Za darmo

Mater dolorosa

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Il Frascolini, dopo di aver conservato un silenzio severo, e dignitoso, verso la fine del discorso approvò le conclusioni del duca d’Eleda con un lento chinar del capo; ma fece aspettare un qualche minuto il proprio responso. Pareva incerto, dubbioso, stringeva le labbra, chiudeva gli occhi, come per raccogliere meglio i pensieri; ma poi, finalmente, stendendo la mano a Prospero Anatolio che lo guardava sospeso: – Ebbene, sarò franco, – gli disse; – le vostre spiegazioni mi hanno quasi… non dirò… Mi hanno scosso in molti punti.

– Ne ero certo, – esclamò il duca – ma è troppo giusto; voi, caro direttore, non dovete credere soltanto a me, non dovete prestare cieca fede alle mie parole. – no e poi no; – ci dovete veder dentro coi vostri occhi. – A questo punto il Frascolini, che degli occhi ne aveva uno solo, diventò rosso visibilmente, e l’altro si accorse d’averla detta grossa; ma tuttavia al duca d’Eleda non mancava lo spirito, e tirò innanzi diritto senza interrompersi e senza nemmeno tentare di correggersi. Pregò il caro direttore a voler ritornare la sera di quello stesso giorno, alle nove. Avrebbe trovato gli altri membri della Giunta e così, dedicando al loro nuovo progetto un maturo e coscienzioso esame, egli avrebbe veduto se non fosse stato il caso, invece di combatterlo, di appoggiarlo. – Borghignano, – concluse poi, accompagnando l’egregio amico verso l’uscio del salotto, – Borghignano attraversa un periodo molto grave. Se io fossi un egoista, dovrei desiderare una maggioranza sfavorevole. Sicuro! Ho bisogno di riposo; mia moglie sta sempre poco bene e poi… e poi sono trent’anni, capite, caro Frascolini, sono trent’anni che combatto e che sto sulla breccia!… Se ne discorreva appunto anche l’altro giorno a Torino, col duca d’Aosta. La lotta, la battaglia non mi ha mai fatto paura. Anche trent’anni fa, vedete, io ero ritenuto un clericale; e allora, anche più d’adesso, – e sapete perchè? – Perchè sono sempre stato l’uomo dell’ordine, della prudenza, perchè ho predicato sempre, nella Camera e fuori – piano piano, chi va piano va lontano! E, infatti, ditemelo una buona volta, francamente; se non c’era una maggioranza che votasse le guarentigie, credete voi che i Governi stranieri avrebbero accettato i fatti compiuti?… – No!… – Oh! bravo!… Che ci sia almeno un uomo del vostro valore che mi rende giustizia. Chi ama il proprio paese, deve sacrificarsi, sfidando l’impopolarità, ed io mi son sempre sacrificato;… Dunque, come vi dicevo… vi dicevo che… ah, ecco, per me, se questa volta il Consiglio mi dà, come si dice, il voto nella schiena, io lo ringrazio tanto e lo saluto. Mi ritiro, domando la giubilazione!… E non ci avrei altro che da guadagnare. Tuttavia (lasciamo da parte, adesso, la mia persona), ritenendo che in questo momento la caduta dell’Amministrazione potrebbe essere causa di gravi danni al nostro credito, così, per non avere rimorsi, cerco, tento di tenere in piedi la baracca. Se poi non riesco, sia detto in amicizia, fra di noi, – e il duca d’Eleda si guardò attorno, come per assicurarsi che nessun indiscreto fosse lì,– ad ascoltare, – sia detto in amicizia, se non riesco, tanto meglio!

Dal salotto, sempre discorrendo, Prospero Anatolio accompagnò l’onorevole pubblicista nell’anticamera, uscì con lui fino sullo scalone, e lì con un – dunque, a questa sera – ultimo e definitivo, gli tornò a stringere tutte e due le mani con espansione vivissima.

Sandro uscì dal palazzo d’Eleda felice, raggiante. Era arrivato finalmente!… Venivano a patti con lui, tutti quei cani di signori!… E quando si trovò solo in ufficio, non si potè più trattenere e fece un salto dalla gioia, canterellando, colla sua bella voce da tenore, un’arietta del repertorio favorito.

E la contessa Lalla?… Oh la cara contessa sarebbe stata sua! Ne era tanto sicuro, che non la odiava più, tornava a volerle bene.

La sera andò alla riunione della Giunta. Fra quei parrucconi si tenne sulla sua, usando il noi con molta affettazione, parlando lungamente di Law e del libero scambio; ma, nello stesso tempo, lasciandosi menare bellamente per il naso.

Si combinò che l’Omnibus, riservandosi piena libertà d’azione per l’avvenire, in quel dibattito finanziario avrebbe appoggiata la Giunta. Il Frascolini ammise di non aver prima studiato a fondo il nuovo progetto, fidandosi di alcune notizie inesatte che gli erano state esposte; però, adesso, meglio informato, sentiva di doverlo difendere. Dichiarò di appartenere al grande partito democratico, ma di non essere al servizio di nessuno, e che non voleva imposizioni altro che dalla propria coscienza.

Il giorno dopo, fra la maraviglia e i più disparati commenti, uscì un articolo nell’Omnibus – Serio esame, ovverosia le nuove riforme – col quale il Frascolini trattava la questione dal punto di vista puramente economico. Era un passo indietro, fatto apposta per prendere lo slancio e saltare il fosso. Al primo articolo, infatti, tenne subito dietro il secondo: – La politica in Municipio – sostenendo l’Omnibus che il Consiglio comunale non doveva fare politica, ma soltanto una buona amministrazione; e poco dopo buttò via la maschera, schierandosi con tre colonne di Franche parole, ovvero gli interessi cittadini – fra i più caldi sostenitori del progetto presentato dalla Giunta. Allora fu la volta pei costituzionali di andare in giro pettoruti, ed erano invece i progressisti che scantonavano mogi mogi e costernati, dicendo corna dell’amico integerrimo di Cairoli e di Zanardelli.

Frattanto il giorno della battaglia si avvicinava e non c’era da farsi illusioni. O il progetto presentato dalla Giunta era approvato dal Consiglio, e allora l’Amministrazione d’Eleda restava al potere, oppure veniva respinto, e bisognava dimettersi.

Fra i soliti avventori del Caffè di Borghignano c’era un orgasmo febbrile. La mattina, all’ora di colazione o la sera, dopo il teatro, non si faceva altro che scrivere col lapis, sui tavolini di marmo, il nome di tutti i consiglieri comunali, mettendo in fila – separatamente – quelli che avrebbero votato per il sì, e quelli che avrebbero votato per il no, poi facevano le somme; ma risultava sempre sul tavolino dei progressisti la maggioranza pel no, e su quello dei costituzionali pel sì.

Alla vigilia della gran seduta, la Giunta e i suoi aderenti si abboccarono un’ultima volta col Frascolini, in casa d’Eleda. Fu convenuto, dopo una discussione molto vivace, di pubblicare l’indomani stesso sull’Omnibus un ultimo articolo cannonata. L’Omnibus sarebbe uscita apposta un’ora prima del solito, e l’articolo col titolo – All’ultima ora – era stato scritto da un egregio avvocato, segretario della Costituzione e fabbricere del Duomo. Fu discusso, corretto in qualche punto, e poi raccomandato caldamente al direttore. Il Frascolini lesse ancora l’articolo per suo conto, lentamente, sotto voce, poi stringendo le labbra, concluse: – Non c’è malaccio, ma è troppo lungo. Chi lo ha scritto, si capisce, non è del mestiere. Tuttavia, per accontentarvi, non adopreremo le forbici: lo faremo soltanto precedere da due righe di cappello.

– No, non occorre! – esclamarono tutti gli altri spaventati, tranne il d’Eleda, che quella sera si mostrava abbattuto assai.

– Lasciate fare, lasciate fare: – rispose il Frascolini coll’aria seccata. Egli mostrava un gran sussiego, proprio come se nel suo Omnibus portasse a spasso l’Europa. Ma il cappello si ridusse poi ad una sola aggiunta nel titolo, che fu stampato così: – All’ultima ora, ovvero Voto e Coscienza.

E venne il domani, finalmente, quel domani memorabile, aspettato con tanta apprensione! Il Consiglio era quasi al completo, le tribune affollate: la lotta fu accanita d’ambo le parti. Il piccolo avvocatino dei progressisti, il Robespierre in sedicesimo, fu eloquente, impetuoso, terribile. L’altro, l’avvocato dei costituzionali, pacato, forbito e prudente, sgattaiolava a destra e a sinistra, di modo che il fulvo campione della democrazia terminava col tirar colpi al vento e perciò, qualche volta, perdeva le staffe; ma caduto una volta, si rialzava più inferocito. L’uno combatteva le riforme e la cessione del Dazio consumo, nel nome della giustizia e della fame del popolo, e citava l’America; l’altro le difendeva per la salute della finanza, per il benessere morale e materiale del paese e della famiglia, e citava l’Inghilterra. Esaurita la discussione, quando fu il momento di passare ai voti, Prospero Anatolio, pallido, la fronte molle di sudore, suonò il campanello con mano tremante.

Il momento era solenne e definitivo per l’una parte e per l’altra. Si sa bene, moderati e progressisti avevano tutti sotto gli stivali il Dazio consumo e la riforma delle imposte! Adesso, la questione vitale, palpitante, come diceva l’Omnibus, era una sola: la Giunta e i moderati volevano restare al potere; i progressisti, invece, volevano rovesciarli, per mettersi al loro posto.

Erano tutti in piedi! giù i consiglieri negli stalli, e su, in alto, i curiosi delle tribune. Prospero Anatolio soltanto rimaneva seduto: era commosso, gli tremavano le gambe. Il silenzio era imponente e si sarebbe udita una mosca a volare e due farfalle a fare all’amore… Finalmente si conobbe l’esito della votazione; il progetto della Giunta era stato accettato con due soli voti di maggioranza; e il risultato fu accolto con grida, con applausi, con l’entusiasmo d’ambo le parti.

Erano tutti contenti: i costituzionali si gloriavano di aver vinto, e infatti avevano ottenuta la maggioranza; i progressisti sostenevan che la vittoria era stata dalla loro parte e che loro avevano applicato alla Giunta uno schiaffo morale, perchè il progetto era passato dal buco della chiave, per due miserabili voti racimolati all’ultima ora.

L’indomani, quando Prospero Anatolio arrivato fresco a Santo Fiore, raccontava in famiglia le vicende della fiera battaglia, si doleva, sospirando, di quella vittoria che lo obbligava a restare sindaco di Borghignano. Egli che avrebbe buttato via tanto volentieri quella camicia di Nesso!… Era stanco, seccato, di sacrificarsi tutto e sempre al servizio del pubblico, il quale ricambia con amarezze e ingratitudine. In quanto a’ suoi colleghi, confidava a Giorgio, in segreto, che l’avevano fatta molto grossa venendo quasi a patti col direttore dell’Omnibus!… Quello era stato un passo falso che aveva creato malcontenti nel seno stesso del partito e che, a occhio e croce, aveva spostato tre o quattro voti di maggioranza.

 

Nulladimeno, a Natale, capitò al Frascolini il diploma che lo nominava Cavaliere della Corona d’Italia, e quel diploma gli fu annunziato da una lettera molto gentile e obbligante del duca d’Eleda.

– Cavaliere?… Lo era davvero, lui. Se l’era guadagnato, quel titolo, col proprio ingegno, col proprio lavoro, colla propria onestà, e valeva assai più di tutto il marchesato posticcio del signor Giacomo Vharè.

XXVIII

Povero Vharè!… I suoi affari precipitavano a rotta di collo! Ormai, da vario tempo, non viveva più altro che del credito; ma il credito, per chi lo gode, è come una rete: strappata una maglia, si rompe tutto l’ordito.

A Torino, quando successe l’incontro suo colla contessa Della Valle, non si era recato per le feste della Mostra, ma per tentare una grossa operazione di credito che gli era stata scovata e indicata da un agente di cambio: operazione che, riuscendo, gli doveva fornire il denaro necessario per poter far fronte a due o tre scadenze imminenti e per pater passare quel resto dell’inverno a Nizza o a Monaco. Ma il sovventore, richiesto dell’imprestito, mentre dapprima si era mostrato molto condiscendente, riservandosi soltanto un par di giorni per la risposta definitiva, quando Giacomo si presentò la seconda volta, non si lasciò più vedere e gli fe’ rispondere che si trovava spiacente di non poterlo servire, stante il mancato incasso di una forte somma su cui aveva fatto assegnamento. Il Vharè non era un novellino, e capì subito che il capitalista, prima di concludere, aveva voluto assumere informazioni, e che queste erano state cattive.

In un altro momento, anche quel brutto incaglio non gli avrebbe dato un gran colpo, ma allora lo avvilì profondamente. Era il quarto rifiuto in quindici giorni e intanto crescevano le difficoltà, cresceva il bisogno, e la fine dell’anno si avvicinava, sdrucciolando via le settimane, con la velocità tutta particolare, colla quale il tempo passa, corre, vola per i debitori. Si diede attorno di qua, di là, ridusse l’ammontare della somma, abbreviò il termine della scadenza, ma non ci fu verso: a quanti domandava danari, tutti rispondevano picche.

Fatta la pace e partita Lalla per Santo Fiore, dopo la promessa scambievole di trovarsi a Roma ai primi di dicembre, Giacomo, riscaldato anche da questa impensata avventura, tornò daccapo al lavoro, con un’alacrità ed un’accortezza che sarebbero state degne di miglior successo. Da Torino passò a Genova, da Genova a Milano, da Milano a Padova, ma sempre collo stesso esito infelice; ragion per cui dovette in breve ritirarsi a Borghignano, avendo finiti i quattrini anche per quelle corse disperate. A Borghignano aveva casa sua, e per qualche tempo il piccolo credito, tanto per vivacchiare, non gli sarebbe mancato. – E all’avvenire? Oh, all’avvenire il marchese di Vharè non ci voleva pensare, perchè in tal caso avrebbe perduto anche l’appetito; l’unica cosa buona che gli rimanesse.

Tuttavia, egli si conservava filosofo, e non si mostrava nè sgomento, nè triste, tanto più che dovendo tirarla innanzi col credito, avrebbe colla melanconia accresciuta la sfiducia. Il Vharè, del resto, conosceva gli uomini e le donne; e mentre si sarebbe guardato bene dal lasciar scorgere a’ suoi amici le perturbazioni del proprio bilancio, a Lalla, invece, gliene scrisse tosto a Santo Fiore, scherzandovi sopra e confidandole che dubitava, per quell’inverno, di poterla raggiungere a Roma, temendo di doversi fermare a Borghignano ad ammirare il trotto di Adamastor e le pelliccie nuove dei Tangoloni; a far la corte alla Bertù, a confidarlo alla Calandrà ed a tentare con Gianni Rebaldi la sorte del tresette. Ma chiudeva la lettera dicendole che la sua vita d’adesso, egli, ad ogni costo, non l’avrebbe cambiata con nessun altro perchè sentiva ogni contentezza, ogni gaudio, ogni felicità, pensando a Lei, colla certezza cara che gli volesse un po’ di bene.

E il Vharè sapeva pure che confidando queste sue strettezze alla duchessina, in una forma brillante, non le avrebbero fatta cattiva impressione; anzi, era alcunchè di nuovo, di originale, di simpatico; mentre invece, se Lalla ne avesse sentito parlare da altri, ed egli avesse voluto farne un mistero, allora, forse, correva il rischio di scapitarci assai.

I debiti sono come la canizie: portata con disinvoltura può ancora piacere, ma volendo nasconderla coi cerotti e le tinture diventa ridicola. Certamente egli non contava tutto alla duchessina, ma lasciava scorgere quel tanto del suo deficit che presentava qualcosa d’artistico e che non offendeva il gentiluomo. Oh, il Vharè si sarebbe guardato bene, per esempio, dal confidarle che gli era minacciato un protesto e che pranzava a credito. Dinanzi all’usciere e all’appetito, i debiti, anche per una duchessina sentimentale, diventano borghesi e non hanno più nessuna attrattiva.

Appena successo a Torino il riavvicinamento fra Giacomo e Lalla, era subito cominciato fra loro un attivissimo scambio di lettere, ed era stata la prima Lalla a scrivere, ad onta delle sue ripugnanze, e della sua prudenza. Svegliandosi alla mattina, placidamente, accanto a Giorgio, dopo aver assorbito la sera innanzi col Vharè il delizioso thè della riconciliazione, essa provò il prepotente bisogno di un altra voluttà: quella di scrivere. – Perchè?…

Giorgio doveva alzarsi e uscire presto per affari e le aveva dato un bacio solo e discretissimo, per via dell’emicrania di cui Lalla si era già lamentata la sera innanzi.

– Ancora bobo?… – le aveva domandato, sorridendole, come ad una bambina, appena la vide muoversi e aprire gli occhi. – Ancora bobo?…

– Sì… molto, molto. – Lalla si era scostata sospirando, e Giorgio, dopo aver sospirato alla sua volta, si era alzato adagino per lasciarla quieta e se n’era andato.

Lalla rimase rannicchiata a godersi il delizioso calduccio del letto, e così tranquilla che non si sentiva respirare. Ma non dormiva: pensava, riandava tutti gli avvenimenti della sera innanzi. Essa non era soddisfatta. La realtà era molto al di sotto di quanto l’aveva immaginata, ed era meravigliata e mortificata perchè lo stordimento era cessato troppo presto. Il sangue tornava calmo e freddo, il cuore non batteva più violentemente, i ricordi non si affollavano tumultuosi, ma si schieravano ad uno ad uno, lentamente, chiari, precisi, in quella camera d’albergo, colle pareti vuote, di carta gialla… Pensava, riandava ricordando in ogni particolare quanto era successo, dall’incontro sulle scale, alla porta rimasta aperta. Pensava, ricordava tutto ciò, mentre le voci e i passi dei camerieri e il rumore e i suoni dell’albergo rendevano ancor più volgare quel suo ridestarsi ad una vita che avrebbe dovuto essere una vita nuova e tragica, agitata e sconvolta da terrori e da emozioni potenti… e che non era invece altro che la sua vita solita, solitamente tranquilla. Allora, in quel tepido dormiveglia, soffrì l’uggiosa impressione di chi entra di giorno in un teatro: quel vuoto, quel buio freddo, l’oro sbiadito dello stucco e del cartone, davano a Lalla un’uggia fastidiosa, strana, e cominciava lì, appunto, il suo rimorso, da tutto quel malcontento, da tutto quel disinganno…

Lalla sentì il bisogno di muoversi, di arrischiare, di gettarsi a capofitto nella sua avventura, in cerca di emozioni più forti, che dovevano stordirla, eccitarla, inebriarla e così soffocare il persistente borbottìo della sua coscienza e del suo pudore. Sì, anche il pudore ci soffriva in tutta quella calma, anche il pudore sentiva il bisogno di coprirsi, di nascondersi in mezzo alle fiamme della passione: e però, credendo di poter ingannare sè stessa e sperando di poter riuscire a convincersi che si era abbandonata perchè vi era stata trascinata, vinta dall’amore, dall’amore il più forte, il più ardente, si alzò di colpo col desiderio e la risoluzione di commettere una grande imprudenza e scrisse una lettera al suo amante.

Non era lui il padrone e l’arbitro della sua vita?… E con un caratterino minuto, fermo, regolare, riempì quattro paginette di carta profumata; ma, quando fu alla firma, pensò che non c’era bisogno di firmare… la solita prudenza cominciò ad avere il sopravvento e Lalla volle rileggere la lettera. Allora trovò che diceva troppo, la stracciò, la buttò sul fuoco, aspettò che fosse affatto distrutta e poi, preso un altro foglietto, scrisse due righe sole:

«Mi ami tanto?… Ho bisogno che tu me lo dica sempre, che tu non mi lasci mai sola a riflettere… «Mi ami tanto tanto?… «Sempre: ricordati!

«L.».

Giacomo, prima di pranzo, andò a farle una visita, com’erano rimasti intesi, e la trovò sola. Allora, siccome lei partiva all’indomani, si fece promettere ch’egli le avrebbe scritto a Santo Fiore, dirigendo le lettere, chiuse in una busta suggellata e senza indirizzo e segnate con numero progressivo, in un’altra busta diretta a miss Dill. Le era penoso un tal passo, ma ormai indietro non potea più tornare. In quanto a lei avrebbe scritto a Giacomo direttamente.

A Santo Fiore, combinato lo scambio coll’istitutrice, alla quale Lalla non diede nessuna spiegazione, e passato l’orgasmo pauroso delle prime lettere ricevute, ella se ne fece una piacevole abitudine e le aspettava con impazienza e le leggeva con grande interesse. A Santo Fiore essa non aveva altre distrazioni. Là, sola sola, pensava a Giacomo di frequente e alla vita che a Roma avrebbero fatta insieme. Certo, in quell’inverno, gli adoratori le sarebbero ritornati tutti intorno, e lei voleva vendicarsi del loro abbandono. Ma poi, in mezzo ai più bei disegni, cambiò, a un tratto, d’umore, diventò nervosa, lunatica… poi capitò la lettera del Vharè a mandar tutto in fumo, e così in dicembre partì per Roma, lamentandosi di dover essere in viaggio tutto l’anno.

Ci pativa anche perchè la Bertù, la Calandrà e tutti gli altri pettegoli avrebbero creduto che il Vharè rimanesse a Borghignano per la Soleil. Nè una tale supposizione sarebbe stata fuori di luogo e Lalla stessa, in fondo al cuore, non era affatto senza sospetti. Il Vharè si mostrava nella sua lettera troppo di buon umore; e se non si fermava apposta, certo la presenza della Soleil gli avrebbe reso meno spiacevole quel domicilio forzato. Così, la rabbietta e un po’ di gelosia, suscitarono nella sua testolina bizzarra un altro di quei fuochi di paglia che in lei divampavano ad un tratto e con strani chiarori.

Pensò ad un pretesto per non tornare più a Roma in quell’inverno, quando lei e Giorgio sarebbero ritornati a Borghignano per passar il Natale con la mamma. E un pretesto non solo, ma una ragione eccellente non le mancava. Era una ragione, per altro, che Lalla non avrebbe voluto mettere in campo; che anzi le ripugnava di adoperare in tale occasione; ma poi finì col servirsene, quando si vide costretta a farlo in mancanza di meglio, e quando capì che, ormai, per il timore ed anche un pochino pel rimorso, aveva taciuto anche troppo.

Confessò il suo segreto alla mamma abbracciandola e arrossendo; alla mamma che, dopo averla ascoltata tremando, si strinse la figliuola al cuore e diede ella stessa, povera Maria, la cara novella a Giorgio, con un sorriso che appariva fra le lacrime, come un raggio di sole che attraversa la tempesta.

Giorgio impallidì dalla commozione e abbracciò la sua Lalla, abbracciò Maria senza poter dire una parola: la gioia gli serrava la gola. Prospero Anatolio si mise a piangere dalla consolazione, poi prese il cappello e infilata la porta andò a partecipare all’Arcivescovo il miracoloso avvenimento. Ritornato a casa, regalò mille lire alla Congregazione di Carità, e a Lalla una collana di diamanti, approvando pienamente il suo desiderio di rimanere tranquilla a Borghignano, tanto più che, in tal caso, egli era sicuro che vi si sarebbe fermata anche la Giulia. Nella famiglia d’Eleda, da quel giorno in poi, non si parlò più d’altro, non si fecero progetti, preparativi, auguri che non fossero diretti all’atteso Prosperino. Il solo, che non prendeva parte a tanto giubilo era Pier Luigi. Sicuro!… Pier Luigi confrontava le date e sogghignava; ed alla Calandrà, che pianino discorrendo con lui, aveva fatto un’osservazioncella piuttosto impertinente: – Mah, – rispose il vecchio cinico, alludendo a Giorgio: – Chi si contenta gode; chi si contenta!

Lalla, come aveva voluto, rimase dunque a Borghignano; e mentre Giorgio andava continuamente innanzi e indietro da Roma, ella perdeva il tempo e la pace a commettere imprudenze col Vharè, spinta dalla sua gelosia per la Soleil. Adesso però, la duchessina, per quanto facesse, non poteva ricuperare, tutto intero, il cuore di Giacomo. Egli era tornato daccapo, approfittando della buona occasione: la contessa Lalla era sempre simpatica, egli le voleva sempre bene, ma non le credeva più. Quando Lalla fuggì via da lui, piantandolo in quel brutto modo, essa aveva distrutta la sua ultima illusione, aveva distrutto il suo ultimo amore, destandolo, bruscamente da un sogno romantico; e il Vharè era troppo uomo e troppo esperto per riaddormentarsi di nuovo. Le bambinerie della duchessina, che una volta lo avevano commosso e sedotto, ora lo tenevano in sospetto; e dal candore, dalla grazia, dai timidi abbandoni e dalle ingenue sorprese della sua innamorata egli vedeva sorgere e far capolino quella finissima civetteria che, per una volta tanto, era pur riuscita a canzonarlo, e molto bene.

 

Oltre a ciò, che sarebbe bastato anche da solo, c’era poi un altro sentimento, nuovo e profondo, che lo divideva da Lalla: la disistima.

Per quanto corrotto, per quanto dissoluto, l’amante è sempre, per la donna che gli si abbandona(), il suo giudice più rigido e più spietato, quando la passione si acqueta e la verità comincia a farsi strada. Il marito, l’offeso, non può essere più implacabile. Il Vharè vedeva, adesso, tutta la colpa che Lalla commetteva giocherellando colle sue ariette fanciullesche, da null’altro spinta che da un leggero capriccio, e tutto ciò lo allontanava insensibilmente da lei, riavvicinandolo, invece, a poco a poco, alla Soleil. In fine, l’amore della Soleil era grande e sincero, mentre Lalla era stata spinta soltanto dalla vanità e dalla curiosità; l’una si era donata, l’altra si era fatta rubare. Si sa: quando l’amore se ne va, la logica ritorna.

Bisogna anche aggiungere, ch’egli aveva abbandonata la Soleil dopo aver vissuto insieme per ben tre anni, e l’aveva piantata senza un motivo, anzi peggio, mettendosi assolutamente dalla parte del torto; bisogna aggiungere che s’incontravano, si rivedevano allora per la prima volta dopo quell’abbandono, e che il legame del marchese di Vharè colla diva non era stato uno dei soliti amoretti del palcoscenico.

Quando Giacomo conobbe la Desirée Soleil, questa ormai pareva inaccessibile e inafferrabile. Co’ suoi straordinari e insperati trionfi si era sentita così pienamente felice da non aver bisogno d’altre emozioni: e poi la virtù le era allora consigliata anche dal medico, per conservar la voce.

Tuttavia essa non negava di aver avuto amanti: soltanto, dichiarava di non volerne più.

L’arrivare al suo cuore non era dunque facile impresa. Era una donna d’ingegno e d’esperienza, conosceva il mondo e le seduzioni, danari ne guadagnava tanti quanti ne voleva spendere, ed anche così inflessibile, era festeggiata e aveva adoratori fino alla noia. Anzi, questo suo, era forse il modo migliore per averne moltissimi. Si consolavano a vicenda della comune sconfitta, si deridevano l’un l’altro e continuavano a sperare tutti insieme ed ognuno per proprio conto. D’altra parte, la Soleil era buona, amabile, piena di spirito, tollerava qualche allusione un po’ arrischiatella e aveva il tratto di una gran dama. Il corteggiarla era di moda; il diventare uno de’ suoi intimi voleva dire essere una persona del bel mondo, un uomo d’ingegno o una celebrità del giorno, e però i suoi innamorati, non potendo giungere fino al suo cuore, si accontentavano di essere ricordati ai suoi occhi, ottenendo di farle porre i loro ritratti in un album ch’ella teneva esclusivamente per le fotografie degli amici, e nel quale, variando ad ogni piazza, figuravano, s’intende, tutti i giovanotti più eleganti delle varie città ove cantava.

Non la lasciavano mai; si davano la posta a casa sua, a quell’ora precisa ch’ella prometteva la sera innanzi di essere visibile; e quando usciva dalla sua camera, ancora in vestaglia ed in pianelle, trovava il salotto già pieno di adoratori. Gli amici anticipavano sempre di qualche minuto: i loro orologi correvano per due motivi: per arrivare più presto a vederla, e per tenersi d’occhio l’un l’altro.

Dalla Soleil bevevano cognac squisito, ch’era stato regalato alla diva da un ricco signore di Bordeaux, tanto perdutamente innamorato, da unirle al bariletto che le mandava ogni tre mesi, la formale domanda della sua mano; fumavano sigarette turche, speditele da un pascià, pure innamorato perdutamente, il quale continuava a rinnovare l’offerta di licenziare per lei il proprio harem; facevano il chiasso con una chitarra di un nobile Idalgo che tutte le notti, a Madrid, le cantava sotto le finestre:

In Castiglia e nei tesori

Dell’Alhambra e dei re mori

Non v’è gemma per mia fè

Che rifulga così splendida

Come gli occhi a Desirée.

E infine facevano musica sopra un piano-forte che le era stato regalato dall’imperatore del Brasile, il quale la chiamava sempre – il mio piccolo canarino – e le voleva bene come ad una figliuola. Tutte queste fortune gli amici della diva le sapevano a memoria, ma le stavano a sentire ogni giorno, senza interromperla, sfogandosi negl’intervalli, non potendo farlo colla padrona, ad abbracciare l’Assunta, la compiacente cameriera, con certe strette così furibonde da toglierle il respiro.

Fra la padrona di casa e gli amici suoi, c’era molta armonia. Solamente, di tanto in tanto, passava qualche piccola nube a proposito delle signore della società, che la Soleil biasimava sempre con un accanimento ferocissimo. Ma la sua collera non durava molto, ed erano sempre gli amici i primi che le domandavano scusa, sempre in ginocchio, magari anche d’aver avuto ragione. Allora Desirée dava loro la mano da baciare, ma essi invece le baciavano il braccio più su che potevano: a tanta indiscrezione la diva ridendo, li scappellottava amabilmente, e la pace era fatta.

La Desirée Soleil era una francese, di Milano, la quale, prima di calcare le scene, si chiamava Andreina Calziraghi. Era una donna assai bella: il suo corpo avrebbe potuto servire da modello per i contorni ad uno scultore dell’età d’oro, e per il colorito ad un pittore della scuola veneziana. Grandi e neri gli occhi di fuoco, neri, folti, lunghissimi i capelli, la bocca grande, coi denti candidi, regolari; le labbra rosse e vive. Tutta la sua persona pareva un invito alla voluttà; ma la sua faccia, mobilissima, caratteristica e simpatica, dalla quale trasparivano, a tratti, gli impeti del suo ingegno vivace, faceva pensare. Elegante, prodiga, spensierata, scriveva l’italiano come una tedesca, e parlava il francese come un’americana.

Aveva molte stranezze: nell’inverno si avvoltolava fra le pellicce e nell’estate indossava certi abiti di velo che la riparavano dalle mosche più che dagli occhi. I suoi adoratori dovevano credere, o montava in collera, che vivesse soltanto di dolci, di frutta, di foglie di rosa che succhiava continuamente e di gramolate che sorbiva adagio adagio, con lunghe cannucce di paglia.

Quantunque vantasse più magnanimi lombi, sua madre era stata una portinaia che l’aveva avuta dal suo padroncino di casa, un contino biondo e roseo come una ragazza. Andreina aveva dunque nella sua costituzione la schiettezza del popolo e le raffinatezze dell’aristocrazia; le carni rotonde e sode della mamma e la pelle bianca e fine del babbo; aveva del sanguigno e del nervoso ad un tempo; e se alcune volte il sangue materno l’aveva spinta fra le braccia di un qualche gagliardo e bel ragazzotto, il sangue paterno non tardava ad avere il sopravvento, e allora Andreina subiva i fascini d’un volto pallido e delicato. Quando cessò d’essere Andreina Calziraghi per diventare la Desirée Soleil, e non aveva più amanti d’intorno, ma soltanto sudditi e amici, allora si avvezzò presto all’aristocrazia, e tanto bene, che vi pareva nata. Cominciò a contare d’essere la figlia d’un barone francese, che possedeva miniere in America e schiavi di tutti i colori, e a questa paternità, a forza di ripeterla, terminò col crederci anche lei, anzi, era lei, la sola, che ci credesse un pochino.