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Mater dolorosa

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XXX

Trascorsi in pace alcuni giorni e riposatasi alquanto dal gran pericolo che aveva corso, la contessa Lalla era tuttavia sempre assorta col pensiero nelle vicende di quel momento tanto angoscioso e terribile. Vedeva ancora sua madre fremere di amore e di dolore, nel compiere l’ineffabile sacrificio; sentiva ancora, nell’anima, l’eco di quelle parole che Maria le aveva gettate in faccia calde, vive, sanguinanti, come i brani di un cuore infranto, e tutto ciò mentre si agitavano in lei, mentre correvano nel suo sangue le prime fiamme di quella istessa passione. Giorgio le appariva come non le era apparso mai: anche Lalla, adesso, lo vedeva grande, nobile; lo vedeva bello. Quando egli parlava, non era più distratta, non lo interrompeva più per uno scherzo, per un nonnulla, ma lo ascoltava silenziosa, fissandolo con dolcezza infinita, come se da quella sua voce adorata ricevesse intime seduzioni. Lo cercava sempre, gli era sempre d’attorno, continuamente, quantunque cominciasse a sentire una soggezione indefinibile alla presenza di Giorgio, una timidezza strana!… Arrossiva quando egli le si avvicinava; le sue parole la turbavano e rimaneva colpita e mortificata dalla devozione cieca ch’egli aveva per lei: ma tuttavia era beata quando Giorgio stava lì a vezzeggiarla, a sorriderle, a ripeterle che le voleva tutto un mondo di bene. Adesso Lalla non gli faceva più scene, non aveva più capricci, non era più lei che comandava; ma era docile e sottomessa, esprimendo in ogni suo atto una tenerezza affettuosa e rispettosa.

Come si era mutata in poco tempo!… Giorgio, consolato, credeva di dover tutta quella trasformazione alla donna che diventava madre. Lalla non era più frivola, non era più permalosa, ma era triste spesso e malinconica, era diventata una donnina raccolta e pensierosa.

Il segreto di simile cambiamento era… era l’amore: Lalla cominciava ad amare e si sentiva infelice. Cominciava ad amare suo marito come non lo aveva amato mai; come, così, non aveva mai amato nemmeno quell’altro: cominciava adesso ad amare per la prima volta. Ma Lalla, a cui tutto pareva sorridere, Lalla, che si sarebbe creduto avesse tanta e così sconfinata felicità d’intorno quanto ha la rondine d’aria e di cielo, era invece infelicissima. A mano a mano che il suo cuore cominciava e vivere, a battere, il suo cuore sentiva più fiera, più acuta la voce interna del rimorso, e allora il sacrificio quasi disumano di sua madre le pesava più della colpa. Subiva strazi e punture atroci, tanto che un giorno, in preda ad una convulsione disperata, pensò di buttarsi ginocchioni dinanzi a suo marito, pensò di svelargli, di confessargli tutto; poi non ebbe il coraggio di farlo, non già che si sentisse vile, ma perchè, dopo, egli non l’avrebbe più amata. E Lalla, a costo di perdere la pace per sempre, a costo di soffrire per sempre l’affanno per quel rimorso, a costo di finire dannata, non voleva perdere, non voleva, non poteva rinunziare all’amore di Giorgio.

La sua mente, il suo spirito, erano in continua agitazione, in continuo tormento. Tra le sue angosce c’era anche la ripugnanza ch’ella sentiva adesso per il Vharè, una ripugnanza strana e dolorosa, che alle volte rivolgeva contro sè stessa, perchè le pareva di sentirsi tutto il corpo insudiciato da quella colpa. Allora non era più antipatia, non era più ripulsione che il Vharè destava in lei; ma lo odiava coll’odio quasi feroce della donna disamorata che ha ceduto in un momento di debolezza o di abbandono dei sensi.

Ogni volta che suo marito, accarezzandola, alludeva alla propria contentezza, alle intime gioie che gli risvegliava nel cuore quella creaturina non ancora nata, ma già tanto viva al suo affetto, sembrava a Lalla di vedere il Vharè mettersi fra di loro come un fantasma, per mutare in uno spasimo di rimorso la cara voluttà delle più dolci carezze. Lalla non poteva mai essere sola con Giorgio; l’immagine del Vharè non la lasciava un istante!… Allora, per fuggirla, per cancellarla, sentiva il bisogno di stordirsi e di nascondersi in mezzo a tutti i suoi cari; ma anche lì era aspettata e tormentata da nuovi dolori. Giorgio credeva sua madre colpevole, colpevole del suo proprio delitto!… Egli voleva, tentava di nascondere in fondo all’anima l’odioso segreto, ma come nel suo contegno, ed anche nella sua rispettosa tenerezza verso la mamma, come si era fatto diverso! E come, per quanto si sforzassero di dissimulare, era tutto ciò indovinato e sentito nello stesso tempo, da tutte e due!… Giorgio per di più, in quell’inganno così perfido nel quale era stato avvolto, non dubitava nemmanco che Maria sapesse com’egli l’aveva veduta uscire dalla casa del Vharè, e, perciò, non la supponeva attenta ad ogni sua parola, ad ogni suo atto, nè immaginava punto che una sola risposta data di malumore potesse inasprire la ferita profonda.

Lalla cercava sempre di attenuare l’insulto di quella freddezza; ma, senza volerlo, non riusciva ad altro che a renderla più evidente. Il suo dovere, lo sapeva, sarebbe stato quello di gridare a Giorgio: – Mia madre è innocente, mia madre è una santa!… Io, io sola, sono colpevole; mia madre si è sacrificata per me, per salvarmi! – Ma, allora, come la mamma sarebbe apparsa grande e splendida e bella agli occhi di Giorgio e come lei sarebbe caduta giù giù, in basso, nel fango! E a questi pensieri, fra il rimorso, il dolore, il pentimento, sentiva pure la gelosia acuta che le penetrava nell’anima contro quella virtù tanto sublime, contro quell’amore tanto grande!… Lalla era combattuta da mille opposti sentimenti, e forse da quella lotta, da quell’urto medesimo, erano uscite le prime scintille del nuovo incendio. – No, no; Giorgio era suo; alla mamma avrebbe ceduto, in compenso, la sua parte di Paradiso, ma suo marito no; suo marito non doveva amare altri che lei, solamente lei! – E impaurita, pregava Dio perchè confortasse la mamma e le infondesse nuovo coraggio, e la sua preghiera le usciva dal cuore calda, sentita, appassionata. Era sicura che sua madre non l’avrebbe tradita, che sarebbe morta senza dire una parola, senza mai un lamento, e nel disordine dei suoi pensieri e dei suoi affetti, di contro agl’impeti della gelosia, le prorompeva dal cuore la gratitudine più viva per la mamma buona che si sacrificava per lei, che le aveva conservato l’amore e la stima di Giorgio!…

No, no, la mamma moriva, ma rimaneva forte e muta, e nella santa poesia della fede credeva non solo di aver salvato la figliuola sua, ma di averla redenta, e ciò la consolava nella rovina, nella disfatta del cuore. Maria aveva perduta anche l’ultima e la sua più dolce speranza: quella di lasciare a Giorgio una memoria cara di sè: egli l’avrebbe maledetta, l’avrebbe ricordata con orrore, si sarebbe fatto cupo ogni qualvolta avesse udito pronunciare il suo nome: eppure Maria era tanto e ancora e così supremamente madre, da tremare che Lalla in avvenire potesse mai scoprirsi con Giorgio, forse vinta, forse tradita da un impeto di dolore o di rimorso o di amore.

Il male, intanto, cresceva rapidamente; ma la febbre che la teneva in vita, la rendeva più colorita e più bella. Certo, ogni volta ch’ella incontrava Giorgio e leggeva il disprezzo ne’ suoi occhi, era per la poveretta un urto violento che la spingeva più presto verso la fine; certo, notando come Giorgio cercava di allontanare Lalla da lei, e notando come diventava pallido e cupo quando vedeva sua moglie – il suo amore, la sua donnina cara, idolatrata – a darle un bacio od a farle una carezza, quasi temendo ne dovesse rimanere offeso l’ingenuo candore, certo Maria sentiva allora che quel suo amato era lui, lui stesso che la uccideva!… Era uno stato di cose che non poteva durare; era troppo penoso; e tutti e tre, ma per vie diverse, e non sapendo nulla l’uno dell’altro, pensavano ad un modo qualunque di poterne uscire.

Un giorno, Prospero Anatolio fece la proposta di andare a Palermo tutti insieme: Maria, Lalla, Giorgio e la Giulia. Egli vi si doveva recar con sua moglie, per l’eredità dello zio, che vi avevano da raccogliere, ed era una bella occasione per visitare la Sicilia. Un viaggetto di un paio di mesi in quella stagione e colla Giulia in compagnia, sarebbe stato piacevolissimo!

Ma Giorgio, udite appena le parole dello suocero, guardò Lalla facendole segno di no; e l’atto fu notato anche dalla duchessa Maria. Maria, subito, non potè nemmeno parlare, ma appena vinta la commozione si oppose alla partenza con straordinaria vivacità. – Quel viaggio – disse a Prospero Anatolio – lo dovevano fare loro due soli e in fretta, perchè lei non desiderava di rimanere molto tempo fuori di Borghignano; e poi doveva essere un viaggio d’affari e non una gita di piacere, anche per un riguardo al loro lutto. Aggiunse di più che stava sempre poco bene, che capiva di non poter essere una piacevole compagna, e che lei stessa ormai si trovava meglio quando era sola. – Erano tutte scuse di nessun peso, ma la duchessa le espresse con un tono così risoluto, con una concitazione così precipitata, che nessuno osò contraddirla… e Prospero Anatolio meno degli altri. In tanti anni di matrimonio, sua moglie non gli aveva mai espressa la propria volontà in un modo così fermo altro che una sol volta – e c’era passato molto tempo – quando all’epoca della de Haute-Cour aveva voluto dividersi e ritirarsi a Santo Fiore. Al duca Prospero, anche adesso, sembrò di vedere sotto quell’ostinazione qualche cosa di simile e dubitò che Maria avesse indovinato le sue platoniche tenerezze verso la Giulia; però, subito, non disse verbo, sorridendo anzi per quel capriccetto della moglie, ma poi facendole subire, quando furono soli, tutto il peso del suo umore più nero.

Giorgio, da parte sua, che non poteva più vedersi a Borghignano, pensò di approfittare di quella partenza dei d’Eleda per portarsi via la sua Lalla e andarsene un po’ soli a vivere in quiete. Egli cercò e prese in affitto un villino sulla riviera Ligure, vicino a Nervi, che sua moglie, un’altra volta che vi erano stati, avea trovato amenissimo; ma per non doversi sopportare il peso della Giulia lasciarono credere di voler fare una corsa fino a Parigi e a Londra, e perciò il Conte da Castiglione era rimasta come disperato alla notizia della doppia partenza. – Sono diventati matti, sono diventati! – andava brontolando al club e al caffè, dove, per tante novità, si era diffusa una certa agitazione. Ma la sua bizza proveniva da ciò: partiti i d’Eleda e i Della Valle a chi avrebbe affidata la Giulia? Non c’era una ragione per tenerla a Borghignano; non avrebbe certo potuto mandarla sola a Firenze, e in quanto a lui – cascasse il mondo, cascasse, non si sarebbe allontanato dalla Soleil finchè non… finchè non fosse riuscito nel suo capriccio… o, come diceva Pier Luigi nel suo linguaggio figurato – finchè non avesse attraversata la Manica!… – Navigazione che pareva molto difficile e in cui non era certo piacevole il tirarsi dietro una pupilla.

 

Che cosa fare?… il conte da Castiglione, rabbioso, bisbetico sfogava il suo malumore su Prospero Anatolio, che lo accarezzava e lo lisciava, e fu Prospero medesimo, alla fine, che, dopo essersi dato d’attorno per la grave faccenda, riuscì ad allogare la Giulia dalla Bertù e dalla Calandrà, che si erano risolte a prendere in affitto un casinetto di campagna e che in quelle pene e intente sempre a cavar cinque denari da un quattrino, accolsero la Giulia a braccia aperte. Infatti avrebbero risparmiato un terzo di spesa, e tutto quello che mancava per mettere in ordine il villino sarebbe stato prestato graziosamente dal duca d’Eleda. – Molto gentile il caro duca: volle pensar lui anche alla cantina; volle mandar lui anche il suo giardiniere coi fiori più belli e più rari!

Se la Desirée Soleil continuava ancora ad ostinarsi sul no, il conte Pier Luigi finiva matto come il principe russo. La passione amorosa del vecchio libertino non era paziente come quella del duca Prospero, ma era quasi feroce. Non gli lasciava nè tempo, nè lena di pensare ad altro, lo occupava interamente, irritandolo e facendolo soffrire. A vederlo, adesso, sempre rosso invasato, col naso paonazzo, gli occhietti spelati, lustri lustri e lacrimosi, metteva ribrezzo. Ma non c’era verso: la Desirée non voleva saperne di lui; prima di tutto perchè amava il suo Giacomo alla follia e gli voleva essere fedele, e poi perchè quel vecchiaccio le ripugnava, le faceva orrore, e glielo mandò a dir dalla sarta che le offriva a nome del signor conte grosse somme di denaro per un giorno, per una notte, per un’ora soltanto. Gli mandò a dire, chiaro e netto, che non avrebbe voluta essere toccata da lui, nemmeno con un dito, per tutto l’oro del mondo!… E gli mandò a dire, di più, che se anche fosse stato bello come un amorino, quel no sarebbe stato egualmente inflessibile. Essa amava il marchese di Vharè ed era sua, tutta sua, solamente sua, anima e corpo!

Era la prima volta che il conte Pier Luigi non poteva soddisfare un suo capriccio; era la prima volta che la sua passione si trovava di contro ad un ostacolo insormontabile. Egli così ricco, così prodigo, non poteva averla quella donna!… quella donna, che tutte le notti dormiva col suo amante!… Fosse stata casta, onesta, gli sarebbe stata forse indifferente; ma ciò che lo invogliava, che lo accendeva di più, era il vizio che si rifiutava al suo vizio.

Tutto il giorno era sempre a macchinare della diva colla sarta: una buona signora non più giovane, magra, pulitissima, che aveva sempre l’onore di servire le artiste drammatiche, le cantanti, le ballerine e le cavallerizze che capitavano sulla piazza, accomodando i vestiti per la scena, stirando la biancheria, portando, all’occorrenza, anche qualche monile al Pietoso e non rifiutandosi a nessun servizio, anche più delicato, pur di guadagnarsi tanto, diceva lei, da campare onestamente.

Da questa brava signora, il conte Pier Luigi era riuscito una volta a poter avere un abito molto usato della Desirée. Lo aveva fatto portare a casa, lo aveva fatto portare su, segretamente, in camera sua, e vi si era rinchiuso dentro solo soletto… Aveva cominciato a toccarlo, a svolgerlo colle mani tremanti… poi a stringerlo, a baciarlo, a brancicarlo pazzamente, ed a morderlo, e stracciarlo, tormentato ed ubbriacato dalle forme belle della donna che lasciava scorgere e dall’odore di cui era tutto impregnato.

L’Andreina sapeva poi dalla sua sarta tutte queste pazzie e ne rideva di gusto ripetendole a Giacomo, lusingata nella sua vanità di donna per quei desideri sfrenati, per quei tormenti che eccitava la sua bellezza, e indovinando che sarebbe stata ancora più bramata dal suo amante per le grandi follìe che suscitava.

Ma Giacomo ascoltava assai distrattamente le prodezze del vecchio frollo, e non lo mettevano più di buon umore. Ogni giorno che passava era un passo verso la rovina e il disonore! Era arrivato al punto da non sapere più dove dar la testa. Certe volte, non aveva in casa da prendersi i sigari, e doveva sfogarsi a tutto pasto colle sigarette turche del pascià! L’amor proprio il punto d’onore, la delicatezza, tutto ciò il marchese Giacomo aveva consumato da un pezzo, e di giorno in giorno diventava anche permaloso: faceva colazione, pranzava dall’Andreina e in cambio le mandava mazzi di fiori che prendeva senza pagare da una povera fioraia che gli teneva il credito aperto pel solo timore che, disgustandolo, allontanasse gli altri avventori.

Della scena successa in casa sua, quando Maria era capitata a sorprendervi Lalla, il Vharè non conosceva la fine. La contessa Della Valle non si era fatta più viva, ed egli avea creduto prudente di non andarla a cercare. Soltanto il suo servitore, quel povero vecchio che ad ogni costo – a costo anche di patir la fame – non aveva voluto abbandonare il signor marchese, gli aveva riferito che la prima a discendere e ad uscire era stata la signora duchessa, e poi la contessa Lalla, quasi subito.

Indovinava da tutto ciò, e dal contegno tranquillo del Della Valle, che la tempesta era stata scongiurata, ma non sapeva come, e non si affannava per ottenere la chiave del mistero. Aveva ben altro da pensare, povero Vharè! Capiva ormai che non gli restavano altro che due vie da scegliere; o fuggire, o ammazzarsi. Veramente, ce ne sarebbe stata forse anche una terza… da galantuomo almeno, se non da gentiluomo: lavorare. Ma a questa il Vharè non aveva pensato. Dunque, fuggire. Ma dove fuggire?… Come?… – Ammazzarsi?… Sì; non gli restava che ammazzarsi, e non era molto per stare allegro.

Intanto, verso la metà di aprile, il palazzo d’Eleda e la casa Della Valle, si chiudevano contemporaneamente, e alla stessa ora e colla medesima corsa, Maria e Prospero, e Lalla e Giorgio, partivano tutti insieme, diretti a Genova: a Genova poi dovevano separarsi, gli uni per andare a Nervi, gli altri per andare a Palermo.

Alla vigilia della partenza, il conte Della Valle avea detto alla moglie che la Nena si era licenziata per ritornare a Santo Fiore, dove la chiamava, sul momento, una lettera della Pierina. Giorgio aveva temuto con quella notizia di darle un dispiacere, ma invece Lalla, dopo aver finto la più grande maraviglia, si era accomodata subito, e benissimo, con un’altra cameriera: infatti era stata Lalla medesima che aveva imposto alla Nena di licenziarsi e di ritornare a Santo Fiore, con una scusa qualunque.

Povera Nena!… Non fu rimpianta nemmeno dal cavaliere Frascolini. Allontanandosi lei, si allontanava anche il pericolo di doverla sposare; poi era diventata musona, bisbetica… faceva bene a cambiar aria! In verità, non si potevano più vedere, si facevano ribrezzo l’un l’altro, e avevano finito coll’odiarsi. La Nena non aveva detto a Sandro che il tiro della lettera anonima era andato fallito, temendo che ne preparasse uno più sicuro, ma invece questo pericolo non c’era. Il Frascolini, che aveva aspettato colle orecchie tese lo scoppio della bomba in casa Della Valle, quando i giorni passarono tranquilli e silenziosi senza nessuna novità, si era assai maravigliato, trovando che anche il conte Giorgio, quel tentennante stinto, era un marito di buona pasta, ma poi, in fondo all’animo suo, non ne aveva provato gran dolore… Anzi, gli seccava di aver scritto quella lettera e, quantunque giurasse e spergiurasse seco stesso di essere stato il rappresentante del dito di Dio, un’altra volta, forse, non si sarebbe data la pena di tornare daccapo, e avrebbe lasciato che il gran dito facesse da sè.

Il viaggio da Borghignano a Genova fu per i Della Valle e i d’Eleda tutt’altro che allegro.

Il duca Prospero era convulso e dimostrava, per quella partenza, per quel distacco dalla sua figliuola e dal suo caro Giorgio, un dolore vivissimo. Diceva sospirando, ma non era sincero nel dirlo, che aveva il presentimento di non più rivederli!… Invece la duchessa Maria, che sentiva davvero che sarebbe morta prima di ricongiungersi a Lalla, a Giorgio, non ebbe mai una parola in tutto il viaggio, mai un sospiro, come non ebbe mai una lacrima negli occhi accesi dalla febbre. Giorgio, essa pensava, avrebbe trattenuta Lalla a Nervi chi sa per quanto tempo! Il suo studio, il suo pensiero fisso non era quello di allontanare Lalla da lei? E per poco che egli ci fosse riuscito a trovare scuse… era finita.

Anche il Della Valle doveva sentirsi seccato, impacciato, e certo non vedeva il momento di essere a Genova e che i d’Eleda fossero imbarcati; la presenza della suocera lo rendeva nervoso, lo faceva star male.

Lalla era angosciata dal rimorso, era tenuta in soggezione, era umiliata dalla muta presenza di sua madre, ed oltre a ciò soffriva uno strano timore, quello di non poter fuggire fino a Nervi, senza che Giorgio arrivasse prima a scoprir tutto. Lalla non era più tentata dall’idea di buttarsi alle ginocchia di suo marito e di confessargli tutto; oh no, no. Ad ogni costo voleva apparire come egli la credeva, pura, innocente; perchè lo amava e voleva essere riamata. D’altra parte, non era solamente la sua felicità, ma era la felicità di suo marito, era l’esistenza di Giorgio, che difendeva dissimulando in tal modo; e la mamma… la mamma, se si sacrificava e taceva… taceva e si sacrificava perchè voleva bene a tutti e due. Sì, sì, l’orgoglio, la consolazione, la gioia di salvare quella pace, quella felicità era tutta della mamma e non gliela voleva togliere. Lei era cattiva… e vile; sì, vile; ma che importa? Voleva essere amata!…

Il viaggio, fra tutta quella gente, le faceva paura. Le pareva che in mezzo al frastuono assordante, dovesse alzarsi un grido od uno scroscio di risa contro di lei, per tradirla. Temeva che la mamma, nel momento supremo del distacco, potesse perdere il coraggio, e pregava Dio, pregava la Vergine buona, perchè aiutassero la mamma; e finalmente, in quell’agitazione d’animo, le pareva, ad ogni fermata del convoglio, di vedere il Frascolini avvicinarsi ad un tratto al loro coupé per coprirla d’insulti e smascherarla. Era una paura sciocca, stupida; ma tant’è, la teneva inquieta e agitata; e sotto la tettoia della stazione di Alessandria, mentre aspettavano il treno da Torino, poco mancò non desse in un grido, tanto le era sembrato di vederlo davvero il Frascolini, muoversi gesticolando in mezzo ad un gruppo di persone che le veniva incontro.

Che sciocchezza!… Ma però che sgomento le avea messo in cuore. – E Giorgio?… Giorgio non avrebbe potuto leggere la verità sul volto stesso della mamma?… In quel suo dolore così cupo, così profondo?… Insomma tutto il viaggio, fu un viaggio triste, penoso, che non finiva mai.

Giunti a Genova, stettero insieme fino al momento in cui il Newton levò l’ancora per la Sicilia. Un poco prima i Della Valle accompagnarono i d’Eleda, in canotto, fino al battello, e lì ricominciarono i saluti; ma allora, nel momento di separarsi, Lalla ebbe uno slancio improvviso che le fece dimenticare tutte le ansie, i timori di prima ed anche il suo amore, vinta e trascinata da un impeto di gratitudine che le proruppe dal cuore per la mamma buona, per la mamma santa, e abbracciandola stretta e baciandola si abbandonò ad un pianto dirotto e poco mancò in quel momento, che non si tradisse da sè sola. Ma il dolore di Maria si mantenne muto e forte, quantunque un ultimo spasimo l’aspettasse anche in quell’ultimo addio. Giorgio aveva abbracciato il duca Prospero, che ansimava cogli occhi gonfi, e doveva salutare, doveva abbracciare anche la duchessa; ma si sentiva di ghiaccio, non sapeva come fare; si sforzò, volle risolversi e poi, quando le fu vicino, invece di abbracciarla, indietreggiò, stendendole la mano. Maria la toccò appena, salì in fretta sul battello e incespicò nel vestito: quel nuovo colpo l’aveva stordita.

Giorgio e Lalla partirono per Nervi la sera stessa. Soli, soli, in un coupé colle finestrelle aperte, dalle quali entravano grandi ondate d’aria sana, dimentichi di tutto quanto avevano sofferto, si tenevano l’uno vicino all’altra, stretti insieme, come due innamorati da un mese, il conte Della Valle discorreva con sua moglie di molte cose, animandosi e sorridendo coll’allegria d’un fanciullo; discorreva dei loro disegni per l’estate, della vita tranquilla che avrebbero condotto a Nervi, della Giulia che doveva annoiarsi parecchio in compagnia della Bertù e della Calandrà; e Lalla lo ascoltava sorridente, silenziosa, tutta abbandonata sul petto del suo Giorgio, così ch’egli ne sentiva ogni respiro, ogni fremito. Aveva la bella testina sulla spalla di lui e gli occhioni scuri, fissi in quel profondo infinito del mare. Ella si sentiva consolata e le pareva di rinascere, avvolta dall’aria fresca e umida, che le bagnava i capelli come una rugiada e che le ricreava i sensi cogli odori acuti delle alghe marine e colla fragranza dolce degli aranci e delle acacie. Il treno correva via sbuffando e fischiando, ma non interrompeva la gran calma della notte, e a Lalla pareva di essere sola col suo Giorgio, in una solitudine immensa, e si sentiva beata. Sandro, il Vharè, la Nena, Pier Luigi, erano ormai lontani dal suo spirito, al di là di quel mare, al di là di quelle onde scintillanti come pallide fiammelle, erano laggiù, in fondo in fondo, sepolti nel buio della tenebra densa e infinita. Lalla, non sentiva più nulla, delle pene sofferte, più nulla, nemmeno il rimorso. In quel vasto silenzio d’ogni voce umana, il frastuono delle onde, misurato come una cantilena, si univa al gorgheggiare dell’usignuolo, al canto del grillo, ai mille stridori degli insetti, al rumorio della scogliera, al sussurro del vento e formava un’armonia sola, amorosa e voluttuosa, che Lalla sentiva nell’anima e sentiva nei sensi, mentre l’aria tepida e fragrante, sollevando atomi d’acqua dalle onde che s’infrangevano, pareva le portasse sulle guance, sul collo, sulla bocca, il bacio umido del mare. Allora si sentì correre intorno tanta felicità quanta non ne avea mai sognata, e d’improvviso, abbracciando Giorgio, stringendolo, fissandolo cogli occhi raggianti d’amore, gli mormorò coi più lunghi fremiti: – T’amo, sai! T’amo, t’amo!… – finchè gli ricadde stanca, sfinita sul petto.