Za darmo

Mater dolorosa

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Ogni volta che pensava a questo fatto, e nella solitudine di quella sua vita uniforme e noiosa Lalla ci pensava troppo di sovente, si sentiva rodere per un po’ di rabbietta. A poco a poco, essa cominciò a dir male del mondo e della società; le sue parole erano piene di amarezza; tutti erano – cattive lingue – tutti erano – maligni – e quando la Calandrà e la Bertù ritornarono a Santo Fiore – perchè d’autunno e di primavera esse andavano in giro per le ville, a scroccare pranzi e colazioni – furono ricevute da Lalla tanto freddamente, che non osarono ripetere l’improvvisata.

Un altro signore che si ebbe un’accoglienza non molto cordiale in casa Della Valle, fu Pier Luigi; questi, come aveva promesso a Prospero Anatolio, era venuto dopo le corse di Varese a Santo Fiore, per riprendere la Giulia.

– Allontanare Pier Luigi da Giorgio!… – Lalla trionfava; ma col marito si mostrò dolentissima di essere la cagione innocente di quella rottura, e lo consigliò, lo pregò, lo supplicò a non fare scene, e lasciar correre.

– Quello che gli stava ben detto, glielo aveva saputo dir lei; ma non conveniva inimicarselo; ormai lo conoscevano, e perciò del male non poteva più farne.

Giorgio le promise tutto ciò, ma non andò a prendere lo zio alla stazione, e anche al Villino gli fece un’accoglienza glaciale.

– Ah, ah!… la colombina, ha confessato, la colombina! Sicuro, ha confessato il peccato mio per nascondere il proprio! – borbottava Pier Luigi, che aveva tutto indovinato. – Me l’ha fatta; ma me l’ha fatta bene, ed a tempo. Eh, c’è sangue, c’è!… Un po’ che volesse ingrassare, sarebbe una perfezione, sarebbe! Io mi tenevo sicuro che non avrebbe parlato! Diabolo… Diabolo!… Se ho cercato di saltare il fosso, la spinta, per altro, me l’ha data lei e secondo le buone regole avrebbe dovuta tacere! Ad ogni modo… è carina; e perciò bisogna accordarle le attenuanti. Ha parlato solamente quando ha capito che era utile e necessario. Sono stato un imbecille, sono stato, a voler predicare la morale. Forse, colla pazienza e perseveranza chi sa?… Povero Giorgio! Per lui sarebbe stato molto meglio se avesse sposata la Giulia… Per lui, e per me. Almeno io avrei finito di fare il padre nobile, avrei finito.

Di questa rottura, chi ne sentì più forte il dispiacere, fu Prospero d’Eleda. In famiglia, è naturale, si notò subito la freddezza fra Giorgio e lo zio, e il d’Eleda si adoperò a tutt’uomo per sapere che cosa diamine fosse accaduto!

Era un dovere per lui, in quel caso, di mettersi in mezzo e far da paciere. E si arrabbiava con Maria perchè non lo secondava con bastante calore; ma la duchessa sospettava intorno la verità e, troppo delicata per parlarne con chicchessia, approvava in cuor suo la condotta di Giorgio. Il duca, invece, borbottava e smaniava, dichiarando energicamente che se il signor conte era matto, buon padrone! Lui non voleva seguirlo sul terreno delle sgarbatezze, e fu fissato che Pier Luigi, in dicembre avrebbe ricondotta Giulia a Borghignano per tener compagnia alla duchessa quando i Della Valle sarebbero ritornati a Roma.

La duchessa, infatti, aveva bisogno di compagnia e di svago, perchè andava peggiorando di giorno in giorno. Santo Fiore e le passeggiate le avevano fatto più male che bene, e invece di andare a Roma coi figliuoli, come sarebbe stato il primo disegno, doveva rimanere a Borghignano per curarsi. Prospero Anatolio sarebbe rimasto a Borghignano anche lui e finalmente in marzo o in aprile, avrebbe potuto tornare a Roma per i lavori del Senato. Povero duca!… Egli si sacrificava (e lo diceva a tutti, sospirando) a cagione della salute di sua moglie, e degli studi di un nuovo progetto sulla riforma e sulla cessione in appalto del Dazio consumo, che aveva sollevato, nel Consiglio e fuori, un forte partito avverso all’Amministrazione d’Eleda.

L’ultimo giorno che i Della Valle rimasero in villa, pareva ancora un giorno tepido di ottobre. La campagna anch’essa ha le sue civetterie e molte volte, quando noi siamo sulle mosse per abbandonarla, ella sembra adornarsi, farsi più bella, più gaia, ringiovanire, quasi volendo lasciare nel nostro cuore, col suo ultimo ricordo, un desiderio e un rimpianto.

La Giulia e Pier Luigi, se n’erano andati da vari giorni e a Prospero Anatolio, dopo quella partenza, erano capitati addosso tanti conti da regolare e da rivedere, da non lasciargli nemmeno il tempo, assicurava lui, lamentandosi, di respirare. La brigatella si trovava dunque ridotta a due sole coppie: a Lalla che camminava davanti con miss Dill, e a Giorgio con Maria un po’ più indietro.

Giorgio, durante quella passeggiata che, in certo modo, si poteva dire di commiato, scherzava amabilmente intorno a quell’avversione che Maria, negli anni passati, sembrava nutrire per lui.

Maria, scherzando a sua volta, si schermiva con molta finezza, ma poi, fatta più seria, concluse che quelle accuse non avevan ombra di fondamento: se gli fosse stata nemica e se, invece, non lo avesse molto stimato, non gli avrebbe mai concessa in moglie la sua figliuola.

– Oh, in quanto alla stima, siamo d’accordo! ma fu la vostra confidenza, fu la vostra affezione che mi toglieste ad un tratto. Perchè?… Questo è il problema!

Maria, tornò a ripetere che non era vero, che si ingannava; non si sentiva bene e ciò la metteva spesso di malumore.

– No, no, – insisteva l’altro, – voi non mi dite tutto; no, non posso ingannarmi, vi conosco troppo bene. Forse, adesso, vi siete ricreduta, forse adesso mi avete quasi perdonato, e soltanto per il grande amore che sento per vostra figlia.

– Sì, sì; vi sono molto riconoscente di… del vostro affetto per Lalla; per mia figlia. Giuratemi, giuratemi che l’amerete sempre così!

Giorgio, premendole il braccio, la guardò lungamente, in un modo che valeva assai più di qualunque risposta. – Voi credete, non è vero, che al di là… Voi credete che ci sia un al di là?

– Oh, se ci credo! – rispose Maria levando al cielo gli occhi umidi e lucenti, con un’espressione che rivelava tutto il suo favore e tutta la sua fede.

– Ebbene, – continuò Giorgio, indicando Lalla amorosamente – anche al di là… io l’amerò sempre così, perchè la mia anima è piena di lei, come il mio cuore.

– Grazie… grazie. – Ma la poveretta non potè continuare, interrotta da un urto di tosse forte e doloroso come un singulto.

Giorgio si fermò guardandola colpito.

– Vi sentite male?

– No, no; è passato;… anzi, mi sento meglio; molto meglio. Le vostre parole… il sapere che voi amate mia figlia… Sono contenta, mi sento tanto felice – è la mia gioia più grande, questa; è la gioia che mi farà forse, guarire.

– Allora, in cambio della mia promessa, ne voglio un’altra, da voi.

– Quale?… Quale?… – La voce di Maria si era fatta tenue come un sospiro, come un gemito.

– Quando ritorneremo da Roma, vi troverò buona, come siete buona… adesso?

– Sì; fate felice mia figlia, amatela sempre sempre, e sarò buona, ve lo prometto.

– Grazie, mamma, grazie!… Oh se sapeste quanto vi voglio bene! – E Giorgio, così dicendo, – erano soli nella stradetta, – l’abbracciò con improvvisa tenerezza e le baciò i capelli e la fronte. Maria gettò un grido; Lalla e miss Dill si fermarono voltandosi; ma Lalla indovinò tutto e correndo presso la mamma e abbracciandola, come aveva fatto suo marito, finse amabilmente d’esserne un po’ gelosa.

– Sì, sì, – esclamò Giorgio, – l’amo più di te! assai più di te! – E presale una mano, si tirò Lalla sul cuore, e la baciò, la strinse con tanta passione, da rendere ancor più evidente il giuoco di quelle parole.

Miss Dill, commossa e muta dinanzi a quella scena si tolse il pince-nez, e colla punta del dito mignolo si asciugò lentamente due lacrime: una per occhio.

XXVI

La contessa Della Valle, ritornata a Roma, si trovò con pochissimi adoratori. Oramai non era più una novità e poi correva la voce che a lei piaceva scherzare, ma che, allo stringer dei conti, lasciava tutti con un palmo di naso, e citavano l’esempio del Vharè.

– È innamorata di suo marito, – dicevano, e questa calunnia, inventata ad arte dalle donne, e messa in giro dagli uomini, toglieva ogni attrattiva alla povera contessa. Il corteggiarla non era di moda; anzi voleva dire… fare la figura del novizio. A teatro, visite corte, per paura del pozzo; in casa, qualche onorevole, amico del marito, e nessun altro. Alle feste da ballo i giovanotti eleganti le parlavano appena, tanto erano affaccendati. Non già che la trascurassero per farle dispetto, ma, in fine, non avevano tempo da perdere e consumavano le loro fiamme per altre divinità che si sapeva – si sperava – non facessero languire i supplicanti. La duchessina, era innamorata di suo marito; dunque, era anche troppo se con lei sacrificavano, per turno, qualche quadriglia o qualche giro del cotillon. Lalla si mostrava amabile, lusinghiera, più carina che mai; cercava, tentava tutte le sue risorse; ma non riusciva a ritornare in auge. – Innamorata di suo marito? – Non c’è niente da fare. – E non se ne curavano più.

Lalla ci soffriva assai; e quando tornava a casa stanca e seccata, pensando alle emozioni e ai trionfi dell’anno prima, le veniva da piangere. In quelle notti sognava spesso il bel marchese Vharè, quando la stringeva fra le braccia e vagavano voluttuosamente, trascinati e travolti dall’onda calda del valzer, mentre tutto il bel mondo le si affollava d’intorno, pieno di ammirazione e di entusiasmo. Allora sì… allora sì, era felice!… Ma allora la gente non era tanto stupida; allora non la credevano innamorata di suo marito. Chi mai aveva inventata quella sciocchezza?… E così, in cuor suo, la duchessina sperava sempre che il bel marchese non l’avesse dimenticata interamente; sperava sempre di vederlo tornare da un momento all’altro; ma ben presto dovette perdere anche la speranza. Il Vharè era a Nizza a passare l’inverno e a giocare; in quei giorni egli aveva avuto un duello molto grave, finito colla peggio del suo avversario, e, in proposito, si faceva il nome di una notissima signora milanese.

 

Quando fu raccontato questo fatto alla contessa Della Valle, Giorgio era con lei, e quando rimasero soli, Lalla non potè a meno di esclamare, con un misto di amarezza e d’ironia: – Adesso non avrai più paura che il Vharè mi faccia la corte!

Era proprio gelosa di quella nuova avventura.

– Come il – perfido – l’aveva subito dimenticata!… Almeno lo avesse fatto per vendicarsi di lei!… – E di tutto ciò, chi più ne portava la pena era, naturalmente, il marito. Ne portava la pena senza averne alcun vantaggio; diventando sempre più innamorato, e quanto più Lalla era nervosa, tanto più, per amore e per timore, egli ne subiva l’influenza, in casa, fuori di casa, e persino alla Camera, dove il suo colore politico sbiadiva a vista d’occhio, mentre invece il duca Prospero avanzava ogni giorno, giovanilmente, verso le idee liberali.

Lalla, era spesso triste e si sentiva come sfiduciata. Anche a Nervi, dove si recavano l’estate coi d’Eleda. perchè i medici avevano prescritto a Maria l’aria del mare, il suo umore era inquieto e lunatico; e fu ancora peggio quando, alla fine, ritornarono a Borghignano.

Borghignano, in quei giorni, era commossa da un grande avvenimento: la Presidenza del teatro dell’Opera aveva scritturata, per la prossima stagione di carnevale, nientemente che la diva Soleil per cantare nella Forza del destino e nell’Aida. Non si parlava d’altro; e tutti, pareva si fossero data la parola per riferire e ripetere alla Della Valle, magnificandola, la straordinaria notizia. I Lastafarda, il Rebaldi, il Toscolano discutevano dinanzi a lei, se e quando la diva aveva fatto la pace col Vharè; ma poi, sopravveniva la Calandrà a tagliar corto; e marcando le parole, per ferire Lalla nel vivo, assicurava che il Vharè le aveva fatto capire che la Soleil, per il suo spirito bizzarro e originale, era l’unica donna che gli aveva fatto impressione e che non avrebbe potuto mai dimenticare. Anche la Bertù (quella stupida, quella mummia a freddo della Bertù!) diceva di aver veduta la Soleil a Torino al Circolo degli Artisti, e che aveva l’aria molto comme il faut; era un modo qualunque, ma buono, per far scontare a Lalla la sua freddezza di Santo Fiore e la sua accoglienza così poco gentile e poco incoraggiante.

Lalla, partì da Borghignano col cuore gonfio di dispetto e di amarezza. Sentiva gelosia contro il Vharè, trovava che con lei s’era condotto assai male, le pareva di essere stata ingannata e tradita; insomma era molto infelice, e prometteva a sè stessa che, per vendicarsi, non l’avrebbe riveduto mai più. Invece, lo rivide presto, prestissimo; lo rivide tal e quale, col suo volto pallido e beffardo e colla sua aria alla lord Byron. Questa volta, guardando il Vharè, la duchessina sentì battersi il cuore con violenza, e per amore e per puntiglio, per far dispetto alla Calandrà, alla Bertù e a tutti i pettegoli di Borghignano che l’avevano angustiata, per punire gli imbecilli di Roma che l’avevano trascurata, e finalmente per il suo trionfo di donna, lo volle suo; volle rapirlo alla Soleil, volle rapirlo alla bella signora di Milano!

La contessa Della Valle era andata in quell’autunno a Torino col babbo e col marito, per assistere alle feste della Mostra Nazionale di Belle Arti.

Giorgio faceva parte della rappresentanza della Camera. Prospero diceva, ma non era vero, che gli seccava moltissimo quel viaggio – gli seccava per dover abbandonare sua moglie sempre malaticcia; ma come si fa?… Doveva alla sua volta rappresentare il Senato, – In verità, quando non c’era la Giulia, tutti i pretesti gli facevano comodo per andarsene a spasso e piantar la moglie, che, davvero, non era una compagnia molto allegra.

Erano arrivati a Torino di sera e avevano preso alloggia all’Hôtel d’Europa, e subito erano scesi, tutti insieme, nella sala da pranzo.

La sala a specchi, ad arazzi e a fregi dorati era illuminata con tre grandi lumiere cariche di globetti, di gocciole, di pestellini di cristallo sfaccettati. A quell’ora, tutte le tavole erano vuote, e solamente in fondo c’era ancora una comitiva di giovanotti eleganti e di ufficiali che si divertivano al giochetto della mela: un giochetto che consiste nel far girare attorno una mela infilata in un forchettone; ognuno dei commensali per turno, con un coltello deve tagliarne una fetta d’un colpo; chi fa cadere l’ultimo pezzetto ha perduto e paga lo sciampagna. Quando la Della Valle col duca Prospero entrarono nella sala, il giuoco era finito allor allora e lo sciampagna era stato perduto da un ufficiale, fra le grida e gli evviva dei vincitori: ma per altro appena comparsa una bella signora, tutta quella gente si calmò ad un tratto per guardarla.

– È molto carina! È molto elegante!… Chi è?

Lalla, seria seria, non voltò mai gli occhi verso quei signori, ma valendosi del giuoco degli specchi, aveva subito notato di aver fatto colpo; poi, improvvisamente, un colpo lo sentì lei al cuore: là, fra quella gente, c’era lui… il Vharè… Giacomo!…

Lalla, non arrossì, non si confuse. Fu Giorgio, il primo, a riconoscere il Vharè e ad indicarlo agli altri, dopo aver salutato con un cenno cortese del capo, perchè, adesso, gli spiaceva di essere stato ingiustamente freddo con lui e quasi sgarbato.

Il Vharè si alzò, rispondendo al saluto di Giorgio, e si avvicinò alla tavola della contessa Della Valle: strinse la mano a tutti e a Lalla, naturalmente, prima di tutti, senza mostrare il minimo turbamento; e dopo aver complimentato il loro arrivo a Torino, cominciò a discorrere del Morelli, del Michetti e di Satanella, un dramma nuovissimo che si recitava al Gerbino con grande successo.

– Ci andremo domani? – chiese Lalla a Giorgio.

– Come vuoi.

– Temo, contessa, che non ci sarà posto: anch’io sono andato oggi per prendermi una poltroncina e non l’ho trovata.

– Se i signori desiderano delle fauteuilles per il Gerbino, – soggiunse inchinandosi un cameriere – al bureau dell’hôtel credo ve ne siano ancora; una famiglia che le voleva per domani, e che deve partire improvvisamente, le lasciò disponibili.

– Sappiatemi dire quante sono – ordinò Giorgio al cameriere. Questi uscì dalla sala e vi rientrò poco dopa con cinque poltroncine: dal numero 18 al 22.

– Ne prendete una anche voi, marchese? – domandò Prospero Anatolio, rivolgendosi a Giacomo. Giacomo, non rispose subito, ma volle prima aspettare che Giorgio gli ripetesse l’offerta: allora soltanto accettò, ringraziando con un piccolo inchino.

La contessa Lalla non aveva detto una parola: tuttavia, assistendo a quello scambio di complimenti fra suo marito e… quell’altro, non potè a meno di sorridere fra sè. La presenza del Vharè non le cagionava nessuna commozione: pareva che lo avesse veduto il dì innanzi, pareva che l’avvenente marchese non fosse mai stato altro per lei che un buon amico. Essa mangiava quietamente, silenziosamente ed anche con discreto appetito, godendosi a rosicchiare i grissini.

Giacomo scambiò ancora qualche parola, poi raggiunse gli amici, che si erano alzati, e uscì con loro.

– È un grande chiacchierone, ma ha un certo spirito!… – esclamò il duca Prospero, appena il Vharè fu scomparso.

Il Della Valle approvò sorridendo, e non disse un ette contro il Vharè. Non voleva lasciar credere a Lalla di essere ancora in sospetto, e perciò cercava tutte le occasioni per mostrare la sua piena fiducia.

Lalla continuava sempre a rosicchiare i grissini e non mostrava nessuna preoccupazione per quell’incontro inaspettato. Tutta la sera fu di buonissimo umore e affettuosissima col marito; ma senza premeditazione, così, perchè si sentiva contenta, perchè si sentiva allegra, perchè le piaceva di essere a Torino. Il Vharè portava sempre l’anellino che gli aveva regalato lei, quello del Frascolini, – la turchina colle rose d’Olanda, – e ciò l’aveva fatta sorridere di compiacenza; e di più, aveva notato che sotto ad una disinvoltura apparente, il Vharè era impacciato e confuso.

Il giorno dopo, Giacomo non si lasciò vedere nè all’Esposizione, nè sotto i portici di Po e nemmeno all’albergo, all’ora del pranzo. Prospero Anatolio era malcontento di questo fatto, perchè lo avrebbe veduto volentieri per raccontargli tutte le feste e le cortesie di cui gli erano stati prodighi i Torinesi. Quella sera, dopo teatro, dovevano andare, lui e Giorgio, e accompagnati dal Sindaco di Torino, al Club del whist, e più tardi dovevano incontrare i ministri Miceli e De-Sanctis, coi quali erano stati invitati a colazione dal duca d’Aosta. Giorgio avrebbe fatto senza volentieri di quell’invito; ma ne sorrideva con compiacenza; invece Prospero Anatolio confidava a tutti che quella colazione era per lui una gran seccatura, una gran noia, ma internamente ne era beato.

Il marchese di Vharè capitò in teatro quando il primo atto di Satanella era già verso la fine. Il Della Valle, salutandolo, passò nell’altra poltrona, rimasta vuota, e gli cedette il posto vicino a Lalla.

Lalla, quella sera, non solo era piacente, ma pareva bella; vestiva un abito di seta, d’un bianco a fondo giallo, coperto di trine e chiuso sotto al mento. Dalle maniche corte si vedeva uscire il braccio nudo quando guardava col cannocchiale, o quando si appoggiava mollemente col capo ad una mano. Aveva un cappellone bizzarro, guernito colla stoffa e le trine dell’abito, e di sotto alle tese larghe e lunghe il visino di Lalla, cogli occhioni grandi, appariva ancor più birichino e più carino. Con un cenno del capo sorrise appena al Vharè, poi ritornò attentissima al dramma, rimanendo immobile, ed esprimendo una commozione vivissima.

Il dramma, che in quel punto cominciava a diventare assai interessante, rappresentava una delle più ardite, delle più arrischiate variazioni sul tema eterno dell’amore.

Satanella non era una donna; era un caso patologico. Essa inebriava di sè tutti quanti l’avvicinavano; e quando aveva fatto serpeggiare nei sensi dell’uomo un fuoco divoratore, ritornava fredda e impassibile. Cleopatra uccideva lo schiavo al quale il suo capriccio avea voluto concedere una notte di amore. Satanella, dopo i suoi baci, rendeva pazzo l’amante con un riso schernitore. Ma il poeta aveva rivestito il suo mostro con versi splendidi e ispirati; la maravigliosa attrice, che ne interpretava il carattere, oltre di aggiungervi il fascino delle forme magnifiche, sapeva infondervi tanta vita, tanta verità, tanto calore, che il pubblico, sedotto, si appassionava, si entusiasmava, s’innamorava anche lui di Satanella, e l’applaudiva con frenesia.

Il pubblico è un gran fanciullo: a volte capriccioso, crudele, diffidente; a volte credulo, sublime, minchione; ma sempre fanciullo!…

Alla fine del primo atto, Satanella s’incontra in un altro caso patologico; un giovane biondo e forte, che riuniva la ferrea volontà d’un tedesco all’anima divampante di un italiano. Il seguito del dramma rappresentava appunto la lotta e la sconfitta di Satanella. Essa spensierata, credeva di poter ripetere lo stesso giuoco anche con lui; ma si accorge subito che ha da combattere con un avversario ben diverso dagli altri, e ne rimane impaurita e sedotta. La iena, che ha fiutato il pericolo, si leva, si scuote, gli gira d’attorno sospettosa, vorrebbe affascinarlo, vorrebbe sorprenderlo, poi, scorata, intimidita, riunisce ogni suo sforzo e con un anelito supremo tenta all’improvviso la fuga, ma invano!… Il nuovo amante l’afferra con una stretta poderosa, la scuote, la doma, la vince, e Satanella soccombe volente e innamorata. Allora l’urlo di quelle due passioni che s’incontrano, che si urtano, che si confondono, solleva in tutto il teatro un’eco potentissima, e Satanella palpitante, spettinata, scolorita è chiamata, invocata sei, sette, dieci volte alla ribalta da un pubblico inebriato, che non si sazia di rivederla, di salutarla, di festeggiarla, che l’applaude e che l’adora.

Lalla, pallidissima, aveva gli occhi molli di pianto, le labbra arse; era stanca, sbattuta dall’emozione. Quella donna così superbamente bella, quei versi di fuoco, tutti quegli applausi, quelle grida, quelle feste di una folla delirante; quell’aria greve, viziata della sala che le bruciava la faccia; quella luce, quei colori che l’abbarbagliavano, l’avevano confusa, sbalordita, trasportata. Non sapeva più dove fosse, non pensava più a nulla; questo solo sentiva, che il suo cuore batteva forte col cuore di Satanella.

Verso la fine del terzo atto, quando la bella eroina, stanca di lottare, si getta impazzita alla sua volta, e impazzita d’amore, fra le braccia dell’amante gridando – hai vinto! – con uno slancio, con una espressione così potente da sollevare nel pubblico un urrà d’applausi, il Vharè toccò, accarezzò col piede il piedino di Lalla: Lalla non ritirò il suo; ma rispose a quell’invito con un premito più forte, e mentre lunghi brividi di voluttà la facevano fremere, essa, dimentica di tutto e, più di tutto, della vereconda ritenutezza che le era abituale, languidamente fissava Giacomo col seno anelante e colla bocca socchiusa, dalla quale pareva pure fosse per prorompere l’hai vinto di Satanella.

 

Finito il dramma, Lalla rimaneva sempre muta e immobile. Fu Giorgio a chiamarla, a scuoterla dal suo rapimento. – Vuoi che andiamo, cara? – Allora ebbe un tremito: si alzò, senza rispondere; aiutata dal Vharè e da Giorgio, si accomodò intorno lo scialle; poi si mosse come trasognata, con Satanella dinanzi agli occhi, con la sua fosca passione nel cuore, e nella testa, ancora intontita, l’eco viva, assordante degli applausi.

Si avviarono tutti insieme, passo passo, verso i portici di Po, per ricondurre Lalla all’albergo; piovigginava e c’era un’aria fredda, frizzante. Giorgio discuteva di Satanella come opera d’arte, e gli pareva immorale. Prospero Anatolio, altro che immorale, la giudicava addirittura indecente! Il Vharè pensava a tutt’altro, e Lalla stretta nello scialle, e senza saperlo, pensava anche lei a ciò che pensava il Vharè.

– Non sono che le dieci e un quarto, – disse alla fine Prospero a Giorgio, cambiando discorso, – dobbiamo andare al club?

– Come vuoi; ci fermeremo molto?…

– No, no. Un’oretta, non più. Sono troppo stanco.

– Vuoi fermarti al caffè? Vuoi prendere qualche cosa? – domandò Giorgio rivolgendosi alla moglie.

– Ho detto alla Nena che mi farò il thè. Se posso offrirgliene una tazza, marchese?… Le farà bene. – Lalla, sorridendo, si era rivolta al Vharè, con una finezza tutta sua. Giacomo, capì l’amabile malizia e rispose un – grazie – che non era nè un sì, nè un no.

– Quando ritorneremo dal club, – soggiunse Giorgio, – ne prenderemo una tazza anche noi; non è vero, Prospero?

– Oh, per me, ti ringrazio. Appena sono libero, scappo a letto!

Erano giunti sotto l’atrio dell’albergo. Il Duca strinse la mano alla figliuola e sollecitò Giorgio perchè si sbrigasse; ma Giorgio aveva ricevuto dal cameriere due o tre lettere e stava sfogliandole. Quando ebbe finito, Lalla e la Nena, la quale, avvisata del ritorno della padrona era scesa ad incontrarla, si avviavano su per lo scalone. Giacomo, intanto, era scomparso.

– Dov’è andato il Vharè? – domandò Giorgio, che voleva salutarlo.

– Non so, – rispose Lalla come distratta – non lo vedo.

– Andiamo, fai presto! – borbottò Prospero, impazientito.

– Mi aspetti alzata? – chiese ancora Giorgio a Lalla. Quella sera egli non sapeva staccarsene.

– Sì.

– Fra un’ora, sai; non di più. Addio cara.

– Addio, Nino; vieni presto.

Il conte Della Valle se ne andò col suocero.

Lalla non sapeva, davvero, dove il Vharè si fosse nascosto; non lo vedeva più. Tuttavia, lo sentiva… Era lì… lo sentiva. Era lì presso… aspettando il momento di trovarla sola. Il quartierino della contessa Della Valle era un po’ alto; essa cominciò a salire le scale adagino, con un’indolenza fiacca e cascante, poi, quando giunse al primo piano, si fermò un poco, come per riposare, indugiandosi nella Sala di lettura, ordinando alla Nena di precederla, di accendere la lucerna ed il fuoco e di preparare il bouilloire per il thè. Rimasta sola, si era appena messa a sfogliare l’Illustrazione, quando Giacomo le comparve dinanzi.

– Contessa, le domando perdono della libertà che mi prendo, ma avrei qualche cosa di suo da restituirle. – Così dicendo egli s’era tolto ed offriva a Lalla l’anello del Frascolini.

Lalla lo prese, lo guardò, sospirò, poi, colla testina bassa, senza alzare gli occhi, prese la mano di Giacomo e tornò ad infilarvi l’anello.

– Cattivo!… Mi dia il braccio. Mi sento stanca, stanca…

Egli non si mosse: la guardava serio, fisso. Ma Lalla gli si avvicinò, e passando il suo braccio sotto il braccio di lui, cominciarono a salire insieme lentamente.

Lalla doveva essere davvero molto stanca, perchè si appoggiava tutta al braccio di Giacomo, fermandosi ancora, ad ogni ramo di scala, con atteggiamenti pieni di amorevolezza; e siccome, ad un certo punto, Giacomo si fermò risoluto, come per domandarle conto del suo abbandono: – Ho avuto paura, – ella gli disse. – Dio, Dio: credevo morire dalla paura. Ero sola: li avevo tutti contro di me… Più tardi, mi sarei arrischiata a farle avere mie nuove, ma lei… lei, dov’era andato? – E non aggiunse altro; capiva bene d’essersi abbastanza spiegata e giustificata.

Quando arrivò sull’uscio del suo piccolo quartierino si sciolse dal braccio del Vharè, entrò, attraversò l’anticamera, seguita da quell’altro, sempre un po’ imbronciato, e si fermò nel salotto: la Nena aveva accesa la lucerna, che da una campana smerigliata diffondeva una luce ristretta e tranquilla. Sul caminetto i fastelli scoppiettavano levando una vampa viva, mobilissima; sul tavolo, in mezzo alla stanza, una fiamma azzurra, debole, incerta, faceva grillettare l’acqua del thè.

Lalla sciolse lentamente i lunghi nastri del cappellino, che la Nena portò nell’anticamera; ma lo scialle volle tenerlo, perchè aveva, freddo, e finalmente con un lungo – ah! – di soddisfazione, potè sdraiarsi sulla lunga poltrona accanto al caminetto.

– Desidera altro, signora contessa?

– No, va pure: quando tornerà il padrone ti chiamerò.

La Nena uscì.

Giacomo, immobile, diritto dinanzi al fuoco, appoggiato con un gomito al piano del caminetto, fissava Lalla senza parlare. La duchessina, così illuminata dal chiaror della vampa, aveva nell’insieme alcunchè di fantastico e di bizzarro. Lo scialle scuro, quasi nero, nel quale si teneva avvolta, contrastava coi colori chiari dell’abito, collo splendore delle braccia nude e coi vaghi riflessi dei capelli biondi, mentre il piedino, chiuso in una scarpetta a strie d’oro ricamate, sbucava fuori, colla punta sottile, come un serpentello curioso che, nascosto sotto le vesti, spiasse lo svolgersi di quel peccato.

Giacomo non voleva esser lui a rompere il silenzio e, sempre più oscurandosi in faccia, batteva il tacco sulla pedana con un tic, tic, tac, convulso e minaccioso. E neppur Lalla ci si arrischiava a esser lei, e però di tanto in tanto fissava Giacomo con un’occhiata ch’era un rimprovero, un lamento e una preghiera, poi riabbassava il capo come mortificata, sfilando, con un moto delle dita febbrili, le frange dello scialle.

Durò a lungo quella scena muta; ma, anche tacendo, avevano cominciato a spiegarsi, a intendersi, a concludere che si amavano ancora, finchè Giacomo, il quale adesso guardando Lalla, la bruciava più delle fiamme del caminetto, le si avvicinò all’improvviso, preso da una subita risoluzione, e – Sai – balbettò – sai di avermi fatto molto male?! – Lalla rialzò il capo un’altra volta e un’altra volta fissò Giacomo negli occhi; ma lo sguardo di lei non era più triste, non era più mesto; appariva inondato di dolcezza. Giacomo, chinandosi, teneva una mano stretta alla spalliera della poltrona. Lalla la vide e la baciò… la baciò, proprio, dove c’era l’anello colle rose d’Olanda… poi con un atto pieno di grazia infantile e di tenerezza, posò languidamente su quella mano la sua bella testina. Giacomo, pallido, tremante, s’inginocchiò per esserle più vicino, ma senza toglier la mano sulla quale ella aveva appoggiata la guancia, che scottava come avesse la febbre. Colle ginocchia, con mezza la persona, la duchessina toccava adesso il petto di Giacomo; ma non si ritrasse, non si mosse nemmeno; continuava a guardarlo, sorridendogli con passione infinita, e lui, inginocchiato fra le sue vesti, le raccontava con infinita passione, tutte le pene, le angoscie, lo strazio patito! Le disse di averla amata sempre, come un pazzo, come un delirante: le disse che invano aveva voluta odiarla; che invano avea tentato di dimenticarla, perchè la sentiva sempre nel cuore, nella mente, nel sangue, perchè la voleva. Lalla, continuava a tacere e a guardarlo, ma sotto la calda veemenza di quelle parole il suo volto ora sbianchiva affilandosi, ora arrossiva infocato; gli occhi umidi, profondi, lanciavano fiamme, e il petto le si sollevava anelante.