Za darmo

Mater dolorosa

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Le storielle erano il suo punto debole. Ne contava molte, ne contava troppe. Ne aveva una, fra le altre, che spacciava per uso e consumo de’ suoi adoratori, i più ricalcitranti al regime negativo, e che pareva un romanzo del Montépin.

L’eroe era un principe russo, ricchissimo, possessore di venti villaggi, d’una barba orribile e d’una desinenza in off ancora più orribile, che voleva amarla per forza, quantunque lei gli rispondesse sempre di no. Il principe, al primo rifiuto sorrise cinicamente, offrendole, in cambio della sua virtù, manate di turchine e pugni di diamanti; ma lei, dura sul no, anche la seconda volta. Allora i peli della barba del principe si agitarono come tante lamprede fuori dell’acqua, e il sorriso cinico si mutò in un ghigno feroce; ma siccome non poteva farla frustare, si rassegnò ad aggiungere all’offerta delle turchine e dei diamanti anche quella della sua mano e della desinenza in off. A tale proposta, continuava a contare la diva, lei s’era messa a ridere, ringraziandolo d’averla corteggiata pour le bon motif; ma dichiarandogli, nello stesso tempo, ch’egli arrivava troppo tardi, perchè la Desirée() Soleil aveva sposato il teatro, e l’arte sola oramai le poteva far battere il cuore; era costretta quindi, avec beaucoup de chagrin, a dirgli di – no – pour la troisième fois. La barba del principe, all’ostinato rifiuto, non si mosse nemmeno: cattivo segno. La sera dopo, mentre lei e l’Assunta uscivano dal teatro, il principe, aiutato dalla polizia, le rapì tutte e due: sicuro, anche la cameriera, che a questo punto veniva citata sempre come a testimonio. Le peripezie del viaggio lungo i deserti di ghiaccio, coi lupi affamati che saltavano attorno alla slitta, erano innumerevoli e svariatissime, ma presto o tardi si arrivava felicemente al castello del principe. Era un castello in mezzo alla neve, con parco e giardino inglese, illuminato a luce elettrica. Nel castello, Barbarossa ne tentò di tutti i colori contro la virtù della diva. Tentò la grazia, la forza, e in fine tentò anche l’astuzia. Voleva addormentarla con un potente narcotico, ma lei, invece di bere il narcotico, mangiò la foglia e visse solo di frutta e di ghiaccio. Irritato da tanta fermezza, Barbarossa perde la prudenza: e colla faccia infocata, gli occhietti da basilisco, digrignando i denti, magro, sporco, sparuto, ella lo vide, una notte, capitare attraverso un quadro, nella sua camera da letto e… La lotta che successe allora fu terribile e grottesca. La Soleil, raccontandola, si animava, diventava rossa in faccia, e, alzandosi, afferrava uno de’ suoi amici, lo trascinava attorno due o tre giri per il salotto e finiva con un impeto potentemente drammatico a lanciarlo fuori dell’uscio che gli chiudeva sul muso, accompagnando la spinta con un – no! – nel quale echeggiava una bellissima nota di contralto. Anelante, tornava poi a sedere, e terminava tranquillamente di raccontare il drammatico epilogo del principe russo il quale, in capo ad una settimana, e a cagione di quell’amore infelice, diventato pazzo furioso e legato nel proprio letto, colla camicia di forza, non faceva altro che ripetere – no! – no! – no! – lo spietato – no, della diva!

Ma quando le fu presentato il marchese Giacomo di Vharè, essa non gli raccontò la storiella del principe dei venti villaggi e nemmeno quella più modesta del babbo barone. Capiva che col Vharè doveva essere tutt’altra cosa, e invece di parlare sempre lei, come faceva con tutti gli altri, lo stava ad ascoltare attentamente, provando una seduzione nuova, profonda, indefinibile a quella parola così facile, così affascinante. La Soleil capì, subito, che avrebbe finito coll’amare il Vharè, e coll’amarlo forse tanto, quanto non aveva mai amato fino allora; e tutti questi suoi sgomenti una sera che, per caso, furono lasciati soli nel camerino, ella glieli confidò candidamente, come le uscivano dal cuore che pareva le si risvegliasse allora, dopo un sonno lunghissimo. Col Vharè essa non era più la Desirée Soleil, era ritornata Andreina Calziraghi, la semplice, la buona ragazza.

– Siate generoso con me; – gli disse fissandolo quasi timidamente. – Non insistete tanto per farvi amare; non mi tentate così. A voi il lasciarmi non costa nulla, ed io con voi, lo sento, arrischierei troppo, arrischierei tutto. Ero così tranquilla e stordita; ero così beata. Ridevo, ridevo sempre, e voi tornate a farmi diventar triste e a farmi pensare. No, mi secca; non voglio!… Non voglio più voler bene; e se ne volessi a voi sarebbe una cosa seria; forse la più seria della mia vita, e terminerebbe coll’annoiarvi. Da bravo, marchese, ve ne prego, seguite un mio consiglio: presto la stagione sarà finita, non venite più da me, rinunciate al teatro, per queste poche sere, e tutti e due conserveremo la nostra pace.

Giacomo vedeva bene che la Soleil non mentiva, e gli piacque la sincerità, il bel tipo di bruna, mentre lo allettavano l’ingegno dell’artista e le difficoltà dell’impresa.

Invece di lasciarla, si attaccò a lei ancora di più; e Andreina, a poco a poco, si innamorava perdutamente e ritornava a sentire inquietudini e turbamenti, lei artista, lei cantante, lei che non era nuova nè all’amore e nemmeno agli amanti e che doveva essere agguerrita contro qualunque seduzione. Ma l’amore fa di questi tiri, e ne fa anche di peggio!… Quando dal suo camerino ella vedeva Giacomo avvicinarsi, le batteva il cuore e arrossiva d’improvviso, come una giovinetta, come un’ingenua sensitiva, ancora ai primi palpiti. Una sera, mentre era in iscena e cantava, lo sentì, più che non lo vedesse, entrare in un palco di proscenio, avvicinarsi al parapetto, fissarla col cannocchiale, e la poveretta, come se ritornasse alle emozioni dei virginali turbamenti, stonò forte, e non ebbe i soliti applausi alla sua aria favorita.

Adesso non recitava la commedia, no, no; aveva paura davvero, e non vedeva il momento che si chiudesse quella malaugurata stagione per andarsene via, per fuggire, per non vederlo più; ma il Vharè non gliene lasciò il tempo.

Un giorno Andreina era ancora seduta a tavola e pensava appunto al bel marchese di Vharè, giocherellando distratta e quasi triste, coll’orlo della salvietta: quella sera essa doveva cantare e però non voleva ricever nessuno; ma Giacomo seppe commuovere il tenero cuore dell’Assunta, e Andreina se lo vide capitare dinanzi, in quel momento che lo credeva più lontano. Lo accolse con un grido, si arrabbiò coll’Assunta, si mostrò crucciata con Giacomo, non voleva dargli la mano; ma non ebbe il coraggio di mandarlo via.

La piccola stanzetta era quasi al buio: due candele rischiaravano appena il disordine della tavola apparecchiata, mentre dallo sportellino della stufa accesa usciva a tratti, come un respiro di fuoco, la fiamma rossastra. Faceva caldo, si soffocava lì dentro, e Giacomo venendo allora dal freddo della strada, si sentì bruciare la faccia, mentre respirava a fatica in quell’aria greve, impregnata dal profumo dei fiori e corrotta dall’odore che vi era rimasto delle vivande.

L’Assunta, buona donna e affezionata alla padrona, si fermò un momento, sorridendo con malizietta affettuosa, poi, volendo farsi perdonare il tradimento, le disse forte, indicando l’orologio a pendolo della caminiera: – Si ricordi signora; fra dieci minuti, al più tardi bisogna vestirsi per il teatro… – Non c’era dunque tempo da perdere, e infatti, appena uscita la cameriera, Giacomo prese Andreina e la strinse fra le braccia mentre la diva, tremando tentava di allontanarlo, di difendersi e a bassa voce, per non essere udita dall’Assunta che preparava la cesta nella camera vicina, scongiurava Giacomo di non tormentarla, di andarsene, di aver compassione di lei.

Poveretta!… Quell’uomo l’aveva sorpresa, era capitato là dentro come un ladro, per rubarle la sua felicità, la gioia stordita, rumorosa dei suoi trionfi di donna e di artista, per rubarle l’anima!

Anche Giacomo pregava, supplicava. Pregavano, tutti e due, ma non s’intendevano, non si ascoltavano. Più che coi baci, Giacomo la stordiva colle parole appassionate, insinuanti ch’ella sentiva correrle pei capelli, pel collo, per tutto il corpo come un fiato caldo, voluttuoso, che la inebriava, che la vinceva.

– No!… No!… Ti prego!… Ti prego!… Non voglio!… Ero così contenta! Ero così felice!… – Ma già Andreina, a poco a poco, si sentiva venir meno, si sentiva portar via come in un sogno; già lottava solo con un – no – debolissimo, convulso, che le usciva appena dalle labbra tremanti, e non più dal cuore; un – no – pieno di lacrime, di amore, d’abbandono e che sarebbe rimasto preso, soffocato da un bacio… quando improvvisamente un suono lungo, squillante echeggiò nel silenzio della stanzetta. Lontani lontani com’erano dal mondo tutti e due, trasalirono quasi: era l’orologio della caminiera che suonava le sette. Bastò un secondo a Giacomo per rimettersi, ma era bastato un istante anche ad Andreina per ricuperare la coscienza di sè e del pericolo che correva, e sciogliendosi vivamente dalle braccia di Giacomo, corse a salvarsi sull’uscio dell’altra stanza, gridandogli con voce rotta, soffocata: – No!… No!… Ve ne supplico!… Andate via! Andate via!… Stasera canto! – E chiamò l’Assunta.

Stasera canto!… Cercando una scusa, un’arma per difendersi, per farsi rispettare, non ne aveva trovata una migliore. Ma non era più, adesso, la Desirée Soleil che lottava contro il principe dei venti villaggi, no; non era che la buona Andreina, la quale sentiva di non poter invocare in suo aiuto nè l’onore, nè il pudore, perchè quell’uomo ch’ella amava, avrebbe potuto deriderla; e però disse quelle semplici parole – stasera canto – tremando e piangendo, le mani giunte e con un’espressione di sgomento così viva che faceva pietà e che mutava la sua preghiera in un grido disperato dell’anima.

Ma, pur troppo, la sera dopo ella non cantava, aveva riposo, e Giacomo di Vharè rimase solo con lei oltre la mezzanotte. Quando Giacomo se ne andò via, Andreina aveva voluto accompagnarlo fin sull’uscio dell’ultima stanza d’uscita, abbracciandolo un’altra volta con una tenerezza infinita. – Ascolta, Giacomo, – gli disse, – io ti ho data tutta l’anima mia; ormai non mi appartengo più. Non abbandonarmi subito; io non ti ho ingannato e non ho mentito. Darei la mia vita, il mio nome, il mio trionfo d’artista, tutto tutto, per essere ancora una donna onesta e poterti dire: – non sono stata che tua, e non sarò che tua. – Stordita, non ho mai avuto rimorso del mio passato; ora ne ho dolore per la prima volta e per te, perchè ti voglio bene Sento che ho finito ormai di essere calma e felice; ma non rimpiango la mia felicità, ti amo troppo, e non la ricordo nemmeno. Tuttavia, per poco che io possa contare nella tua vita, ci voglio essere come una memoria cara, voglio sfiorarla come un sorriso. Non voglio costarti nessun sacrificio, nessuna amarezza. Giura, amor mio, giurami che il primo giorno nel quale non sentirai per me più… più nessun desiderio, tu me lo dirai subito, francamente e lealmente. In compenso di tutta me stessa, non ti domando altro che questa parola sincera.

 

– Ti amerò sempre, – le rispose il Vharè con galanteria.

Andreina comprese la leggerezza di una simile risposta e sentì come un presentimento delle ore tristi che le si preparavano.

– Sempre?… Le donne come me non si amano sempre. Ma ti prometto, ti giuro, che mi avrai sempre tua, finchè ti piacerà di tenermi. – E si lasciarono così, stringendosi la mano e baciandosi, lui con un sorriso, lei con un sospiro.

Tre anni dopo, infatti era il Vharè che abbandonava Andreina, senza ch’egli avesse nulla da poterle() rimproverare.

La Desirée Soleil, la diva, si mostrò indifferente a quell’abbandono così immeritato, ma Andreina Calziraghi ne soffrì assai, perchè essa amava sempre il Vharè, come già aveva sentito di amarlo quel primo giorno in cui l’orologio a pendolo l’aveva salvata. Essa ne soffrì assai, tanto che ammalò e per due stagioni stette senza cantare. Quando volle ritornar sul teatro dovette accontentarsi di quella misera scrittura di Borghignano, perchè gl’impresari dei grandi spettacoli temevano non fosse più quella di prima e non volevano arrischiarla. Andreina avrebbe riposato ancora volentieri, ma come si fa?… I suoi pochi risparmi erano consumati; le sue perle, i suoi brillanti erano impegnati e bisognava cantare per vivere. Certo, se avesse voluto, non le sarebbe mancata la generosità di un qualche amico e protettore; ma come vi sono donne nate nell’azzurro e che cadono giù, attirate dal fango, così ve ne sono altre, e dove forse meno si crederebbe, che si sentono attratte a sollevarsi in alto, sempre più in alto, nell’azzurro, e la buona Andreina era appunto di queste.

A Borghignano, però, tornata la Desirée Soleil, fu compensata delle sue privazioni da un grande e straordinario successo.

Andreina non sapeva che a Borghignano si sarebbe incontrata col Vharè, come non conosceva nemmeno la vera cagione del suo abbandono. A Borghignano, per altro, ci fu chi, credendo fare il proprio interesse, volle illuminarla di tutto. Non sapeva, l’ingenuo, che amore… perdona amore.

Giacomo, vano e ambizioso della conquista della Soleil, non aveva mai apprezzato Andreina secondo il merito, e molto scettico, anche in fatto di donne, mentre si lasciava abbindolare da Lalla, credeva all’apparente indifferenza di Andreina; ma quando seppe, e lo seppe appunto poco dopo che la contessa Della Valle lo aveva piantato in quel bel modo, quando seppe che la diva aveva finito coll’ammalarsi per essere stata abbandonata, questa notizia fu per il Vharè una cara scoperta, e fu grato alla Soleil di amarlo a tal segno, sentendo nel suo cuore come un conforto, come un contraccolpo dal disinganno sofferto. Però, adesso che stava per incontrarla, per rivederla, sentiva che si sarebbero riconciliati e ricongiunti. Se la Desirée, offesa, non avesse voluto più amarlo, era sicuro che la buona Andreina avrebbe domandato grazia per lui.

Nello stesso tempo che il passato risorgeva più bello e più cara nella memoria del Vharè, il fascino di Lalla, com’è naturale, scemava assai. Del resto, anche l’amore della duchessina procedeva a sbalzi: ora pareva insensibile e indifferente, ed ora aveva gli slanci, gli abbandoni e le esigenze più appassionate. Ma, in ogni caso, e più caro nella memoria del Vharè, il fascino di Lalla lo amava più per gli altri che per sè stesso. Al teatro, in quelle sere d’opera, le ripetevano tutti che il bel marchese si era fermato a Borghignano perchè c’era la diva a cantare, e Lalla voleva far sapere e far credere che invece il Vharè vi si era fermato per lei, solo per lei, e la sua vanità, punta nel vivo, arrivava dove non era arrivato il suo amore, e le faceva perdere anche la prudenza.

Il Vharè non poteva andare che assai di rado in casa Della Valle; ma, in compenso la contessa Lalla era già stata due volte nel quartierino del bel marchese, posto in ottimo luogo per simili scappatelle; e tutt’e due le volte si era fatta promettere ch’egli non sarebbe tornato mai e poi mai, per nessun motivo, dalla Desirée; che non si sarebbe mai e poi mai lasciato vedere con lei, e che, incontrandola, non l’avrebbe nemmeno salutata. Giacomo, fino a questo punto, non voleva dare la sua parola; non c’era ragione perchè dovesse fuggire la Soleil e tanto meno usarle sgarberie, ma finiva poi col promettere tutto ciò che Lalla voleva, non trascurando, nel tempo stesso, di cercare l’occasione per incontrarsi con Andreina e fare la pace. Era sicuro, del resto, che la strana volubilità d’umore, e i capricci di Lalla gli avrebbero dato argomento di giustificarsi, nel caso che le sue bugie fossero scoperte.

La diva a Borghignano faceva furore: tutti ne parlavano, tutti la lodavano, erano tutti innamorati di lei. La Direzione del teatro, composta di membri molto maturi, si tingeva capelli e barba due volte al giorno; il Presidente, che secondo le sue abitudini sperava molto, faceva la doccia; i due Lastafarda si esercitavano a parlar francese; Gianni Rebaldi faceva provviste di sigarette nel camerino della diva, e regalava all’Assunta i dolci che rubava ai bambini della Bertù. Il Toscolano le offriva Adamastor se voleva far passeggiate, e aveva grandi misteri col brumista che la conduceva tutte le sere da casa al teatro e viceversa. L’Assunta era fermata per istrada dai molti curiosi che volevano sapere gli anni della sua padrona e se era un’americana davvero e se i capelli che portava in scena erano tutti suoi. Fra il palcone degli ufficiali e la barcaccia dei nobili cominciò una fiera rivalità, ed erano corse sfide, che per altro non avevano avuto seguito, con grandissimo dispiacere degli avventori del Caffè di Borghignano, i quali, appena sentivano parlare di duelli, si accendevano, drizzavano le orecchie e diventavano spadaccini sino all’ultimo sangue… degli altri.

Tutti i giorni la diva riceveva regali: abbondava però il genere fiori e marrons glacés. Ma chi faceva sul serio e le mandava ricchissimi gioielli, era il conte Pier Luigi, il quale si era incapricciato stranamente della Soleil, tanto da non muoversi più da Borghignano e da esserle sempre d’intorno, quantunque Andreina, che in principio accettava per debito di convenienza i suoi omaggi, gli avesse fatto capire che non gli avrebbe dato da baciare nemmeno la punta di un dito, tanto le faceva schifo. Per altro, a Borghignano, credevano tutti che già il vecchio milionario fosse riuscito a soppiantare il bel marchese, bello sì, ma spiantato.

Tuttavia la Desirée Soleil si portò in modo che anche le cattive lingue dovettero presto ricredersi. E come stessero le cose fu chiaro a tutti i curiosi, una sera in cui la Desirée si era messa a fissare ostinatamente dal palcoscenico la contessa Della Valle, mentre questa, a sua volta, guardava la diva, sorridendo con olimpica indifferenza. Il Vharè, al quale non era sfuggito l’incrociarsi di quei due sguardi, trovò immediatamente il pretesto per fare la pace con Andreina: così impediva uno scandalo che avrebbe potuto perdere la contessa Lalla. Scese dunque sul palcoscenico, terminando di persuadersi che vi andava per compiere una buona azione; e consegnato il suo biglietto di visita al portiere, lo pregò di domandare alla signora Soleil se lo poteva ricevere. L’Assunta, che lesse per la prima il biglietto del marchese, corse, rossa dal piacere, ad annunziarlo alla padrona; ed il Vharè fu subito introdotto nel camerino.

Andreina lo salutò stendendogli la mano, senza poter parlare, e alzando il volto impallidito e fissandolo con quell’espressione di mestizia e di affettuosa indulgenza, che traluce dagli occhi della donna soltanto quando essa perdona la colpa d’un figlio o quella di un amante. Anche al Vharè batteva il cuore e lo si vedeva impacciato.

Lì, in mezzo a loro, sebbene straniero a tutti quegli affetti, c’era pure un altro cuore che batteva con violenza alla vista del marchese di Vharè: il cuore di Alessandro Frascolini. Il direttore dell’Omnibus si era recato poco prima sul palcoscenico per offrire alla diva l’omaggio del pubblicista e l’ammirazione del compagno d’arte.

Andreina presentò l’uno all’altro: entrambi si salutarono appena, con un cenno del capo, senza stringersi la mano. Il Vharè non badò nemmeno al cavalier Frascolini, ma Sandro squadrava Giacomo da capo a’ piedi: c’era assai più che la gelosia, c’era ferocia in quel suo occhio torvo iniettato di sangue, e ci fu un momento nel quale sfavillò con una fiamma sinistra. Il Frascolini avea veduto in dito al Vharè l’anello ch’egli aveva regalato alla duchessina: la turchina colle rose d’Olanda. A quella vista, mille pensieri, mille ricordi gli si affollarono tumultuosi nella mente, e dinanzi all’odio che gli prorompeva dall’anima, ogni altro odio rimaneva muto, e lo stesso Vharè, il suo rivale, scompariva nel cocente desiderio di vendicarsi della duchessina e di farla finita, magari con un delitto. Egli salutò appena la Desirée, troppo commossa per poter notare il suo turbamento, non salutò affatto il marchese che, ritto in piedi, appoggiato alla parete e, mezzo nascosto da una sottana rossa e da un bournous grigio che vi erano appesi, non lo guardò neppure, ed uscì all’aperto dove si sfogò bestemmiando contro Lalla chiamandola una Faustina, una Brunechilde, una Mirofleda, la peggiore, insomma delle eroine baldracche della razza maledetta dai figli di Gioele… il brenn della tribù di Karnak.

Rimasta sola con Giacomo, Andreina chiamò l’Assunta raccomandandole di star bene attenta per avvisarla quando «toccava a lei»; e lasciato che si chiudesse, come per caso, l’uscio del camerino dietro alla donna che usciva, gettò le braccia al collo del Vharè, stringendolo fortemente e lungamente.

Intanto la comparsa inaspettata del marchese di Vharè avea prodotto sul palcoscenico un bolli bolli straordinario. I signori della Direzione, ch’erano innamorati in blocco della Soleil, per godersela da soli, almeno durante la recita, avevano proibito severamente l’accesso sulla scena a chi non apparteneva allo spettacolo, facendo solo una forzata eccezione per «i maledetti» giornalisti.

Quei tre o quattro vecchiotti, fra un atto e l’altro, volevano mangiarsi tutti la diva, almeno cogli occhi, a pezzetti e a bocconcini: beati di poterle baciar la mano, di stringerle il braccio, di toccarle i fianchi, beati, gongolanti, quando potevano sorprenderla un po’ in disordine d’abbigliamento e non si movevano mai dal palcoscenico, tenendola d’occhio con gelosia sospettosa. In quella sera dunque, appena uno di costoro ebbe visto un intruso (e nientemeno che il Vharè!) nel camerino della Soleil, corse a dare l’allarme al Presidente. Il Presidente, montò su tutte le furie, come un Turco alla vista del proprio harem violato da un infedele; chiamò d’urgenza gli altri membri della Direzione, e tutti insieme, in un cantuccio del palcoscenico, si accusarono, l’un l’altro, di poca energia, di poca fermezza nel far eseguire gli ordini impartiti; ma poi tutte le ire si rovesciarono sul capo innocente del portiere, al quale intimarono lo sfratto, se il caso si fosse ripetuto. La sera dopo, il Vharè si vide chiudere sul naso la porta del palcoscenico; ma non si turbò: fece subito chiamare l’Assunta perchè avvertisse la padrona, e Andreina, in tale circostanza, si mostrò la figlia… di sua madre. Non si degnò nemmeno di venire a patti coi signori della Direzione, i quali si erano chiusi nel loro palchetto riservato, aspettando la fine della burrasca. Invece, mandò a chiamare l’impresario e gliene disse tante da stordirlo, strapazzandolo come un cane, protestando che nel suo camerino volea essere padrona di ricevere chi le accomodava; gridando che quelle scenate succedevano solamente in provincia e che, alla fin dei fini, il Vharè era il suo amante ed era padrone, padronissimo di andare da lei quando e quanto voleva. Il Presidente, o la Soleil non cantava, dovette togliere il veto; ma da quella sera memorabile i signori della Direzione mutarono affatto di contegno verso Andreina. Non le fecero più la corte, non andarono più in estasi, non si precipitarono più nel suo camerino per adorarla. Si sparpagliavano invece nel teatro, dove facevano notare agli abbonati che la diva era giù di voce e non mettevano più come prima tutte le mani, con mirabile accordo, sul fuoco, assicurando che il conte Pier Luigi da Castiglione non le aveva nemmeno toccato un dito. Invece si lasciavano fuggire certi mah!… certi uhm!… certi sorrisi maliziosi, che esprimevano tutto il contrario. Poi, ultima vendetta, sospesero, per economia, lo splendido e ricchissimo nastro col sole trapunto all’un dei capi, ch’era stato ordinato apposta per la sua serata, e non le fecero presentare dal servo di scena, altro che un mediocre mazzo di fiori, con un nastruccio scozzese, vecchio e stinto.

 

Soltanto il Presidente, in fondo al cuore, rimaneva fedele agli incanti della diva: in fondo al cuore, chè non si arrischiava di contrariare, di mettersi in opposizione, co’ suoi colleghi. Se però gli altri non lo vedevano, egli, per far piacere ad Andreina, era amabilissimo anche col Vharè; e quando il camerino della Soleil rimaneva aperto, la adocchiava dalle quinte in faccia, coll’aria di uno studentello innamorato, tenendosi, per paura di compromettersi, mezzo nascosto dietro il pompiere. Tutte le volte che Andreina attraversava le quinte, se lo trovava sempre fra i piedi, rosso e timido. Con la diva, si arrischiava appena di sospirare, ma tutti i suoi dispiaceri li confidava all’Assunta, che il buon vecchietto si stringeva al cuore, paternamente, e regalava di zuccherini, contentandosi, così, di poter abbracciare almeno la cameriera… dell’oggetto amato.

Questi pettegolezzi, che correvano per Borghignano, arrivarono ben presto, come si può credere, all’orecchio della contessa Della Valle, la quale avea dovuto rinunciare improvvisamente al teatro per la morte di un prozio materno, che dimorava in Sicilia. Dapprima essa ne fu punta nell’amor proprio, e al Vharè, che cercava scusarsi, fece qualche scenettina assai vivace; ma poi si rassegnò, si abituò, si consolò quasi delle infedeltà del bel marchese.

E questa sua freddezza non era punto studiata. Non era una delle solite simulazioni; la sentiva proprio spontanea nell’anima e cresceva ogni giorno. Quando venne a sapere che, terminata la stagione d’opera, la Soleil si sarebbe ancor fermata fino ai primi di maggio a Borghignano, d’onde poi sarebbe partita per Genova e quindi per l’America, Lalla non se ne curò, non ne parlò nemmeno col Vharè. Certo gliene avrebbe parlato per avere una scusa di romperla con lui, se un pacchetto di lettere, con un nastrino azzurro, e ch’ella sapeva ben custodito in una scrivania del marchese, non l’avesse tenuta molto inquieta e in dubbio sul da farsi. Sì, la duchessina Lalla avrebbe voluto veder la fine di quell’intrighetto che da un momento all’altro era diventato seccante; del quale adesso sentiva vivo il rimorso, tanto che avrebbe fatto qualunque sacrificio pur di tornare indietro, ai bei giorni nei quali si sentiva la coscienza netta, com’era prima del loro incontro di Torino.

Ma Lalla confondeva col rimorso il disinganno e la noia. Adesso non era più ambiziosa del Vharè, anzi evitava tutte le occasioni di farsi vedere insieme, perchè ne sentiva quasi vergogna. L’opinione pubblica di Borghignano lo aveva bello e spacciato. Lo sfuggivano tutti, lo guardavano d’alto in basso, e al club cercavano un pretesto per mandarlo via. La generalessa e la Bertù gli avevano tolto il saluto; il Toscolano riferiva che il Vharè andava tutti i giorni a desinare a scrocco dalla Soleil; i due Lastafarda, quantunque gli facessero il bello sul muso, perchè avevano paura di buscarsi una sciabolata, ne dicevano di cotte e di crude sul suo conto. Fra le altre, il Lastafarda juniore contava questa: suo fratello aveva dato mille lire al Vharè sulla parola, e non gli era stato più possibile di riaverle. Ma chi addirittura montava in bestia, solo a sentirne parlare, era Gianni Rebaldi, il quale era lì lì per ottenere un po’ di danaro in prestito da un usuraio, una perla del genere; ma l’usuraio, vantando un credito sul Vharè, aspettava che questi lo pagasse per avere la sommetta occorrente allo sconto della nuova cambiale. Il Rebaldi, gliene diceva contro di tutti i colori, rimproverando al Vharè di vivere alle spalle delle amanti, di far debiti e di non pagarli. Quando poi venne a sapere che l’usuraio, non potendo incassare i denari, si era accontentato, d’accordo con altri creditori, di porre il sequestro sui mobili del marchese, rinunciando per conseguenza a concludere l’affare con lui, egli si credette derubato dal Vharè, e avrebbe voluto, nientemeno, che lo cacciassero in prigione.

Lalla, quando udiva parlare di queste cose, si sentiva venire i brividi. – Ah, se non ci fossero state quelle lettere!… – Ma, certe volte, anche il profumato pacchetto, legato col nastrino azzurro, essa lo vedeva messo sotto sequestro, e ciò la spingeva a pazientare, a dissimulare finchè le fosse capitata l’occasione di fare un’ultima visita nelle camerette di Giacomo e allora… allora trovare il modo e il momento di portarsi via le sue lettere.

Dio, Dio, che felicità!…

Una volta si era arrischiata di ridomandarle; ma Giacomo le aveva risposto, sospirando, ch’essa non le avrebbe riavute altro che dopo la sua morte. Giacomo in vero, non ci teneva gran che, e aveva risposto così per abitudine, per dire una delle sue solite galanterie alla Byron e ben lontano dal sospettare quante inquietudini e quanti sgomenti metteva in cuore, con tali parole, alla dolce amica.

Oh, come la duchessina, adesso, avrebbe obbedito volentieri alla sua mamma, che le continuava a ripetere e a predicare, – che non le piaceva punto di vederle quell’uomo sempre vicino!… Che era una cosa sconveniente per ogni verso e che sarebbe stata la fonte di nuovi e gravi dispiaceri. – A Borghignano i vigili della morale, distratti dai debiti del Vharè, dal gran successo della Soleil e dell’amore accanito del conte Pier Luigi per la bella diva, ormai non si occupavano più che tanto della contessa Della Valle, la quale per di più, essendo in lutto, si lasciava vedere pochissimo. Quel suo capriccetto sentimentale per il bel marchese, era una cosa alla quale si credeva e non si credeva, ma che ormai aveva fatto il suo tempo: parce sepulto; non se ne parlava più; Maria sola, non mutava; il suo affetto era sempre vigilante, il suo pensiero fisso ad un punto e ogni volta che incontrava il Vharè dalla sua figliuola, mostrava a Giacomo la sua freddezza e non nascondeva a Lalla il suo malcontento. Sulle prime Lalla s’inquietava un po’ e un po’ si scusava; ma un giorno che sua madre tornò a rimproverarle quell’amicizia, ella si mise a piangere e, gettandosi nelle braccia di Maria, la scongiurò d’indicarle il modo di potersene liberare, chè davvero la frequenza del Vharè le diveniva uggiosa e mortificante, dopo le chiacchiere che correvano in giro.

– Gliene parlerò io, sei contenta? – domandò Maria alla figliuola, dopo aver discusso un po’ sul da farsi.