato!

La sera stessa, senza lasciar scorgere quanto gli erano costati cari, e dimenticando anzi, per quel momento, tutte le ambascie sofferte, egli consegnò a Lalla i romanzi: mancava solo il Monsieur de Camors, che non c’era potuto entrare nelle venti lire.

– Oh, che peccato! – esclamò la signorina sinceramente. – Di questi non so che farne!… Li ho trovati dalla mamma, cercando in mezzo ai suoi libri. Era solo il Monsieur de Camors che desideravo!… Che peccato! – E distratta e mortificata, si pose a tagliuzzare le carte sbadatamente, con una stecca d’argento a cesello, che avrebbe potuto pagare, essa sola, tutti i debiti del Frascolini.