Za darmo

Mater dolorosa

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Arrivata a casa, fece le scale di corsa, entrò nell’appartamento, ma non trovò la signora, in nessun luogo. Era uscita per andare alla messa, poi non era più tornata… – Certo, – le dissero le altre donne, che la Nena aveva interrogate, – certo, doveva essere da sua madre. – La Nena, tornò da capo a uscire, a correre con un orgasmo, che parea le mettesse le ali ai piedi. Arrivò al palazzo d’Eleda stanca, sfinita, anelante, fuori di sè, come una matta: – Dio, Dio!… Si faceva tardi: forse non era più in tempo, forse la sua padrona era perduta…

– La signora contessa è qui?… è di sopra? – domandò al portiere, senza pensare che mostrandosi tanto inquieta avrebbe finito col destare sospetti.

– Sì; almeno lo credo. Per essere venuta è venuta di certo, mezz’ora fa. Se per altro non è tornata via mentre io sono stato fuori per la signora Luigia.

– Mi faccia il favore di domandare subito a Lorenzo se la mia padrona c’è ancora.

– E se c’è, devo farle dire qualche cosa?

Il portiere era stato messo in grande curiosità dall’agitazione della signora Nena.

– No… no. Mi basta di sapere se c’è; nient’altro che questo; ma per carità… faccia presto!… faccia presto!

Se la sua padrona era lì, pensava intanto la Nena fra sè, lei l’avrebbe aspettata in portineria, e quando fosse per uscire, le avrebbe tenuto dietro e l’avrebbe avvertita di ogni cosa.

– Signora Nena! Signora Nena! – il portiere la chiamava, da una finestra del primo piano.

La Nena passò subito nella corte e – c’è?! – gli domandò prima di salire, con un’incertezza angosciosa.

– Venga di sopra, subito! – e il portiere, così dicendo, abbassò il capo. – La povera donna credette, in quel modo, che l’altro avesse inteso di rispondere affermativamente.

– Ah, benedetto Dio!… era ancora arrivata a tempo! – E consolata, raggiante, non pensando nemmeno che per salvare la sua padrona avrebbe dovuto cominciare coll’accusar sè stessa, fece le scale d’un salto.

– Dov’è? – chiese ansando al portiere, che l’aspettava in anticamera.

– La signora contessa è uscita adess’adesso. È la mia padrona che le vuol parlare. – La Nena perdeva la testa, ma non ebbe tempo di muoversi, se non basta di fuggire, che già la duchessa, in persona, era comparsa sull’uscio. Il portiere, mentre cercava Lorenzo, aveva incontrato la duchessa Maria, e richiesto da lei le aveva detto che era salito perchè la Nena voleva sapere se c’era ancora la sua padrona, e aggiunse che gli era sembrata inquieta, sconvolta. Udendo ciò. Maria volle veder subito la Nena pel timore che fosse accaduta qualche disgrazia.

– Che cos’è successo?… Che cosa vuoi dalla tua padrona?

– Nulla… volevo… Non è successo nulla, signora duchessa; stia certa… Nulla… volevo… – Ma la Nena commossa, confusa, non sapeva dire una parola, si confondeva, tremava, balbettava tanto che Maria, vedendo tutto quel turbamento, mandò via il portiere e condotta la Nena nella stanza attigua, le domandò vivamente, imperiosamente: – Che cosa è accaduto?… Parla: di su; non m’inganni. Che cosa è accaduto?

– Nulla… Nulla… – e alla Nena le girava intorno tutta la stanza, le si piegavano le ginocchia, le pareva di soffocare, di morire.

Maria indovinò, lesse su quella faccia alterata, stravolta, che Lalla doveva correre qualche pericolo: e – Sono sua madre, intendi? Sono sua madre!… – gridò alla Nena scotendola. – Rispondi, subito: che cosa è successo?

– Nulla!…

– No. Devi dire la verità. Voglio sapere la verità.

– Ebbene…

– Ebbene?… Parla!… Ma parla, disgraziata!… Vuoi farmi morire?

La Nena, non potè resistere a quest’ultimo urto; non potè lottare, e coll’abbandono disperato del naufrago che non ha più lena di opporsi contro l’onda che lo percuote, che lo trascina, cadde ai piedi di Maria e singhiozzando le svelò ogni cosa.

Maria, nello stesso tempo che a quelle parole si sentiva stringere il cuore come in una morsa, trovò pure tanto coraggio, tanta energia, quanta non ne aveva avuta mai. Vide, capì soltanto, che sua figlia era in pericolo, e non pensò più che a salvarla. Si fece ripetere dalla Nena tutto ciò che aveva saputo dal Frascolini, poi le ordinò di ritornare a casa e di mostrarsi con tutti tranquilla e indifferente. Si sarebbe abbandonata più tardi alle lacrime ed ai rimorsi, quando la sua padrona fosse stata al sicuro. Per quella madre, Sandro, il Vharè, la Nena erano tutti colpevoli, odiosamente colpevoli, ma sua figlia no, o, almeno, non pensava alla sua parte di colpa; sua figlia non la vedeva altro che in pericolo. Corse nella sua camera, si buttò addosso una mantelletta nera, un velo fitto sugli occhi, e si avviò verso la casa del Vharè. A che fare?… Non lo sapeva nemmeno; ma se non avesse potuto salvare sua figlia l’avrebbe difesa, l’avrebbe protetta, se la sarebbe portata via: era sua, non era di nessun altro. Lalla, sua figlia; era sua.

Maria aveva saputo dove il Vharè stava di casa, poco tempo prima, quando successe lo scambio dei biglietti di visita fra il marchese Giacomo e il duca Prospero, per la morte dello zio.

Risoluta, con passo fermo, sicuro, non sentendosi più nemmeno ammalata, arrivò alla casa del Vharè. Appena dentro alla porta, in fondo alla scala, c’era di guardia il vecchio servitore di Giacomo.

– Da che parte si va dal vostro padrone?

– Non è in casa – rispose l’altro, un po’ turbato.

– E in casa, è in casa. Accompagnatemi dal vostro padrone, subito. Andate, presto!… Andate avanti; dov’è?

Il vecchio, a quelle parole e a tanta fermezza, non ebbe il coraggio di opporsi e non sapeva che fare. Ad ogni modo, pensò che doveva avvertire il suo padrone di quanto accadeva; corse su per le scale, aprì l’uscio in fretta, ma in quel punto Maria, che lo aveva seguito, con una spinta lo allontanò dalla porta ed entrò con impeto, mentre l’altro gridava per dare l’allarme: – Padrone! signor padrone!

Il Vharè si presentò subito a Maria, ma questa non ebbe il tempo di dirgli nulla: sentì un grido che le schiantò il cuore.

Era stato il grido di Lalla, che aveva riconosciuta sua madre.

– Vieni!… Vieni via! Forse siamo ancora a tempo. Gli hanno scritto una lettera anonima. Vieni via!

Lalla, spaventata, si mise a piangere, a balbettare parole sconnesse, mentre confusa e tremante cercava, il cappello, la mantellina, i guanti… Il Vharè rimaneva immobile, colla testa bassa, pallidissimo. Egli, che sarebbe stato forte, impassibile contro il marito offeso, dinanzi alla madre perdette tutta la sua audacia, si sentì colpevole e vile.

Maria non gli rivolse una parola, non lo guardò nemmeno; non sentiva, non vedeva, non capiva nulla, altro che una cosa sola: salvare sua figlia. Lalla era pronta, stava già per uscire, quando Maria che si era avvicinata alla finestra spiando dietro le tendine calate, diè all’improvviso un grido soffocato, e presa e stretta sua figlia fra le braccia, come per salvarla, con un atto d’indicibile sgomento le additò un uomo nascosto fra le colonne esterne di una chiesa, che faceva angolo in fondo della strada. Prima ancora di ravvisarlo, tutte e due sentirono ch’era lui, Giorgio, e non s’ingannarono punto: Giorgio, immobile, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sulla porta di quella casa maledetta. Doveva esservi giunto allora allora: Maria, quando era passata di là, avea guardato bene; non c’era nessuno.

Giorgio, infatti, era lì fermo da pochi istanti.

Quel giorno al tocco, lo si sapeva, era aspettato alla sede del Comizio Agrario; ma invece la seduta era andata deserta. Egli allora, era una bella giornata di sole, ritornò a casa per prendere Lalla e fare insieme una passeggiata. Anche il Della Valle, come prima la Nena, sentì che Lalla non c’era, ma anch’egli pensò subito che l’avrebbe trovata da sua madre. Prima per altro, come faceva spesso, passò dal suo studio per vedere se fossero arrivate lettere od altro. – Trovò il suo ragioniere, parlò di affari con lui, gli diede alcuni ordini e già stava per andarsene, quando l’altro gli additò una lettera e una gazzetta appena arrivate. Il Della Valle guardò l’una e l’altra distrattamente, poi buttò il giornale e tenne la lettera. L’indirizzo era scritto con una calligrafia ignota; anzi, a guardarci bene, era una calligrafia a sghimbescio, ammaccata, piena di adulterazioni studiate. Ciò lo mise in sospetto. Osservò il bollo: era di città; la data: quella dell’ultima impostazione. Doveva essere, senza dubbio, una lettera anonima, e diè un’alzata di spalle! Nelle noie, nei triboli della sua vita pubblica, erano queste le spine meno pungenti. Sorridendo stracciò la busta, e come aspettandosi una buffonata cominciò a leggere tranquillamente; ma poi, dopo le prime parole, trasalì, oscurandosi in viso:

«Signor conte!

«Se non siete un vile, se vi sta a cuore l’onor vostro e quello della vostra famiglia, oggi alle due dovete recarvi in persona a fare una visita al vostro amico, il marchese Giacomo di Vharè. Chi ve ne consiglia, sappiatelo, è la Giustizia di Dio!»

– Ah, no, no, no!… Questo è un tiro di quel farabutto del Frascolini! – esclamò Giorgio calmato il primo impeto, e si strinse nelle spalle e stracciò la lettera. – Un uomo onesto, un uomo che si rispetta, non tiene nessun calcolo delle lettere anonime – pensava fra sè. Certo; doveva averla scritta il Frascolini, per vendicarsi d’essere stato messo alla porta!… Canaglia, buffone!… «Andate alle due dal vostro amico, il marchese Giacomo di Vharè, se vi sta a cuore l’onor vostro e quello della vostra famiglia!…» – Ha proprio trovato, l’imbecille, chi ci casca nella rete. Ma… con che scopo mi scrive così? Anche ammesso che io fossi tanto gonzo, una volta che ci andassi, che cosa avrebbe ottenuto?… – Così, a poco a poco, senza accorgersene, cominciò ad essere inquieto. Di sua moglie era sicuro; per altro, con quella lettera, si voleva alludere a lei. Ripetè seco stesso che sarebbe stato un vile, peggio del Frascolini, se avesse dubitato di sua moglie, per una lettera anonima. Di sua moglie era sicuro, non arrivava nemmeno a concepire un dubbio così mostruoso; ma, ad ogni modo, perchè si scrivesse a lui in quella forma, perchè lo si volesse fare andar lui, quel giorno, dal Vharè, chi scriveva doveva aver preso un qualche equivoco. – Giorgio era sicuro di Lalla, tuttavia lo turbava quel nome del Vharè, messo lì per eccitare la sua gelosia. Perchè avevano scelto il Vharè?… proprio il Vharè? Dunque si era detto in giro che costui faceva la corte a sua moglie?… In conclusione, quella lettera cominciava a fare il suo effetto, e già egli voleva accertarsi che era una menzogna, che era una calunnia infame; e pensò ad una scusa, ad un pretesto per poter andare dal marchese. Perchè ci voleva un pretesto. Se il Vharè avesse indovinato qualche cosa, egli avrebbe fatto una figura ridicola. Ma infine, non andarci e tenersi addosso quella febbre?… Se la lettera avesse accusata apertamente Lalla, forse lo avrebbe meno inquietato; ma quella forma sibillina, quel reciso consiglio di andare dal Vharè alle due proprio alle due?… Che scopo ci doveva essere per mandarlo là a quell’ora? Non avrebbero potuto inventare qualche cosa di meglio? Un ordito più ingegnoso e che non si potesse così subito mettere in chiaro?… E Giorgio, attratto da una forza che vinceva ogni ragionamento, persuaso che non avrebbe dovuto essere così debole, sicuro che commetteva quasi una bassezza, ma pur tuttavia volendo fare ciò che gli avrebbe ridata la pace e la quiete, anche a costo di esser lui più tardi il primo a ridere di sè stesso, volle vedere, verificare, toccare con mano che quella lettera era stata scritta da un bugiardo, infame, e per di più da uno sciocco: bugiardo, perchè mentiva; infame perchè calunniava sotto l’anonimo, e sciocco perchè non aveva saputo immaginare una falsità più verosimile. – E se lo scopo dell’anonimo fosse quello soltanto di burlarsi di lui per ridere alle sue spalle?… – Un tal pensiero lo trattenne a mezza strada… e lo fermò appunto, sotto la chiesa. Era inquieto, titubante e anche un po’ si vergognava di sè stesso, perchè infine, il fatto di fermarsi a spiare era un’azionaccia indegna. – Ma dopo, sarebbe stato così tranquilla, così felice!

 

Era lì da qualche tempo e aspettava, e non vedendo alcuno nè entrare nè uscire, persuaso e convinto di aver avuto torto a muoversi, stava per andar via, quando si affacciò sotto la porta, dove il suo occhio era sempre fisso, il marchese di Vharè. Giacomo uscì, venne verso la chiesa tenendosi sul marciapiede opposto, e tirò diritto senza guardare nemmeno dalla parte dov’era il conte Della Valle.

Ma il cuore?… il presentimento?… il Vharè passava diritto e sicuro; eppure a Giorgio sembrò di notare in lui qualche cosa di strano, di irresoluto, qualche cosa che non era naturale; e invece di andarsene, rimase fermo, guardando fisso quella porta che pareva volesse bruciare cogli occhi.

Su, intanto, in casa del Vharè, Maria e Lalla erano in un tormento di disperazione. Lalla inginocchiata, piangeva sempre, nascondendo la faccia nelle vesti di sua madre che, rigida e stecchita, nascosta dietro la tendina, non respirava, non viveva altro che per gli occhi, intenti in quell’uomo, sempre immobile laggiù, fra le colonne della chiesa.

Era stata lei che aveva consigliato al Vharè di uscire. In mezzo allo sgomento di tutti, lei, lei sola, per amore di sua figlia, conservava ancora un po’ di coraggio, un po’ di fermezza.

– Signor Vharè… provi ad uscire – gli aveva detto: – e qualunque cosa accada, per ora, non ritorni più qui. Chi sa, vedendolo andar via solo, non vedendo più nessuno, chi sa ch’egli non possa calmarsi e credere di essere stato ingannato.

Il Vharè non rispose una parola. Non ebbe il coraggio nemmeno di alzare gli occhi; ma con una obbedienza passiva e rispettosa, fece quanto gli veniva imposto. La duchessa Maria, pallidissima e anelante, tornò a guardare fissa dalla finestra.

Lalla era tramortita e si vedeva perduta da un momento all’altro, e perciò, per lo spavento che le legava il cuore, sentiva un gran conforto dalla presenza di sua madre. Le stava vicina piangendo, inginocchiata e tenendosi colle mani stretta alle vesti di Maria.

– È andato?… Se ne va?… Si muove?… – chiese poi a sua madre, con un fil di voce, senza osare di alzarsi a guardar lei dalla finestra, quando le sembrò che il Vharè dovesse ormai essere passato dalla chiesa, ed anche scomparso dalla strada.

– No! – rispose Maria colla disperazione sorda di chi ha perduta anche l’ultima speranza.

– Dio, Dio mio! – balbettò Lalla, torcendosi le mani con un altro scoppio di pianto dirotto, – Dio! Dio mio!… Che cosa fa fare la passione! Tu non sai, mamma; tu non sai!

– Io non so?… Io?… – Maria, a tali parole, si sentì scuotere tutta, si sentì vacillare come se una mano invisibile l’avesse percossa sulla faccia, e le sembrò allora, in quel momento, che tutta la storia della sua vita così addolorata, le si sollevasse viva dinanzi. Anche Maria aveva la febbre, anche Maria delirava. Le più forti commozioni, mille opposti sentimenti si affollavano, si confondevano in lei; e mentre rimaneva immobile, palpitante per il disonore, per l’infamia che minacciava sua figlia, già l’audacia di un sacrificio ch’ella aveva appena intravveduto, ma che sentiva pure di dover accettare ad ogni costo, perchè sola poteva salvare sua figlia, le sgominava la coscienza, le straziava l’anima. Era un sacrificio supremo e terribile, era lo schianto di tutto il suo cuore, era la sua ultima speranza perduta, la sua ultima illusione svanita; era l’orgoglio, era il santo pudore della donna che in lei rimaneva mortalmente offeso, era Giorgio, Giorgio che l’avrebbe derisa, disprezzata, maledetta!… Era l’urto dei due sentimenti più forti della sua vita che s’incontravano, che davan di cozzo fra di loro per abbatterla, per ucciderla.

– Io non la conosco la passione?… Io non la conosco?… T’inganni, sai, Lalla… Son vent’anni che la conosco, è da vent’anni che mi tenta, è da vent’anni che mi fa piangere, che mi fa soffrire, che mi strazia, ed oggi… oggi, sì, ha vinto lei; però è riuscita ad uccidermi, ma non è riuscita a perdermi, – Io non la conosco la passione?… E sei tu, tu, che inginocchiata, fra le lacrime ed i rimorsi, non trovi altra difesa alla tua colpa che in un insulto al mio dolore. Ma sai che io ebbi il coraggio di fuggirlo l’uomo che amavo, e che colle mie stesse mani ho voluto e ho saputo cancellare dal suo cuore ogni memoria, ogni ricordo mio? E sai tu quando, dopo averlo pianto con tutte le mie lacrime per anni ed anni, senza averlo potuto mai dimenticare nemmeno per un giorno, nemmeno per un’ora, sai tu quando l’ho riveduto?… Quando venne a chiedermi in moglie mia figlia!… Ed io mia figlia gliel’ho data in moglie, e lo amavo, sai, Lalla, e lo amo; tanto è vero che muoio!…

– Lui?… Giorgio!… – esclamò Lalla, guardando sua madre esterrefatta.

– Sì… tuo marito; tuo marito che oggi vedrà me uscire da questa casa e crederà che io sia l’amante di un uomo che è corrotto, che è vile, infame, quanto tuo marito è grande, è nobile, è bello!… Sì… Giorgio!… Sì… anche l’ultima mia speranza mi deride, la speranza di essere ricordata come una madre adorata, come una donna onesta; anche l’unico sentimento che mi era concesso di ottenere da lui, e che mi era pur tanto caro, la sua stima, oggi la perdo per sempre. Ma che importa?… Nel mio stesso sacrificio sento più viva, più grande la mia passione; e se non mi è dato di amarlo, sono io, io sola, che in questo momento può difendere, può salvare la sua quiete, la sua felicità, la sua vita… e la tua! – Maria, così dicendo, cogli occhi scintillanti, bella, più bella nel suo amore, nel suo dolore, nel suo coraggio, pareva godere, fremendo, la voluttà di quello spasimo supremo, e abbassato, il velo sugli occhi si strinse nella mantellina e si avviò per uscire.

– No!… No!… Non voglio! – gridò Lalla, non più singhiozzando, ma guardando sua madre con un’espressione di maraviglia, di sgomento e anche quasi di gelosia ne’ suoi occhi spauriti. – No, no, non voglio! -

– Lasciami!… Lasciami passare!… Domando a Dio, domando a te per tutto quanto ho sofferto, una grazia… una grazia sola: quella di poterti salvare. – Va via! Alzati!… Tu non puoi impedire a me, a tua madre, di salvarti. Alzati! Va via!… Te lo impongo. Io sola, qui, ho diritto di comandare e di sacrificarmi; tu questo diritto non l’hai, tu devi ubbidire. Va!… Va! Lasciami passare!… – Maria più forte di Lalla in quell’istante, l’afferrò per un braccio e dopo averla violentemente strappata dall’uscio la condusse vicino alla finestra e – sta attenta, – le disse concitata, indicandole Giorgio, – tra poco lo vedrai… lo vedrai muoversi di là… forse per seguirmi… forse… per fuggire. Tu allora potrai scendere, potrai salvarti. Bada!… Al mondo non ho più nulla, altro che te. Devi salvarti, te lo comando; devi salvarti, perchè tu sei ancora l’ultimo anelito di questo cuore che s’infrange. Salvati, o mi farai maledire la mia virtù, il mio sacrificio, la mia vita; salvati, o mi farai morire dannata! – E uscì ratta, sciogliendosi con un urto violento dalle braccia, dalle mani di Lalla che tremante, le si aggrappava d’intorno, tentando invano di trattenerla.

Lalla rimase interdetta, stordita; ma poi, trovandosi sola, il pericolo che correva la fece presto rientrare in sè stessa. Si avvicinò alla finestra, tenendosi sempre nascosta dietro le tendine, trattenendo fino il respiro, tanto aveva timore di poter essere scoperta. Giorgio era lontano, ma lo vedeva bene. Aspettò con un battito di cuore angoscioso; ci fu un punto in cui lo vide trasalire con una scossa di tutta la persona: indovinò che sua madre, in quel momento gli era passata dinanzi. Poco dopo, lo vide uscire barcollante dalle colonne della chiesa, guardarsi attorno sospettoso e sparire. Allora… oh, allora sentì che era salva!… Si accomodò in fretta le vesti, la mantellina, il cappello; si guardò attorno un’altra volta, come incerta, esitante, poi, ad un tratto, parve risolversi e si avvicinò alla scrivania, aprì un cassetto: c’erano le sue lettere unite insieme, legate col nastrino azzurro. Le prese, rinchiuse il cassetto, le cacciò in tasca, abbassò il velo, si strinse nelle vesti, scese a volo giù dalle scale e corse a casa lesta, spedita.

Giorgio, quel giorno, salì da sua moglie più tardi del solito. Aveva girato a lungo per le strade più deserte di Borghignano; voleva stordirsi, voleva calmarsi. Si sentiva sconvolto e umiliato dalla dolorosa e vergognosa scoperta. Non domandò nemmeno al portiere se Lalla era rientrata; ormai non pensava, non ricordava più che, quando prima l’aveva cercata, sua moglie era fuori. La trovò nel salotto sola, che lavorava coll’uncinetto una piccola cuffia da bambino. Giorgio si sentì stringere il cuore e baciò Lalla sui capelli, colle labbra che gli bruciavano dalla febbre; poi ebbe appena il tempo di fuggire nella sua camera, perchè si sentiva soffocare dalle lacrime.

Quando riapparve, all’ora del pranzo, disse a Lalla ch’egli si sentiva poco bene, ma le prodigò le cure più affettuose, più tenere, che lasciavano scorgere in lui qualche cosa di triste, di melanconico, un’espressione di compianto indefinibile. Giorgio non si stancava di accarezzarla, le dimostrava tutto il suo amore, come se volesse amarla e consolarla anche per la mamma… che la poveretta non aveva più.

Lalla seria, mesta, riceveva quelle carezze con una docilità timida, quasi paurosa. Cogli occhi scuri, profondi guardava lungamente suo marito, quando egli non la vedeva, e il suo sguardo era inquieto e appassionato: lo guardava come non lo aveva guardato mai, a volte facendosi pallida pallida, a volte diventando rossa, di fuoco.