Za darmo

Mater dolorosa

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– Ohi! Ecco don Vincenzo!… Non avete sentito a chiamare la signora miss?

– No.

– È un’ora che si cerca; dove sarà andata a ficcarsi?…

– L’ho veduta poco fa… mi ha chiesto, anzi, della signorina.

– E la signorina cerca la miss!…

– Oh, guarda guarda, combinazione!…

Tutti e tre ritornarono insieme verso casa, dove trovarono appunto l’istitutrice che scusava la sua assenza dicendo di aver preso un po’ di fresco sotto il pergolato, perchè soffriva di nervi.

La brigata prestò fede al racconto; non così Lalla, che fissò l’istitutrice e sorrise.

Salutati affabilmente gli ospiti, la signorina e la miss si ritirarono, e la Nena con loro.

Lalla sentiva gli occhi di Sandrino che cercavano i suoi, pure gli passò dinanzi senza guardarlo. Le tre donne fecero la scala in silenzio; ma poi, prima di separarsi, sull’uscio delle loro camere, la signorina vedendo la miss che brontolava, minacciando l’emicrania per l’indomani, le domandò fissandola bene in faccia, con un certo tono impertinentino:

– Scusi, miss, non crede lei di aver presa l’emicrania stando troppo al fresco sotto il pergolato?

– Probabile… probabilissimo. Buona notte.

– Ma… un momentino, miss… mi lasci vedere… oh curiosa! Che cos’ha sulle guance?

– Io?…

Lalla prese, il fazzoletto e lo passò qua e là sulla faccia scialba dell’istitutrice.

– Sarà polvere…

– Sicuro, polvere di tabacco!

La miss diventò verde, perchè non poteva diventar rossa. – Oh! Sarà… certo… m’hanno detto che fa tanto bene per la nevralgia.

– Ma è inutile metterne sulle guance… e nemmeno sugli occhi… e sul collo!

Lalla aveva indovinato, da quei segni, i passaggi del naso di don Vincenzo, e una tale scoperta le fece molto piacere: quella donna, la inflessibile guardiana, ella ormai la teneva in sua balìa.

– Mi pare impossibile…

– Oh, anche a me pare impossibile, miss, ma è proprio vero!

L’istitutrice si sentì perduta: la bocca aperta, il candeliere in una mano, il libro delle preghiere nell’altra, immobile sotto il plaid grigio che teneva sulle spalle, fissava la signorina e non poteva più muovere un passo, non sapeva più dire una parola.

– Buona notte, buona notte, miss, e, per conto mio, non abbia timore di nulla. Dorma, dorma sonni tranquilli… – E la signorina sorrise un’altra volta salutando colla mano l’istitutrice attonita, e raggiunse la Nena…

Sandro mantenne il giuramento. Lasciò gli amici, e approfittando della lite successa, non accompagnò a casa l’Ottavia: la Veronica giubilava e, non avendo di meglio, si sfogava abbracciando il signor Domenico.

Sandro andò camminando a casaccio per la campagna, solo solo, fin quasi all’alba, e poi, rincasato stanco, si buttò sul letto senza poter dormire, nè riposare, e continuò a sognare le cose più strane. Sognava di farsi un nome, e guadagnarsi la gloria e le ricchezze colle sue attitudini artistiche. Le manine lunghe e nervose della signorina, gli avevano fatto vibrare, possenti, le corde dell’amore e dell’ambizione. Quella vittoria ch’egli credeva sua, mentre il vinto invece era lui, fe’ dar di volta al cervello del povero figliuolo. – Come aveva ottenuta la donna, superando tutti gli ostacoli, non sarebbe riuscito anche a crearsi uno stato che lo rendesse degno di lei? Degno di lei, s’intende, agli occhi della sua famiglia, agli occhi del mondo…; per il cuore della fanciulla, egli lo era sempre stato. Lalla, la sua Lalla aveva arrossito d’amore e si era mostrata gelosa!… – E ciò bastava perchè Sandro vedesse la bionda duchessina rifiutare i più ricchi pretendenti per aspettar lui, e per la consolazione di diventare la moglie del celebre Frascolini!… Così sognando, sognando sempre, egli perdeva di vista la realtà delle cose e, svanita la spensierata allegrezza dei suoi vent’anni, cominciava a essere malcontento di sè e degli altri, e a trovarsi a mano a mano sempre più infelice. Il giovinotto, che fino allora era rimasto pago dell’affabilità dei Conti di Santo Fiore, i quali si degnavano di tenerlo ospite nelle loro anticamere, adesso imprecava contro il pregiudizio ignorante e le ingiustizie aristocratiche, che pretendevano, con cento braccia, di opporsi al suo ingresso nella camera da letto della duchessina Lalla d’Eleda. D’altra parte sdegnava il nome onorato di suo padre, disprezzandone la condizione umile e plebea: le modeste aspirazioni e le gioie fino allora godute, perdevano ogni attrattiva per il giovinotto povero e oscuro, che voleva essere ricco e illustre, e che in quello squilibrio fra il volere e il potere, si trovava, si sentiva spostato. Uno spostato!… Il figlio e nipote dei segretari comunali di Santo Fiore, i quali occupando quel posto avevano sperato di tenerlo in serbo anche per lui, dove, come sarebbe andato a finire?…

E Lalla?… Lalla si svegliò che il sole era già alto, e fu suo primo pensiero quello di accertarsi di non aver detto o fatto nulla che potesse comprometterla. Poi pensò all’Ottavia, alla Veronica, e sorrise, l’orgogliosetta, della propria vittoria. Pensò, e molto, anche a Sandro, alla maschia bellezza, al volto colorito, alle labbra che bruciavano, alla voce tremante del giovane; ricordò che la Nena, quel giorno, sarebbe andata da lui per avere i libri promessi, e indovinò arrossendo dal piacere, che nei libri ella avrebbe trovata una lettera…

– Ma io non ti risponderò, signorino bello! – esclamò scherzando con Musette, la quale, veduta muoversi la padroncina, era saltata sul letto, vispa, festante, dimenando la coda, e abbaiando dall’allegrezza. – No, no! – e Lalla parlava colla cagnetta come se questa fosse appunto Sandrino. – No, no; non voglio rispondere alla tua lettera, è inutile che ti arrabbi, è inutile che tu mi morda le mani; in questo caso tu prenderai un buon scappellotto, così… – e la fanciulla faceva seguire l’atto alle parole – ma una risposta scritta, non l’avrai no, no e no… Col tuo bel musino, tu saresti capace di mostrare le mie lettere agli amici… Ah! vedi? Hai detto di sì! – esclamò Lalla ridendo di uno starnuto della cagnolina, che veniva a proposito come un’affermazione.

– Saresti capace di farmi piangere un giorno, quando non potrò più volerti bene, perchè dovrò sposare un signore, più bello di te!… Indietro, subito; che non voglio baci! Vergognatevi! Mi credete forse miss Dill?… Indietro!… Va via!… e la fanciulla con le braccia tese, si teneva lontano Musette che allungava il collo per arrivare a lambirle la faccia. – Ohè! birichino! Volete rompermi la camicia?… – Va via! – da bravo!… Non dovete veder nulla… cattivo… brutto… Ah! cattivo, cattivo! – La piccola Musette, con un salto improvviso, le era arrivata dietro le spalle, poichè Lalla stava a sedere sul letto, e leccavale il collo, la faccia, le orecchie, facendola gridare dal solletico e dal piacere, finchè la fanciulla, presa la cagnolina, si rannicchiò con essa sotto le coltri, mordendola alla sua volta, e soffocandola quasi, tanto la stringeva forte contro il petto.

XV

Don Gregorio era un sant’uomo. Anch’egli, come Maria, non era di questo mondo, e pieno di criterio e di dottrina, pure si presentava inerme contro la furberia e la doppiezza che sapevano sorprendere la sua ingenuità. Egli conosceva il cuore umano, conosceva anche le passioni, ma per quel tanto che il cuore e le passioni dell’uomo avevano bisogno di aiuto e di conforto; del resto i buoni e i cattivi erano i felici e gli infelici; ma la malvagità stessa non era per lui altro che una sventura. Ma se tutto il male non viene per nuocere, così non tutto il bene riesce a giovare; e don Gregorio, preso nelle reti del duca d’Eleda, ne divenne in breve uno strumento docile e cieco.

Prospero Anatolio si era messo a fare in quel tempo frequentissime gite a Santo Fiore, e invece di farsi condurre colla carrozza direttamente al Palazzo, smontava prima alla canonica, in cerca di don Gregorio, e tutt’e due passavano ore e ore in secreti colloqui. Il piano del duca era altrettanto semplice, quanto pratico: confessione intera dei propri torti rispetto alla moglie, e delle proprie colpe rispetto a Dio, scusandosene in parte e accusando a sua volta la severità eccessiva della duchessa Maria, che lo aveva abbandonato, lasciandolo solo, senza affetti e senza conforti. Se Maria fosse stata per lui una moglie amorosa, oh allora come egli si sarebbe sentito forte contro le tentazioni! Ma invece, veduto appena il marito vicino al pericolo, essa non volle sentir difese, non volle sentir preghiere… anzi pareva avesse paura ch’egli fosse innocente!… Certo certo, lì sotto covava un segreto, un segreto del cuore, ancora vivo e forte dopo tanti anni, il quale aveva cominciato dal consigliare a Maria di fuggire, e che poi l’aveva seguita nel suo ritiro, innalzandosi sempre tra di loro come una porta di bronzo. Ma se un simile stato di cose egli aveva potuto sopportare a stento come marito, non poteva più farlo ormai come padre. Egli voleva redimere i propri trascorsi con una vita nuova; e se fino allora si era lasciato sacrificare, adesso avrebbe impedito ad ogni costo che fosse sacrificata anche Lalla, la sua Lalla adorata, che l’egoismo di Maria seppelliva a Santo Fiore, mentre invece doveva entrare nel mondo a fianco della madre per esservi felice, e per trovarvi quel collocamento ch’egli le augurava colle benedizioni del Cielo.

E a proposito del segreto del cuore, il duca Prospero diceva proprio la verità… senza saperlo. Certe cose delicate, quando si credono sul serio, non si raccontano mai. Invece, per il cieco marito, quell’amore di Giorgio era sempre la commediolina della moglie ch’egli si compiaceva di risolvere a proprio vantaggio. E anche adesso ne faceva suo pro con don Gregorio per circuirlo, per abbindolarlo, per farselo alleato, e raggiungere il suo fine: la riconciliazione di Maria, la quale riconciliazione si era fatta, in seguito agli ultimi avvenimenti, e secondo le sue viste, più che mai necessaria.

 

Dopo l’avvento della Sinistra al potere, e specialmente dopo la morte di Vittorio Emanuele, l’onorevole della curia di Borghignano, spaventato dal famoso ponte, gridava ai quattro venti di non volerne mai più saper di politica; profetava torbido, minaccioso il futuro, e consigliava a tutti di rinchiudersi in casa, finchè di fuori fosse calmata la tempesta. In gran parte, quella paura egli la sentiva davvero; e se prima gliel’aveva inspirata il novantatrè, adesso anche il nichilismo e l’internazionale ci mettevano lo zampino. Ma non era poi altrettanto sincero quando strombettava di non volerne più sapere di deputazione. Non era stato lui che aveva piantato in asso gli elettori; al contrario gli elettori avevano lasciato lui sul lastrico, mandando a Roma, in sua vece, il conte Della Valle, il quale non salì la Montagna, come qualcuno aveva temuto, ma rimase al centro sinistro. Fermata opportuna, che tranquillò un poco le teste quadre del gran caffè di Borghignano, occupate, in quello scorcio di elezioni, a fare e a disfare l’Italia, la monarchia e la repubblica due volte al giorno, regolarmente: la mattina all’ora di colazione, e la sera dopo il teatro.

In quegli ozi forzati dopo l’amara sconfitta, Prospero Anatolio pensò che colla scusa di dedicarsi alla figlia, avrebbe potuto riavere la moglie, che vedeva farsi più bella e più fiorente, quanto più egli diventava vecchio e floscio… e poi c’era un’altra circostanza che lo infervorava in quel disegno. Il duca, da qualche mese facente funzione di sindaco a Borghignano, voleva esser nominato sindaco effettivo per poter arrivare più presto alla Camera vitalizia, e sperava molto nell’aiuto dei pranzi e delle feste, già esperimentato con buonissimo esito a Firenze.

Tutte queste circostanze, tutto questo miscuglio di passioni, di vanità, d’interessi non solo non erano indovinati, ma non avrebbero potuto essere nemmeno supposti dall’ingenuità di don Gregorio, che nel duca d’Eleda vedeva solo un padre e un marito amantissimo della moglie e della figliuola, e solo desideroso di riparare i propri torti. Per tutto ciò il buon prete si faceva in quattro pensando al modo di consolarlo e di aiutarlo; ed era già parecchio tempo che colla perseveranza più ostinata, martirizzava la duchessa per indurla a riconciliarsi col marito. Oltre all’autorità che don Gregorio godeva sull’animo di Maria, egli sapeva toccarle tutte le più riposte corde del cuore, presentandole da un lato l’avvenire della figlia, dall’altro lo stata anormale del signor duca, e la poveretta, sentendosi meno sicura dopo tante lotte, domandava angosciata a sè stessa se aveva proprio diritto di ostinarsi nel non voler perdonare, e temeva e tremava che l’affetto serbato vivo nell’anima non la rendesse colpevole come moglie e come madre.

Questo tasto, delicato assai, don Gregorio non si era ancora arrischiato a toccarlo. Esitava, un poco per naturale riguardo, un po’ perchè voleva servirsene come un argomento formidabile, per dar l’ultimo colpo quando Maria fosse vicina ad arrendersi. Per tentarlo davvero ci volle la spinta del duca, il quale minacciava una scenata, uno scandalo se non si faceva a suo modo: – Bisogna battere il ferro quando è caldo! – pensava Prospero Anatolio.

In fatti, capitato uno di quei giorni a Santo Fiore, il duca aveva passata tutta la mattina alla canonica, senza che Maria, uscita in carrozza a passeggiare, sospettasse il suo arrivo. Era una bella giornata di giugno, venuta fuori dopo un’acqueruggiola fitta, che pareva avesse dato una mano di calore a tutto il verde della campagna, al turchino del cielo, alle case, al villaggio, al campanile e ai monti lontani, che si disegnavano nettamente sull’orizzonte, senza penombra, e senza sfumature. Si respirava un’aria fresca e leggera, piena di atomi profumati che la pioggia aveva sbattuto dalle erbe e dagli alberi. Anche don Gregorio sentì il bisogno di rivivere all’aperto, e partito appena il signor duca, si avviò, passo passo, fino al piccolo cimitero del borgo. Ivi fatta una breve sosta, nell’uscire incontrò Maria che passava in carrozza; e la carrozza ad un cenno della duchessa si fermò subito.

– Vuol salire con me, don Gregorio? Lo accompagno a casa.

– Grazie, figliuola; ma vorrei fare due passi; ne ho bisogno.

– Allora scendo, e cammineremo un po’ insieme.

Maria smontò infatti, e tutt’e due tennero dietro alla carrozza che andava lentamente verso il paese. Don Gregorio non disse nulla a Maria dell’arrivo e dei lunghi discorsi fatti quel giorno stesso col duca Prospero; ma coll’eloquenza della convinzione e del cuore ritornò bravamente all’assalto.

Le fece capire che per l’avvenire e per la felicità di Lalla, era ormai necessario di prendere una risoluzione. La fanciulla s’era fatta una giovinetta, e non poteva più vivere in campagna. Bisognava ritornare a Borghignano: e allora Maria come avrebbe potuto rimanere in collera con suo marito? Per tutti e due doveva essere uno stato di cose insoffribile e da non potersi sostenere. Lalla stessa, notando la vita così irregolare dei genitori, ne avrebbe forse cercato anche la cagione angustiando il suo cuore di figlia colla scoperta di una verità molto dolorosa… e anche pericolosa assai per la serenità della sua coscienza e de’ suoi affetti. In ogni modo, il signor duca era pentito, pentitissimo… e domandava perdono de’ suoi falli. – Ma poi, in fine, se il signor duca si era allontanato qualche volta dal buon sentiero, non sentiva ella pure nel suo cuore di donna, di moglie, di aver contribuito a quel traviamento, colla propria durezza, colla propria inflessibilità?… Come pretendere che facciano gli altri il proprio dovere, quando noi ci rifiutiamo di adempiere il nostro?… E Lalla, che adorava il signor duca, non avrebbe trovata un giorno troppo eccessiva e crudele quella severità della mamma?… Finalmente poi Maria non aveva diritto di separare il babbo dalla figliuola, come non poteva più oltre rifiutarsi di dimenticare un’offesa, una grave offesa, ma dolorosamente espiata. – Bisogna perdonare – concluse don Gregorio – per essere alla nostra volta perdonati; e il Signore, che aveva insegnato ciò col suo esempio, aveva cara sopra tutte la virtù del perdono; era quella che maggiormente avvicinava ai beati spiriti del Paradiso la creatura della terra.

– Io gli perdono, io gli ho perdonato, – balbettò Maria, un po’ mortificata dalle gravi parole del vecchio sacerdote.

– Non basta… bisogna amarlo… egli è tuo marito; hai giurato a Dio che lo avresti amato per tutta la vita.

– Amarlo… amarlo, non posso, non posso!

– Perchè non puoi?… Sarebbe adunque così grande il tuo orgoglio da tener chiuso il cuore per sempre ad ogni dolce sentimento, oppure… oppure dimmi, figliuola, nel tuo cuore nasconderesti un segreto, un segreto che non mi hai confidato?

E don Gregorio si fermò per fissar Maria attentamente, e la vide rossa, confusa, chinare il capo sul petto.

– Dunque è proprio vero? Tu ami?… Ami un altro uomo?… So, so, so tutto ciò che mi vuoi dire: tu non ti credi colpevole perchè sei fuggita prima di cadere: ma nella fuga hai portato un’immagine nel tuo cuore; un’immagine che avresti dovuto scacciare, dimenticare, e invece è quest’immagine che oggi ancora si pone fra te e il tuo dovere.

Ah! era davvero una colpa quell’amor suo misero e caro?… e lo scrupolo, il dubbio della povera tormentata adesso si mutava in rimorso.

– Oh! no, no, don Gregorio! Io non sapevo di amare, fu un sogno, e quando mi sono svegliata non ero più padrona del mio cuore, non potevo altro che fuggire, e son fuggita via subito. Lui non sa nulla… mi ha veduta fredda, mutata, dubita che io non gli voglia più bene, non si ricorda più di me. Qui, così sola, lontana da tutti, non credevo di far male se pensavo a lui, qualche volta. Quel pensiero mi faceva tanto bene, mi rifaceva buona, mi confortava! Non era un turbamento, ma una consolazione che mi dava quiete e forza… che mi aiutava a vivere.

– Sei madre e parli in questo modo? In tua figlia non avevi la consolazione, la quiete, la forza? Sei madre, e tua figlia non ti bastava per vivere? Piangi?… Sì… sì, piangi, Maria, perchè hai grandemente offeso la Provvidenza.

Maria si era sentito stringere il cuore per l’inesorabile verità di quella risposta; e mentre grossi lacrimoni le colavano giù dagli occhi, balbettava timidamente, come per iscusarsi: – Non l’ho più riveduto… Non gli ho più scritto… non sa più niente di me…

– E per questo – esclamò don Gregorio, colla voce mal ferma – e per questo sola ti credi onesta; ma onesta, sei agli occhi degli uomini, non agli occhi di Dio. Come donna, se non hai fatto male, lo hai amato, e come sposa, dalle tue promesse inviolabili, sacre di fedeltà e di amore, hai sottratto la parte più bella, l’anima e il cuore.

Povera Maria! Ella continuava a piangere; ma le sue non erano le lacrime sole del rimorso; c’erano pur quelle ineffabili del sacrificio che stava per compiere: della sua cara libertà e del suo casto rifugio. E poi c’era un altro pensiero, un pensiero più forte di lei, che si faceva strada in quel turbamento dello spirito, per angosciarla e insieme per consolarla, spaventandola e facendola quasi contenta di essere costretta a cedere alle insistenze di don Gregorio… il pensiero di rivederlo.

Tutto ciò si agitava nel cuore di Maria colla lotta di mille sentimenti opposti e confusi, che si urtavano insieme, che la straziavano, e guardando a ritroso nei lunghi anni trascorsi rimpiangeva il passato, che era solo la calma di un gran dolore, ma che le appariva in quel punto come una felicità cara e perduta.

Intanto don Gregorio, vedendola scossa, s’infervorava sempre più rivolgendosi al suo cuore, alla sua ragione, alternando le preghiere al comando, le promesse del premio alle minacce del castigo, finchè la povera donna, spaventata e vinta, promise formalmente che si sarebbe rassegnata a compiere ciò che doveva essere il suo dovere. Don Gregorio sentì allora nel proprio cuore il peso del grande sacrificio che stava per imporre, e commosso a sua volta le strinse la mano, mormorando con un’espressione d’affetto indicibile: – Coraggio, figliuola mia, coraggio! – Poi tutt’e due continuarono silenziosi il loro cammino verso Santo Fiore, mentre le povere contadine, abbrustolite dal sole e sfinite dalla fame, che incontravano la ricca duchessa, borbottavano contro la Provvidenza… che concedeva il Paradiso ai signori in questa vita e nell’altra.

Quando don Gregorio e Maria giunsero a vista del Palazzo, scorsero subito il duca d’Eleda: questi, veduta arrivare la carrozza vuota, aspettava ansioso presso il cancello.

– Mio Dio!… – balbettò Maria con un brivido. Non le lasciavano nemmeno il tempo per respirare, per riflettere, per soffrire un po’ sola, in pace…

– Coraggio, coraggio – ripetè ancora don Gregorio, ma più a bassa voce.

Il duca Prospero li ebbe subito raggiunti, e salutata affettuosamente Maria, che rispose con un cenno del capo, entrarono insieme nel giardino.

– Abbracciate vostra moglie – disse don Gregorio al duca, che lo interrogava cogli occhi – essa vi ha perdonato.

Prospero Anatolio uscì in una esclamazione inarticolata di sorpresa e di gioia, e strinse forte la moglie contro il petto, baciandole la bocca e le guance.

Maria, dopo tanti anni, sentiva con disgusto l’alito caldo di un uomo bruciarle la faccia; le sembrò di esserne contaminata, di essere divenuta indegna dell’ideale purissimo, che ad onta della sua volontà e del suo sincero pentimento era ancora, era sempre vivo nel suo cuore, come le gemme del mare che l’onda in tempesta non frange, ma rende più vivide e scintillanti. Al duca tremavano le labbra, balbettava, e il volto pallido, scialbo, avrebbe mostrato ad occhi più esperti che non fossero quelli di don Gregorio, come non venisse solamente dal cuore tutta quella grande commozione. Ma don Gregorio, invece, ammirava Maria intenerito, e si sentiva contento come di un’opera buona e bella, della quale egli si sapeva artefice.

Di solito, Prospero, accompagnava il prete quando questi ritornava alla canonica; invece quel giorno non si mosse. Egli aveva bisogno di godersi tutta la dolce felicità della famiglia: voleva star colla moglie: sentiva di non poterla più abbandonare, e infatti, aspettò l’ora del pranzo passeggiando in giardino con lei, tenendola stretta al suo braccio, chiamandola con tutti gli sdolcinati nomignoli imparati già dalla de Haute-Cour. Ma a poco a poco egli si faceva più taciturno, fissava Maria divorandola cogli occhi; e da pallido diventava rosso in viso, con due chiazze accese che gl’infiammavano le guance agli zigomi. Pareva distratto, preoccupato, inebetito; di tanto in tanto si guardava intorno, inciampava; poi, con malizia premeditata, facendo alla moglie certi() visacci che volevano essere sorrisi, la spinse, serrandola fianco a fianco, sotto un capanno fitto di convolvoli; e là dentro, abbracciandola e stringendola all’improvviso, di nuovo la baciò sulle labbra, sulle guance, sul collo.

 

– No, no, no… – supplicava la poveretta, tentando inutilmente di svincolarsi dalla stretta e di difendersi da quella bocca sgarbata.

– Sei… mia… a… adesso… mi hai pe…e... – e non riuscendo a finir la parola, e Maria piegando vivamente la faccia per ischivare il fiato che l’ammorbava. Prospero Anatolio le stampò un altro bacio, sopra l’orecchio, che la fece rabbrividire.

– Babbo!… Babbo!… – si udì gridare in quel punto da Lalla, che si avvicinava al capanno correndo.

– Lalla! – esclamò Maria; e adesso, al disgusto e alla collera aggiungendosi il timore di poter essere sorpresa dalla propria figliuola, respinse il duca, facendolo rinculare d’un passo.

Lalla ritornava allora da un pellegrinaggio alla Madonna di Valsanta, quattro ore di strada a piedi, impiegate nel recitar rosari e litanie. La duchessina, creata priora della Scuola Cristiana di Santo Fiore, aveva ordinato, col mezzo di don Vincenzo, quel devoto pellegrinaggio.

Vi avevano preso parte tutte le maestre, tutte le alunne della Scuola, capitanate dalla signora Sindachessa, e soltanto la bella Ottavia non vi era intervenuta. Ma Lalla, da qualche tempo, si prendeva un po’ troppo il divertimento di farla arrabbiare, non parlandole mai, non salutandola nemmeno, mentre invece era piena di gentilezze per la signora Veronica; e perciò, non volendo ammalarsi di fegato, nè contribuire alla gioia della rivale, la bella bionda si sfogava con un’alzata di spalle, e schivava le occasioni di trovarsi insieme.

Digiuni, novene e tridui, alla cui spesa avrebbe supplito Lalla colla sua cassetta privata, avevano preceduto il pellegrinaggio. Lalla, miss Dill, don Vincenzo intonavano le orazioni, ripetute dal coro, che cangiava ciliege e parole. Nè in quella processione mancavano le belle ragazzotte, ragion per cui agli svolti delle viuzze, o vicino ai tabernacoli, c’erano appostati gli zerbinotti, che seguivano da lungi la brigatella, sfidando le occhiatacce irose della signora Veronica, che si voltava indietro borbottando inviperita, coll’autorità del sindaco suo consorte, che ella sentiva di rappresentare.

Anche la duchessina era severissima, in fatto di morale e, per un nonnulla, faceva cancellare le giovani dal registro della Scuola Cristiana; ma, per debito di giustizia bisogna anche aggiungere che sapeva dare il buon esempio. In fatti il giovane Frascolini avrebbe perduto subito tutta la protezione della fanciulla soltanto che si fosse lasciato vedere durante il pellegrinaggio. Lalla si era confessata, doveva comunicarsi a Valsanta, era pentita dei propri peccati, e coll’atto di contrizione faceva solenne promessa di non commetterne più… fino alla sera, alla sera di quel giorno medesimo in cui doveva trovarsi con Sandrino. E forse, appunto per questo dolce ritrovo, la signorina avrebbe rinunciato di gran cuore anche all’arrivo improvviso del babbo, ch’ella per altro spiegava a tutti quanti come un primo miracolo concessole dalla Madonna, che le mostrava in tal modo di aver molto gradito il pellegrinaggio a Valsanta.

E anche quel giorno essa abbracciò il suo caro papparino con grande effusione di tenerezza; e durante il pranzo fu amabilissima, e sostenne da sola, si può dire, tutta la conversazione. In fatti Maria si mostrava pensosa e triste e la miss s’era imbronciata col signor duca, perchè questi aveva dimenticato di complimentarla secondo il solito. Infelice miss Dill! Non sapeva che sorba l’aspettava alle frutta!… La notizia che due giorni dopo sarebbero partiti tutti per Borghignano!… Lalla, a quell’annunzio, non si ricordò del Frascolini, ma fuori di sè per la gioia di diventare cittadina, saltando e battendo le mani dall’allegrezza, volle buttarsi subito al collo del babbo. Maria ebbe ancora un sospiro profondo, sommesso, mentre miss Dill colla bocca aperta, impeciata di marenga al zabaione, lo sguardo esterrefatto, che facea ridere nella sua terribilità, diventava verde, gialla, livida, con un sobbalzo così forte di tutta la sua anatomia che pareva scricchiolasse.