Za darmo

Mater dolorosa

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Lalla rispose che si metteva nelle sue mani e che avrebbe ubbidito in tutto. – Certo, – pensava intanto fra sè, – prima di guastarmi con Giacomo, bisogna che io riabbia le mie lettere; ma, ad ogni modo, non sarebbe male che la mamma gli parlasse un pochino lei, severamente. Ciò lo farà essere più guardingo, e potrà giovarmi per l’avvenire.

Giacomo di Vharè ci teneva molto, presentemente, a farsi vedere in casa Della Valle e in casa d’Eleda. Finchè egli era ricevuto in quelle due grandi famiglie, nessun altro poteva arrogarsi il diritto di fargli sgarbi e, contenti o no, bisognava tollerarlo. Questo era l’argomento più forte che consigliava al Vharè di tenersi ancora legato a Lalla e che lo aveva spinto a ritornare dai d’Eleda, dove la freddezza con la quale Maria lo trattava gli era compensata dalla cordialità più espansiva di Prospero Anatolio, al quale il Vharè era simpatico tanto quanta capiva che era antipatico a sua moglie. Il duca lo riceveva gentilmente, appunto perchè sua moglie cercava di allontanarlo, e ciò non per altro che per il gusto di contraddirla sempre in tutto. In quanto ai pericoli che poteva correre sua figlia per quell’amicizia, toccava a Giorgio a pensarci: egli non voleva incaricarsene. Pier Luigi stesso, che una volta aveva voluto dire la sua, non era stato allontanato da casa Della Valle?… – Oh, quella lezioncina gli bastava; serviva d’esempio.

Pochi giorni dopo che Lalla si era confidata colla mamma, Giacomo, senza punto sospettare ciò che gli doveva accadere, si presentò tranquillo e sereno in casa d’Eleda. Maria, che non dubitava, che non avrebbe mai dubitato, buona e santa com’era, di parlare coll’amante della propria figlia, e lo teneva solo come un importuno che avrebbe finito col comprometterla, lo accolse, questa volta, con straordinaria affabilità, indotta a mostrarsi gentile dalle tristi condizioni del Vharè, che nel suo cuore suscitavano una pietà viva e sincera. Cominciò col dirgli ch’egli saprebbe certo scusare le ubbie, i fantasmi che si crea una madre nelle sue continue inquietudini. Aggiunse che il mondo era così sospettoso, che la riputazione di una donna era tanto fragile da dover schivare ogni apparenza, anche la più lieve, la più insignificante; e per tutto ciò concluse pregandolo di volerle concedere un favore: diminuire la sua frequenza presso la contessa Della Valle!… In quei mesi il conte Giorgio era sempre lontano per il suo ufficio di deputato, e Lalla rimaneva sola, e perciò dava maggiore appiglio ai commenti malevoli. Giacomo, a tali parole, si sentì subito assai impacciato e tanto più che, oltre alla sorpresa e un po’ alle inquietudini che destava in lui un simile discorso, la duchessa gli si rivelava ad un tratto, come non l’aveva mai veduta, nè immaginata. Non era più la signora fredda e un po’ altezzosa; non era più la Madonna di neve che gli parlava, ma dal cuore di Maria prorompeva un’eloquenza così calda e appassionata, così sincera e onesta che, commovendolo, mal suo grado lo turbava. E mentre Maria credeva solamente di toccargli il cuore, ogni sua parola gli penetrava invece tormentosa anche nella coscienza. Ad accrescere poi la sua confusione, come se tutto ciò non bastasse, in quel punto ch’egli stava per aprir bocca (o bene o male doveva pur rispondere qualche cosa), ecco capitare Giorgio inaspettatamente: Giorgio Della Valle, arrivato allor allora da Roma, e che apposta non si era fatto annunziare, desiderando e sperando fare – alla mamma – una gradita sorpresa.

Maria e il Vharè, com’è naturale, rimasero un po’ confusi per quell’apparizione; e tanto più in quel momento. Il Vharè, tuttavia, fece presto a rimettersi, ed anzi, da uomo esperto, ne approfittò per levarsi d’imbroglio, correre da Lalla e concertarsi a proposito del sermoncino che gli aveva fatto la duchessa e che credeva, in buona fede, dovesse recare molta meraviglia anche all’amica. Invece, il conte Della Valle, il quale sperava una ben diversa accoglienza, non riusciva a spiegarsi tanta confusione, tanta incertezza, tanta freddezza. Una cosa sola era chiara, molto chiara: egli era capitato assai male a proposito.

Il Vharè trovò Lalla nel solito salottino, ma non più avvolto nelle tenebre, così care ai fidi colloqui. Dalle finestre socchiuse e dai vetri colle tendine alzate il sole entrava allegramente, con tutto il suo lusso di colori e di luce.

Lalla leggeva Les rois en exil del Daudet, e quando vide Giacomo gli stese la mano, senza nemmeno alzare il capo dal libro. Ormai erano arrivati al punto, che il romanzetto vero di Giacomo aveva per lei minori attrattive di quello stampato che teneva fra le mani.

– Vengo ora dalla duchessa.

– Hai veduta la mamma?

– Sì, e… mi ha parlato molto di te…

Lalla alzò il capo un momentino, ma lo chinò quasi subito, per tornare a leggere.

– Mi ha fatto una gran predica!… – E Giacomo, parola per parola, riferì a Lalla tutto quanto gli avea detto la duchessa Maria.

– Ero sicura che mia madre un dì o l’altro ti avrebbe tenuto un simile discorso. Ieri, figurati, mi ha fatto una gran scena perchè, non so chi, se la Bertù o la Calandrà, è andata a dirle di averti trovato qui, da me. Una scena. Dio mio, che mi ha fatto star male tutto il giorno. Lalla si asciugò una pronta lacrimetta, e sospirò, ma tenne gli occhi sempre fissi sul libro e continuò a leggere.

– Sono corso apposta da te; – le disse Giacomo, – per sentire ciò che si deve fare.

– Pur troppo… capisco: il vedersi… diventa ogni giorno più difficile.

– E lo dici, così?…

– Ma io…

– Ma tu… tu sei come gli altri. – E Giacomo, invece del solito ghigno beffardo, ebbe un sorriso tristo, doloroso. – Sì, cara contessa; è tempo di finirla. Non le pare? Un buon colpo di revolver e buona notte.

Lalla, a tali parole, si sentì assai turbata. A lei la vita sorrideva ancora: qualche noia, qualche contrarietà, qualche leggero sgomento, ma scomparivano presto, lasciandola pienamente felice. La morte per Lalla era qualche cosa di lugubre, di spaventoso, e non l’avrebbe augurata nemmeno al suo più fiero nemico; perciò, l’idea sola che il Vharè fosse giunto al punto di desiderarla, le rivelava un’angoscia così grande da inspirarle una pietà nuova e profonda.

Buttò via il libro, corse vicino a Giacomo per consolarlo e gli disse che – se adesso egli la vedeva più timida e più paurosa doveva capire che adesso lei non era più sola, ma che se tremava, tremava anche per suo figlio. E quando Giacomo le domandò rassegnato che cosa voleva ch’egli facesse e se doveva, come desiderava sua madre, non andarle più in casa, Lalla gli rispose di sì, che ciò era assolutamente necessario: poi saltandogli sulle ginocchia, sorridendo e baciandogli i capelli, gli aggiunse a bassa voce, colla bocca appoggiata all’orecchio: – Verrò io da te… se mi prometti di esser buono.

– Quando?

– Prometti prima che sarai buono, e che mi darai un bacio solo; sulla fronte.

– Prometto.

– Giura.

– Giuro. Quando vieni?

Lalla alzò il capo seria, per riflettere. Essa voleva le sue lettere, e se avea promesso di andare da lui, tanto valeva farla subito quest’ultima scappata, perchè ogni dì che passava il pacchetto col nastrino azzurro si trovava sempre in maggior pericolo. – Se quella certa scrivania venisse messa all’incanto?…

– Domani, – rispose finalmente, dando a Giacomo un altro bacio sui capelli. All’indomani, in fatti, suo marito aveva seduta al Consiglio Provinciale e al Comizio Agrario. Giacomo la strinse al cuore ringraziandola: in quel momento Lalla, forse perchè stava perdendola, gli piaceva assai. Egli era poi così abbattuto: lo squallore, la vergogna della miseria lo circondavano così da vicino, che si sentiva consolare al contatto di quella donnina elegante, che gli spandeva d’intorno come un ultimo raggio de’ suoi lontani splendori.

– Dunque domani? – ripetè Giacomo alzandosi per andar via: non voleva incontrarsi un’altra volta col marito.

– Sì. Domani.

– A che ora?

– Aspettami fino alle due. Ma…

– Ma?

Lalla non disse una parola di più: Giacomo vide passare ne’ suoi occhi il nome della Soleil.

– Cattiva!

– Un’altra cosa, signor marchese. Intendiamoci: non bisognerà dimenticare ciò che mi ha giurato.

– Un bacio solo…

– E sulla fronte. – Lalla, civettina e stordita, fece una smorfietta di una gravità così comica e così gentile, che Giacomo non potè trattenersi dal sorridere e dal ripeterle che le voleva bene.

Quando il marchese di Vharè uscì dal salottino e passò nell’altra camera, gli parve sentire qualcuno che si movesse dietro la porticina che Lalla gli aveva fatto vedere fino dalla sua prima visita a Borghignano. Si fermò su due piedi, aspettò un poco, voleva quasi tornare indietro per avvertire Lalla; ma poi, non udendo più nulla e pensando di essersi sbagliato, continuò diritto, tranquillamente, per la sua strada.

Giacomo non si era sbagliato; da quella porticina avea avuto tempo di scappar via la Nena.

XXIX

La Nena era gelosa della sua padrona.

Il Frascolini l’aveva soggiogata moralmente e fisicamente; colle carezze e colle botte, colla promessa di sposarla e colla minaccia di piantarla su due piedi se non voleva fare ciò che comandava lui, cioè spiare la signora contessa attentamente e riferire tutto ciò che poteva vedere e sentire. La Nena, in sulle prime, si era adattata assai di mala voglia al brutto mestiere; ma poi, per la gelosia, che le si destò forte e pungente, cominciò a farlo con passione.

Appena la contessa Della Valle, ritornata da Roma, si era fermata a Borghignano, il direttore dell’Omnibus, ormai cavaliere e persona autorevole, si teneva sicuro di rientrare nelle buone grazie della duchessina, alla quale non doveva parer vero, secondo lui, di accogliere nel suo salotto una persona tanto ragguardevole. Perciò egli si credeva in obbligo di sfoggiare colla Nena un’aria di sussiego, certi atteggiamenti olimpici, che la mettevano sulle spine.

 

Un giorno poi, – figurarsi! – la poveretta lo vide tutto vestito di nero, attillato, profumato e con un bellissimo occhio di vetro, che per qualche ora cominciava a poter sopportare, e seppe dal Frascolini stesso, che egli si era messo con tanto lusso, perchè doveva recarsi verso le tre, dalla contessa Della Valle! La Nena prima si fece seria seria; ma infine, vedendo che quell’altro non la guardava nemmeno, lo scongiurò di non farla diventar matta gridando che se aveva in mente di tradirla, sarebbe stato un bugiardo, un traditore, un infame.

Il Frascolini lasciò sfogare la tempesta senza scomporsi; quindi, con molta gravità, cominciò a confortarla, assicurandola che, in ogni caso, egli la avrebbe sempre avuta a cuore; che, del resto, dovea ben capire come nella sua presente condizione egli non poteva bamboleggiare col sentimentalismo; egli aveva una gran missione da compiere, uno scopo da raggiungere. Il Patto sociale, simile all’Ebreo Errante, camminava sempre senza fermarsi mai, e attraversata la notte dei secoli, arrivava allora ai primi albori della civiltà. Il Terzo stato aveva fatto il suo tempo, il quarto avanzava, bisognava preparare il quinto. Del resto lui le avrebbe sempre voluto bene, ma a condizione che non lo seccasse, che non gli facesse perdere un tempo prezioso. Era inutile opporsi; lei del resto non lo poteva capire, e perciò loro due non si potevano intendere. Questo solo doveva mettersi in testa:

«Non si trattien lo strale

Quando dall’arco usci!

Ed egli, ormai, s’era lanciato.

La Nena, che aveva ascoltato Sandro cogli occhi spalancati, gli confessò che non lo capiva affatto; ma che per quella visita ch’egli voleva fare alla sua padrona, ella si sentiva stringere il cuore. Il Frascolini perdette la pazienza, la strapazzò come un cane e la mandò via.

Un’ora dopo, egli si avviava verso casa Della Valle lentamente, con un gran batticuore, quantunque volesse fingere seco stesso di essere franco e sicuro del fatto suo.

Egli vedeva ancora la signorina Lalla con quel suo vestitino succinto di mussola bianca, gli occhi bassi, le guance soffuse di un leggero incarnato; bella com’era bella l’ultimo giorno che si erano lasciati a Borghignano, poco prima delle sue nozze, quando gli promise che dopo… si sarebbero riveduti. – La signorina gliel’aveva promesso, ma… Ma in fin dei conti toccava a lui di farsi innanzi per il primo; non poteva pretendere che fosse la donna quella che lo venisse a cercare. Adesso era cavaliere, quasi amico del duca Prospero Anatolio; era direttore e proprietario dell’Omnibus… Una visita gliela doveva.

Intanto, pensando a tutto ciò, era arrivato a casa Della Valle. Si fermò sul portone colla scusa di guardare nel portafoglio se aveva biglietti da visita; ma, in verità, si era preso quel momento per rinfrancarsi, e poi entrò diritto colla risoluzione affannosa di chi si getta, d’un salto, in una corrente di acqua fresca.

Il portiere, richiesto, vista l’eleganza del visitatore, rispose che la padrona era in casa, che riceveva, e sonato il campanello lo accompagnò fino ai piedi dello scalone. Sull’uscio dell’anticamera c’era un servitore che fece entrare il Frascolini nella prima sala; poi gli domandò il suo nome e andò ad annunziarlo. Tornò dopo averlo fatto aspettare abbastanza perchè Sandro, consumata tutta la sua provvista di coraggio, pentito, pauroso dell’atto temerario, al quale non sapea più nemmen lui come avesse potuto risolversi, desiderasse che Lalla non lo ricevesse per poter scappar via. Invece il servitore lo pregò di seguirlo; ma non lo accompagnò nel salottino della contessa, e Sandro, molto maravigliato, si trovò inaspettatamente nello studio del signor conte e proprio a faccia a faccia con lui, il tentennante, il rosso di ieri!…

Il Della Valle lo salutò appena, con un cenno del capo, e senza farlo sedere, tenendolo in piedi vicino all’uscio, domandò che cosa il cavalier Frascolini desiderava da sua moglie.

L’egregio uomo, direttore dell’Omnibus, in questa circostanza non trovò più una gocciola di spirito e nemmeno un granellino di pepe; ma si turbò, si perdette d’animo, ed in preda ad una gran confusione balbettò coll’aria di chi sa di doversi discolpare, – ch’egli si era recato dalla signora contessa, desiderando solo di presentarle i suoi omaggi. – Allora Giorgio, fissandolo bene, gli rispose di essere incaricato, appunto dalla signora contessa, di dispensarlo da ogni obbligo: e detto ciò non aggiunse una parola di più, nè rispose agli umili inchini del Frascolini che nell’andar via sbagliava gli usci, non trovava la scala, maledicendo il momento che avea messo i piedi in quella casa.

Ma trovatosi all’aria aperta gli ritornò subito il coraggio e la cattiveria, e col bruciore addosso della brutta figura che aveva fatta si arrovellò contro Lalla e contro Giorgio aggiungendo a tutto ciò che avea sofferto anche la vergogna di quell’ultima umiliazione.

Però, quando rivide la Nena, non le riferì il cattivo esito della sua visita: era stato uno smacco troppo forte. Invece ebbe reticenze, misteri, i quali lasciavano sospettare chissà cosa alla povera grulla, che temeva sempre le sfuggisse l’amante, e si sforzava non più per difendere la padrona, ma per convincere Sandro che la signora contessa avea tutt’altri in mente che lui. Gli riferì, allora, come la sua padrona si era incontrata a Torino col marchese di Vharè, e a mano a mano gli contò tutto ciò che le venne fatto di scoprire, non sospettando mai che quel suo spionaggio potesse recar danno alla contessa; ma sperando solo di strappar via dal cuore del proprio innamorato ogni ricordo, ogni cara memoria.

Il Frascolini, più furbo della Nena, sapeva giocarla benissimo su questo tasto. Dopo ch’egli ebbe scoperto il suo anello in dito al bel marchese, – quell’anello che gli era costato tanti sacrifici e tanti dispiaceri, – risoluto di vendicarsi e trovato il modo di farlo, per metterlo in esecuzione lasciò capire alla ragazza che s’egli non aveva prove più convincenti non avrebbe mai potuto credere che la contessa Della Valle potesse incapricciarsi di un tristo soggetto dello stampo del Vharè; ma che lei, la Nena, voleva ingannarlo pe’ suoi fini; e dopo di essere arrivato ad una tale conclusione taceva, pareva distratto e sospirava.

La Nena che, oltre a tutto il resto, si sentiva accusare di falsità, si pose all’opera con maggiore impegno e si tenne sempre vigilante, spiando la sua padrona quando usciva, quando restava in casa, e tenendo d’occhio chi andava e chi veniva. Appena il portiere sonava, annunziando una visita, la Nena cacciava il capo fuori della galleria per vedere chi attraversava la corte, finchè, venuta la volta del Vharè, essa, passando per l’uscio segreto che dava adito alla stanza vicina al salottino, potè udire tutto ciò che dicevano il signor marchese e la signora contessa. Ne sentì abbastanza, più di quanto avrebbe creduto, e la sera, trovandosi come di solito, nei viali deserti dei Giardini pubblici col Frascolini, gli riferì ogni cosa, pur di convincerlo che se voleva ancora sospirare per la sua padrona, era fiato sprecato.

Sandro l’ascoltò attentamente, fermandosi su due piedi, per paura di perdere una sillaba; e lì, sotto quelle piante che rendevano più ingombra la luce cupa della sera, anche il suo occhio di vetro pareva animato da una gioia selvaggia.

– Per la Madonna! – ghignò concitato quando la Nena ebbe finito di parlare. – Adesso non mi scappano più! No!… ci sono caduti nella rete, ci sono caduti!

– Gesù mio! Che cosa dici?… che cosa intendi di fare?… – esclamò la Nena spaventata.

– Ciò che voglio fare non ti riguarda.

– Ma la mia padrona?

– Non ci devi pensare.

– No, no. Sandro, non voglio; non voglio che tu le faccia del male. T’ho contato tutto, perchè ero gelosa, ecco, non per altro.

– Oh, non l’amo, no. Sta tranquilla che non l’amo e ne avrai presto la prova.

La Nena, sbigottita, cominciava adesso ad aprire gli occhi e per la prima volta si fermava nella sua corsa vertiginosa per riflettere, per misurare tutte le conseguenze di quell’atto infame, commesso da lei durante uno stordimento che l’avea spinta, trascinata giù giù, in fondo all’abisso, senza ch’ella nemmeno se ne fosse accorta. Allora, colle punture del rimorso nel suo cuore sconvolto dall’amore, ma non ancora pervertito, tornò a ridestarsi tutto l’affetto per la duchessina, la gratitudine per tutto ciò che le doveva; e pregò, supplicò Sandro di acquietarsi, di perdonare alla signora contessa, di promettere, di giurare che non le avrebbe fatto del male. Ma Sandro, le mani in tasca, il capo basso, il cappello calato sul naso, invece di lasciarsi commuovere e di rispondere, si era messo a fischiare la Marsigliese; e la durò così, ingrugnito, quanto fu lunga la passeggiata, finchè venuto il momento di tornare a casa, tentò di cavarsela salutando in fretta e filando via. Ma la Nena gli corse dietro e non lo lasciò, e Sandro dovette promettere che l’indomani si sarebbe trovato in ufficio a mezzogiorno per aspettarla e che, frattanto, non avrebbe tentato nulla contro nessuno.

La poveretta arrivò a casa più morta che viva: era sbalordita, tremante, coll’angoscia paurosa di chi ha commesso un delitto. Quella sera, per giunta, la signora contessa fu con lei ancora più buona del solito; e quando ebbe finito di svestirla, le regalò una cappotta, sulla quale Lalla sapeva che la sua cameriera teneva l’occhio da un pezzo. La Nena si sentì stringere la gola nel ringraziarla, e quella veste le pesò sull’anima come fosse di piombo.

Entrò nella sua camera barcollante, si cacciò presto nel letto e avrebbe voluto addormentarsi per non isvegliarsi più. Ma il sonno, invece, non voleva venire; smaniava, dava le volte pel letto, aveva paura e si sentiva i brividi della febbre. Passò così buona parte della notte finchè, colla stanchezza, riebbe un po’ di calma. – Sandro, pensava, non doveva essere affatto senza cuore e lei lo avrebbe tanto pregato, che avrebbe finito col cedere. Al primo colpo, si sa, era rimasto ferito nel vivo e non aveva voluto piegarsi, ma l’indomani, certo, sarebbe stato più buono. Non era un birbante, non era una canaglia. Alla fine egli aveva molti obblighi con lei, obblighi sacrosanti. Ebbene, ella dimenticherebbe tutto, non gli domanderebbe nemmeno più che la sposasse, a patto, per altro, che abbandonasse ogni cattivo pensiero contro la padrona. Ma e… e se invece tenesse duro?… Se fosse così… così cane, da non piegarsi a nessun costo?… Ebbene, allora lei sarebbe tornata a casa e avrebbe confessato tutto alla signora contessa… Sì, sì. La signora contessa dovea essere salva e lei l’avrebbe salvata. Alla fine poi, mentre la signora contessa e il signor marchese fissavano il loro convegno, non li avea uditi che lei sola, e al caso, in un caso disperato, avrebbe anche giurato e spergiurato di aver riferito il falso al Frascolini.

Così confortata, potè addormentarsi; ma la sua quiete durò poco. Si svegliò quasi subito, sussultando, in preda a nuove angosce. Nel sogno le era apparsa la faccia del Frascolini che la fissava con un ghigno beffardo, feroce, e quella faccia s’ingrandiva a mano a mano che le si avvicinava, e appariva mostruosa, mentre di sotto alla benda nera gli colava, lungo la guancia, una riga di sangue. Ma la Nena non poteva liberarsene; ormai le era addosso, la toccava e nello stesso tempo che la vedeva chiara dinanzi, la sentiva sul petto greve, opprimente. Si svegliò che credeva di soffocare; spalancò gli occhi; eccola ancora, quella grinta, in mezzo al buio della cameretta!… Accese il lume impaurita, si provò a pregare; no, no, non poteva; aveva la mente troppo sviata, troppo sconvolta. Si alzò che albeggiava. Il primo oggetto che si presentò al suo sguardo fu la cappotta regalatale dalla padrona. Allora la prese con tutt’e due le mani, la baciò quasi devotamente, e riandando col pensiero le memorie più lontane della sua infanzia, rammentava tutti i benefici ch’ella aveva ricevuti in quella casa; l’assistenza, i soccorsi prodigati a sua madre, al babbo suo, e quel comando di Lalla di non ritornare a discorrere mai più col Frascolini… Lei l’aveva disubbidita; aveva incontrato Sandro, di nuovo si era messa a parlare con lui… Egli le disse che le voleva sempre bene… la condusse lassù, in quel camerone buio, lungo, basso come una prigione, pieno zeppo di ruote, di cavalletti, di macchine che giravano, pestavano, fischiavano, mentre uomini sudici, col ceffo annerito e con certi occhiacci che la divoravano viva, sembravano in tutto quel fracasso d’inferno altrettante anime dannate; poi… poi, senza saper come, da un momento all’altro, si trovò in una stanzetta linda, silenziosa…

Per la prima volta sentiva adesso, adesso soltanto, tutto l’orrore della propria colpa, come un ubriaco che, risvegliandosi dopo un lungo sonno, a poco a poco si ricorda di aver commesso un delitto. A questo strazio non potè reggere, cadde bocconi sul letto e mentre le pareva di sentirsi nell’anima la maledizione de’ suoi due vecchi, balbettava singhiozzando: – Vergine Santa! Vergine Santa! Che cosa ho mai fatto!

 

Più tardi, quando ebbe vestita la sua padrona, prima del mezzodì, e colla scusa di dover andare dal merciaio, corse dal Frascolini. Ma il Frascolini non c’era, nè giù all’ufficio, nè su, in casa, e nemmeno in stamperia.

La Nena si sentì una stretta al cuore: Sandro non le aveva mantenuta la promessa. Ne domandò a un monello in camiciotto, con due occhietti neri, maliziosi, luccicanti in una faccia scialba e sudicia, la pipa in bocca e un berretto in testa, fatto con un giornale. Il monello sbirciò la bella ragazza, strizzando l’occhio, tale quale come se fosse stato un uomo di vent’anni, poi levandosi la pipa, sputando e asciugandosi lentamente le labbra colla manica del camiciotto, rispose:

– È il direttore che cerca? Il direttore è andato a… – e movendo la mano aperta, distesa, all’un de’ fianchi, il monello fece quell’atto che spiegava come Sandro fosse andato a mangiare.

– Tarderà molto a venire?

– Secondo l’appetito. Intanto può aspettare in ufficio.

– No, grazie.

– Come vuole. – E il monello, continuando a sbilucciarla, sputacchiò un’altra volta per darsi importanza, poi, fischiettando con un certo fare da menimpipo, infilò l’uscio della stamperia e scomparve.

La Nena era inquieta e sgomenta: aspettò sulla porta una mezz’ora buona, salì di nuovo, nemmeno il proto sapeva indicarle dove si potesse trovare il signor direttore. Al caffè avevano mandato a cercarlo, ma non c’era; non andava più lì, di fisso, a far colazione.

La poveretta era sulle spine e ogni minuto che passava pareva le portasse via un tanto di fiato e di vita. Finalmente, quando già cominciava a disperarsi, vide Sandro scantonare e avvicinarsi verso casa.

– È un’ora che ti aspetto, – gli gridò la Nena appena fu dentro e si trovò sola con lui…

– Se non volevi aspettarmi potevi andartene.

La Nena guardò attentamente il Frascolini: era più rosso del solito, aveva la cravatta sciolta, ansava… doveva aver bevuto molto a colazione.

– Sai che cosa mi avevi promesso, ieri sera?…

L’altro si strinse nelle spalle, schivando che il suo occhio s’incontrasse negli occhi penetranti della ragazza – Ho da fare, oggi, – le disse alla fine, tanto per liberarsene.

– Me ne vado via subito; soltanto voglio prima che tu mi prometta ciò che non hai voluto promettermi ieri sera.

– Impossibile – rispose Sandro, strappandosi del tutto la cravatta, perchè soffocava.

La Nena non si perdette d’animo e con quell’eloquenza che prorompe dal cuore, tornò a scongiurarlo di perdonare alla Signora contessa e di non farle del male. Gli disse che a questo solo patto ella sarebbe stata la sua serva, la sua schiava, che egli non avrebbe più udito dalla sua bocca nè un rimprovero, nè un lamento e che non gli avrebbe più rinfacciato la pace, l’onore perduto. Gli ricordò la devozione, la gratitudine che il padre di lui, il vecchio Frascolini, aveva sempre serbata viva nell’anima per la signora duchessa, quella santa donna che sarebbe morta d’affanno, se qualche disgrazia fosse toccata alla sua figliuola; e siccome Sandro si era messo a fissarla come intontito, la Nena lo credette commosso, gli gettò le braccia al collo e continuò a pregarlo, a supplicarlo, coprendolo di carezze, di baci, di lacrime finchè, vedendo che l’altro durava a star zitto, esclamò: – Dunque, di’ su, rispondi; mi fai questa grazia?… Posso viver tranquilla, vero?… Posso viver tranquilla?

– Levati, via!… Mi secchi, mi fai caldo, così a ridosso, – esclamò il Frascolini; poi con una certa precipitazione, come se volesse liberarsi d’un gran peso, – dopo tutto, – concluse – è tempo perso per me e per te. Tornare indietro adesso non si può; quel ch’è fatto, è fatto.

La Nena diede un urlo e il Frascolini fu scosso dall’espressione strana di sgomento, di dolore, d’ira, che apparve su quel volto contratto. Allora, per vincere l’inquietudine da cui si sentiva dominato, si pose a gridare, a urlare a sua volta, col braccio teso, col pugno chiuso; pareva volesse percuotere un’immagine odiata ch’egli si vedeva ritta dinanzi.

– M’hanno scacciato come un cane, nome d’un Dio!… Come un ladro! Tu non lo sapevi questo, vero?… Fu lei, che ha fatto crepare mio padre di dolore; fu lei, che mi ha avvelenata la vita, che mi ha guastato il sangue, che mi ha strappato il cuore!… La cercavo io?… No. Ero tranquillo, ero felice, ero onesto. Sì; onesto. È stata lei a rovinarmi, a perdermi, a filtrarmi fuoco e tossico nell’aria che respiravo. Sì!… Mi sono vendicato. Sì!… E per questo? Vita per vita!… Pace per pace!… Onore per onore!… Alla gogna! – Alla lanterna gli aristocratici, alla lanterna; nome d’un Dio!

La Nena pallida, fremente, cogli occhi torvi, gli afferrò il braccio che teneva disteso, e stringendolo e strappandolo con una forza nervosa, strana: – Rispondi – balbettò, palpitante. – Rispondi, assassino; che cos’hai fatto?

Sandro era in preda ad una commozione, ad una eccitazione indescrivibile. I fumi del vino che gli annebbiavano il cervello, l’ira, l’odio che aveva nell’anima, i ricordi degli oltraggi e del suo amore offeso, tutto ciò non riusciva, in quel momento, a soffocare il rimorso! Egli giurava a sè stesso, alla Nena, a Dio, ai Santi che aveva avuto ragione di vendicarsi come si era vendicato, che nemmeno il Padre Eterno avrebbe avuto più pazienza di lui, che altrimenti sarebbe stato uno stupido, un vigliacco: ma non osava di guardare la Nena, e quanto più alzava la voce e smaniava, tanto meno riusciva a nascondere, a soffocare quell’altra voce che gli usciva più forte dalla coscienza.

– Assassino! Assassino!… Che cos’hai fatto?! – continuava a ripetere la Nena, con voce rotta, convulsa, così dappresso ch’egli si sentiva bruciare la faccia da quell’alito caldo. – A me, sai, non si può darla ad intendere. A me non puoi venire a dirle le tue menzogne. Non puoi parlare di giustizia, di diritto con me!… Che giustizia è la tua di vendicarti su chi, anche, ti avesse fatto del male?… Mi vendico io di te?… E me n’hai fatto del male!… Oh! se me n’hai fatto!… Ero venuta a cercarti io?… Ti avevo strappato il cuore, attossicata l’aria? No. E dunque, vita per vita, pace per pace, onore per onore, non t’eri forse pagato abbastanza con me, assassino?

Sandro, così come gli appariva allora, non aveva mai veduta la Nena… Non era più la fanciulla innamorata sommessa che gli stava dinanzi; era un’altra donna. Al Frascolini pareva che in lei si fosse incarnato il proprio rimorso. Lo sdegno di quella donna era più vero e più giusto del suo; essa lo confondeva, lo schiacciava, e Sandro ne ebbe paura. Allora, senza neppur sapere ciò che facesse o dicesse, a strappi, confessando prima e poi contraddicendosi e negando, accusando gli altri e difendendo se stesso, cercando scuse e pretesti, cominciando col mentire e terminando coll’essere sincero, contò alla Nena, con ogni più minuto particolare, l’infame vigliaccheria che aveva commessa; e quando ebbe finito, senti come un grande sollievo a non aver lui, lui solo, sulla coscienza, il peso enorme di quell’odioso segreto.

La Nena lo ascoltò, ascoltò tutto, pallida, tremante, senza mai dire una parola; poi, uscì ratta dalla camera, fece le scale a precipizio e correndo, senza badare ai curiosi che si voltavano a guardarla, corse subito a casa per cercare della signora contessa, per avvisarla di tutto, per impedire ch’ella andasse dal Vharè, per salvarla. Alle due, mancavano più di tre quarti d’ora. Oh, sarebbe arrivata ancora in tempo!… La Vergine benedetta le avrebbe fatta questa grazia, questo miracolo!…