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Mater dolorosa

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V

Maria comparì la prima volta in mezzo al bel mondo fiorentino, nel gran ballo della principessa Balbi della Bicocca. Già essa vi era stata annunziata, e la precedeva quel vociare inquieto, quei mille pettegolezzi coi quali si fabbricano le biografie improvvisate di tutti coloro che attirano la curiosità della gente. Gli uomini ne parlavano con entusiasmo, le donne con una certa diffidenza; esse temevano una rivale.

La bellezza della duchessa d’Eleda aveva raggiunto allora quasi la perfezione, e quel poco che le mancava per esser perfetta, ne accresceva la grazia. Era una bellezza che parlava ai sensi e al cuore; grande, bionda, pallida, l’eterno femminino di Goethe aveva in lei la sua espressione più viva, e la formosità giovanile, i suoi fascini più attraenti. Il poeta Aleardi, allora di moda, la paragonava a una Madonna pensata dal Beato Angelico, e dipinta da Rubens.

Quando non c’è un amante di mezzo che faccia da diafragma, i raggi lucenti della moglie cadono diritto a illuminare il marito: e Prospero Anatolio, come aveva già preveduto, ebbe in suo pro tutta la benevolenza che sapeva cattivarsi la moglie. Cominciavano a dimenticarlo, e la moglie lo ricollocò sul candelliere.

La celebrità(), come le donne e la fortuna, si abbandona a chi sa coglierla in buon punto; e una volta raggiunta nessuno o ben pochi ripensano agli espedienti adoperati all’intento. Prospero Anatolio poi, dominato da una gran vanità, non era uomo da fermarsi ad analizzare il successo. Quando lo applaudivano alla Camera, egli dimenticava che il discorso era stato riveduto da un suo collega, costretto, per la disciplina di parte, a tenersi nell’ombra; quando faceva ridere gli amici con un frizzo, dimenticava il Figaro o il Fanfulla, dove lo aveva letto. Adesso si sentiva accarezzato, cercato, adulato, e non pensava a sua moglie, alla forza prima di tutto quell’incenso; quella forza ch’egli per altro, a suo tempo, non avea trascurato di adoperare.

Gli uomini di tutti i partiti, deputati, ministri, senatori, banchieri, artisti alla moda, diplomatici a spasso, generali e ufficialetti, tutto il sesso forte, insomma, si affaccendava attorno al duca e gli faceva corona: e nemmeno il sesso debole gli era avaro di sorrisi.

Maria non aveva amanti; per combatterla e vincerla bisognava dunque sedurre il marito.

E infatti fra le altre, e più delle altre, la baronessa Renata de Haute-Cour, che da vari mesi faceva delirare invano il povero Anatolio, aveva cominciato, dopo la venuta di Maria a Firenze, a mostrarsi con lui di una amabilità molto arrendevole.

La de Haute-Cour era la moglie del ministro di Francia: una donnina che sembrava uscita da un capitolo di Feuillet, piena di grazia e di nervi; che rideva, parlava, gestiva continuamente, e che formava con Maria il più vivo contrasto. La duchessa d’Eleda aveva la maestà, i modi, il sentire di una gran dama; Renata, invece, la storditaggine briosa di uno sbarazzino.

Forse appunto per un tale contrasto, o forse per il rumore, lo scandalo, l’invidia, i desideri, che la de Haute-Cour avea sollevati intorno a sè, Prospero Anatolio da due mesi ne era perdutamente invaghito, e balbettava con lei, balbettava in modo straordinario. Renata non si può dire che rifiutasse il suo omaggio, questo no; ma le piaceva di farlo giocolare, come il micino che corre, salta, scatta, si contorce, fugge e ritorna affaticandoci per ghermire il gomitolo e, quando è lì lì per afferrarlo, uno strappo improvviso glielo porta lontano.

Ma invece al ballo della Principessa della Bicocca, Prospero Anatolio raggiunse il colmo della felicità. Renata era tutta per lui solo: aveva aperto al duca una partita a due colonne sul libricciuolo dei balli, e licenziava con poche parole gli importuni che tratto tratto venivano ad interrompere i loro discorsi.

Gongolante, orgoglioso, egli non avvertiva però che i rivali da lui messi in fuga correvano ad ingrossare le file già formidabili degli adoratori di sua moglie.

Durante le quadriglie, la coppia del duca e della baronessa Renata era la più disattenta di tutte, e fece nascere confusioni disastrose nella grande chaîne e nei comandi à gauche e à droite. Fra un ballo e l’altro era sempre il duca il cavaliere di lei, l’angelo custode del suo ventaglio, il segretario dispotico del suo carnet. Il duca la faceva bere, il duca la faceva passeggiare, il duca provvedeva agli strappi del suo vestito, conducendola dove le cameriere riparavano ai guasti avvenuti nel calore delle danze.

– Il vostro è un capriccio, – gli diceva Renata appoggiandosi mollemente al braccio di Prospero.

– No! No! Per tutto ciò che ho di più sacro al mondo, vi giuro che vi amo, che non ragiono più.

– Ma… domani?

– Domani, come ieri, come oggi, co-come sempre!

– For ever?

– For ever.

– E vostra moglie?

– Mia moglie… Vi amo.

– Guardatela. È bella assai, vostra moglie…

Fatto il giro dell’appartamento, erano entrati insieme nel buffet, e Renata, dietro a una portiera, gli indicava la duchessa, in mezzo alla sala da ballo.

Era appena finito un valzer: Maria, ancora ansante, colle guance leggermente colorite, era ammirata, circondata dal fior fiore della gioventù e dell’eleganza.

– Com’è bella!… No! Non dovete guardarla!

E Renata si strinse più forte al braccio del duca, piena di fascino e di grazia, fingendosi quasi paurosa, quasi mortificata da quel confronto.

– Voglio voi… Amo voi… – le balbettò all’orecchio il duca d’Eleda.

– Vi piaccio dunque… mi amate di più? – esclamò Renata correggendosi a tempo, e con una mano sapiente giuocando colla commenda che brillava sullo sparato tutto a pieghe e a ricami della camicia di Prospero.

– Lo vedete, Renata, non so-ono qui?!…

Renata si guardò intorno con un rapido giro degli occhi. Nel buffet non c’era nessuno. Nascosta dietro alla portiera, non poteva certo esser veduta: si alzò ritta sulla punta dei piedi, e con una sua mossa da monello stordito sfiorò colle labbra il volto di Anatolio, che diventò pallidissimo.

VI

Tra Giorgio Della Valle e il duca d’Eleda non c’era molta amicizia.

Giorgio, parlando di Prospero, alzava le spalle chiamandolo clericale; e Prospero chiamava l’altro un repubblicano e faceva altrettanto. Erano rimasti molto tempo salutandosi appena, fatto abbastanza notevole in una città di provincia, fra i rappresentanti di due case cospicue del patriziato; e solo quando successe il matrimonio del duca, cominciarono ad avvicinarsi un po’ più. Il conte Eriprando, lo zio della sposa, era stato tutore di Giorgio, e Giorgio era tenuto dai Santo Fiore come un figliuolo. A poco a poco, la consuetudine di vedersi ogni giorno, se non fece nascere fra di loro una straordinaria simpatia, finì col renderli amici apparentemente.

Giorgio rispettava le opinioni politiche e religiose del suo avversario; anzi, per la disparità grandissima che esisteva fra quelle opinioni e le sue, diffidava del proprio giudizio, temendolo alterato dalle prevenzioni, e si ostinava, per paura di eccedere, a voler tener il duca d’Eleda per da più assai che non valesse in realtà. Prospero poi, da parte sua, gli accordava un olimpico compatimento, giudicandolo sempre un ragazzo esaltato, ma innocuo; un po’ matto, ma in fondo un ottimo cuore; e sperava, davvero, che maturandosi cogli anni e coll’esperienza avrebbe messo il cervello a partito. Nè lo vedeva di mal occhio in casa; anzi faceva pompa di una tale amicizia; perchè questa amicizia rappresentava la tolleranza del duca verso i suoi avversari politici. Di questa tattica fine egli raccoglieva già i frutti, e durante le ultime elezioni se n’era discorso favorevolmente al gran caffè di Borghignano e su pei giornali.

Adesso per altro, a Firenze, Prospero Anatolio trovò nel conte Della Valle un cambiamento troppo evidente… Giorgio alle volte era con lui così freddo, che si avvicinava a scortese… nè Giorgio aveva tutti i torti.

L’amicizia, la stima ch’egli professava a Maria erano sincere e vivissime, e perciò non poteva perdonare al duca d’Eleda di posporre tutte le virtù e i pregi inestimabili di sua moglie ad una cocotte, con tutti i quarti, ma sempre cocotte.

Anche a Maria non passò inosservata la freddezza del conte verso Prospero; e questa novità, ch’ella non riusciva a spiegarsi, la infastidiva, la addolorava, la teneva continuamente sopra pensiero, tanto che una volta, non potendo più oltre frenarsi, domandò e volle saperne il motivo. Giorgio, preso così all’improvviso, non ebbe tempo di potersi schermire con arte, e la duchessa gli serrò i panni addosso sì fattamente che, pur di uscirne, egli ne attribuì la cagione alle aspirazioni politiche del deputato di Borghignano, troppo contrarie alle sue.

Ma la scusa non poteva soddisfare, perchè quelle aspirazioni erano pur sempre le stesse, mentre invece la freddezza era nuova. Giorgio allora, vedendo di non potersi giustificare, promise di correggersi, e benchè questa promessa non fosse poi mantenuta, Maria non entrò più in tale argomento. Sentiva che Giorgio le nascondeva un segreto, ch’egli non aveva per lei la confidenza di un tempo, e se ne offese.

Intanto anche Prospero Anatolio che, con un grosso rimorso sulla coscienza, avea paura di tutto, non mancò alla sua volta, di far cadere il discorso, trovandosi colla moglie, sullo strano contegno del suo amico, per prevenire il pericolo di qualche inopportuna confidenza e prepararsi, per tutti i casi, il terreno alla propria difesa. Egli pure, come avea fatto Giorgio, non trovando da dire meglio, ne dava la colpa alla politica. – Nemici politici e amici personali, è una bella frase d’effetto, come – Libera Chiesa in libero Stato – del conte di Cavour, – concludeva il duce d’Eleda. – Tutta roba da leggersi sulle gazzette; tutta rettorica! Ma, in pratica, oh! in pratica è un ben altro affare! Oggi un’allusione, domani un equivoco, la corda si fa tesa e si rompe, quando tu meno lo crederesti. Anch’io – continuava – anch’io, se devo dire la verità, ho sempre tollerato Giorgio per un riguardo verso i tuoi, per riguardo a te stessa.

 

Maria ascoltava e taceva; ma in fondo al cuore sentiva che Prospero, come il conte Giorgio, non era affatto sincero. Impaziente, inquieta, avrebbe voluto ad ogni costo scoprire il mistero, indovinare il perchè della freddezza e degli sgarbi dell’uno, dell’imbarazzo dell’altro.

Povera Maria! pur troppo era vicino il giorno che doveva sciogliere l’enigma e distruggere per sempre la serenità della vita sua!

Nel lunedì ultimo di carnevale si preparava a Corte una festa che chiudeva per quell’inverno i ricevimenti privati. Era grande l’aspettativa e grandissimo nei pochi eletti il desiderio d’intervenirvi. La duchessa d’Eleda, naturalmente, era una delle signore invitate e più delle altre desiderata. L’uomo propone, per altro, e Dio dispone; e il mal di capo che aveva tormentata Maria per tutto quel giorno si accrebbe nel dopo pranzo, accompagnato da brividi molesti che facevano temere la febbre. Giorgio si trovava presente e consigliò a Prospero di mandare pel medico. Il servo va e torna, e riferisce che il medico era uscito di Firenze il mattino e ritornerebbe col diretto delle undici; appena giunto lo manderebbero.

– E se ne chiamassimo un altro?

Maria preferì piuttosto aspettare.

Prospero, suonate le dieci, cominciava ad essere sulle spine, e brontolava fra i denti che il male non bisogna troppo ascoltarlo; poi da un momento all’altro, quasi temendo gli potesse mancare il coraggio se aspettava a risolversi, si fermò sui due piedi, guardò l’orologio e borbottò accigliato che egli doveva recarsi al ballo subito, dovendo conferire col presidente del suo ufficio.

Maria, che aveva notato con inquietudine il crescente malumore di suo marito, non lo trattenne, e così il duca si sentì libero e padrone di andarsene a suo piacimento. Allora, colla tenerezza, tornò ad essere gentile e affettuoso verso Maria; le fece raccomandazioni e carezze, le baciò i capelli e le mani; ma poi, la prudenza gli mancò sul più bello. Era già sull’uscio quando, rivolgendosi a Giorgio, disgustato di quella commedia, gli domandò se si fermava ancora molto tempo.

– Mi fermo ancora un pochino, se la duchessa non è troppo stanca.

– No, no; poi a momenti verrà il medico – rispose Maria.

– Benissimo, cara, fa, fa, come vuoi, e allora tu, Giorgio, dovresti usarmi una cortesia: aspettare che venga il medico e sapermi dire, quando ci vedremo più tardi, che cosa ha detto.

Giorgio alzò il capo e lo guardò senza rispondere. Prospero Anatolio capì di essere andato troppo oltre, ma conoscendo la lealtà del conte Della Valle, pensò d’affrontarlo, e gli ripetè la raccomandazione, guardando intanto Maria come per dirle: – È un tiro solito, ma lo sopporto per amor tuo.

– Io non vengo al ballo stasera – rispose Giorgio seccato – ma in ogni modo ti farò avere le notizie, se proprio le desideri.

Il d’Eleda lo ringraziò, sorrise di nuovo stringendo la mano a sua moglie e usci senza presentire l’uragano che stava per addensarsi sul suo capo.

Il fare asciutto, sgarbato del conte Della Valle aveva indispettito Maria a un punto tale, che rimasta sola con lui, lo trattò con insolita freddezza. Giorgio se ne accorse subito, ma non sapendo come giustificarsi, senza accusar Prospero, non parlò più affatto: tanto che la duchessa, seccata, gli disse di sentirsi molto stanca e che perciò pensava di attendere il dottore coricata.

– Se credete, per altro, che io mi fermi ancora per attendere le notizie, come mi ha detto Prospero…

– Grazie: non importa – rispose Maria. – Quando verrà il dottore, lo pregherò di scrivere un biglietto, e glielo manderò io stessa. – Era un tono che non ammetteva repliche, e Giorgio se ne andò indispettito contro il d’Eleda, per la sua cattiva condotta, prima di tutto, ed anche perchè era la cagione della collera di Maria. Scese lentamente le scale, e, nell’uscire, incontrò appunto il medico che entrava allora. Pensò, per un momento, di risalire insieme; ma poi, riflettendoci, accese una sigaretta e rimase ad aspettarlo passeggiando sotto l’atrio. Poco dopo il dottore scendeva. Maria non aveva che una febbriciattola; un po’ di raffreddore; in breve sarebbe stato tutto sparito. Giorgio si strinse nelle spalle e se ne andò al club.

Maria durò fatica prima di poter prender sonno; quel contegno strano e ingiustificabile la impensieriva e addolorava ad un tempo. Anche in suo marito, è vero, aveva notato alcunchè d’insolito; ma non vi fece molto caso, assorta com’era in altri pensieri. Cominciò dall’accusare Giorgio, nel suo cuore, di non essere più il medesimo di Borghignano; di avere segreti e misteri con lei, che lo amava colla tenerezza confidente di una sorella. Poi, dopo di aver cercato e ricercato seco stessa di scoprire la verità, s’interrogò alla sua volta, domandando a se stessa s’ella pure non aveva dato motivo a quello spiacevole cambiamento; e quantunque si trovasse affatto innocente, finì come finisce sempre chi vuol bene a qualcuno, coll’assolvere questo qualcuno e coll’accusare sè di durezza.

– Chi sa! – pensava Maria, che nel difendere l’amico provava un vivo piacere – chi sa!… Giorgio avrà forse qualche noia, qualche dolore, ed invece di confortarlo fo peggio. È impossibile ch’egli sia mutato in questo modo senza una ragione seria, molto seria, ed io ho avuto torto di non pensarci. Se ha risposto sì malamente a Prospero, forse avrà avuto ragione di farlo; forse avrà qualche dispiacere che lo turba, ed io aggiungo alle sue pene anche la mia freddezza…

Ma la duchessa s’ingannava. Giorgio Della Valle, che quella notte era molto fortunato al giuoco, non si ricordava più di lei, ed era allegrissimo. – E se fosse in collera con me e non tornasse? – continuava Maria a pensare, – alla fin fine, se fosse in collera, quasi non avrebbe torto. Sa di non avermi fatto nulla, e, come a me non va più il contegno verso di noi, a lui non parrà scusabile il mio… Come spiegare il nostro malinteso?… Che fare?… – E s’affannava per cercare il modo di rivederlo presto, e scusarsi, senza aver l’aria di corrergli dietro. Si ricordò in quel punto che il giorno innanzi non aveva voluto donare a Giorgio una fotografia, che piaceva molto, della sua Lalla, perchè, essendo una prima copia, desiderava serbarla per Prospero. Ma adesso, riflettendoci, capiva non essere uomo suo marito da badare alla prima copia piuttosto che alle altre; l’affetto paterno del duca, il quale, del resto, idolatrava la bimba, non capiva certe finezze: domani adunque si manderà a Giorgio la() fotografia domandata. In tal modo, naturalmente, egli sarebbe venuto subito per ringraziarnela, e così spiegandosi reciprocamente, avrebbero finito col far la pace.

Con questo pensiero si addormentò tranquillamente, e si svegliò la mattina dopo con questo pensiero medesimo. Ancorchè il suo raffreddore non fosse sparito interamente, si alzò presto, e sua prima cura fu di farsi portare il ritratto da mandare a Giorgio.

– E se vi facessi scrivere a Lalla, colle zampine di mosca, il suo nome sotto?… Certo gli riuscirebbe più gradita l’improvvisata!…

Apparecchiato l’occorrente, Maria fece chiamare la bambina; ma come il solito quel folletto si era liberato dalla vigilanza di miss Dill, col pretesto di andare dalla mamma, ed invece era fuggito di corsa nel quartierino. del duca, il quale era pieno di tolleranza per i capricci della figliuola. Infatti Lalla vi metteva tutto sossopra e torturava la flemmatica pazienza di Ioh, un piccolo inglese, il vero tipo del groom.

Lalla era fin d’allora (contava sei o sette anni) l’incarnazione di uno di quei tanti demonietti creati e messi al mondo per la dannazione del genere umano. Amava suo padre fin all’idolatria, perchè in lui aveva sempre il condiscendente d’ogni capriccio, perchè, tollerante, compiacevasi d’ogni sua impertinenza, opponendosi a Maria, quando, più severa, trovava da sgridare e magari da correggere castigando. Egli stesso, senza pensare nè all’educazione, nè alla riuscita di sua figlia, la quale con quei principî non prometteva nulla di buono, si divertiva a giuocare con lei. Le insegnava mariuolerie, si lasciava sfuggire parole un po’ ardite, ridendo come un matto quando la piccina le ripeteva. Egli la faceva correre, la faceva saltare, le insegnava la scherma e l’equitazione; e però il quartierino del duca era l’Eden di tutte le delizie di Lalla. Quando poteva scappare da sua madre e da miss Dill era beata; correva là dentro; quei quadri dai colori vivaci, quelle armi, tutto quel disordine era il suo proprio elemento. Ella rifaceva il soldato, la cantante, l’arcivescovo e la duchessa madre nei giorni di ricevimento. Poi si fermava lungamente a divorare collo sguardo le donne nude, scolpite o dipinte; e benchè il duca le avesse insegnato, per tutelare la sua innocenza, che quelle non erano donne, ma anime sante, Lalla faceva già confronti fra quelle anime e sè. Gli astucci, le cassettine, i cassettini, l’armadio, lo scrittoio di Prospero Anatolio non avevano segreti per la sua curiosità infantile, nè riparo alle sue piraterie quotidiane. Prospero quando cercava qualche cosa che non gli riusciva di trovare, andava su tutte le furie brontolando con Maria e con miss Dill perchè non sapevano educare la bimba.

Anche quella mattina, dopo che la duchessa l’ebbe fatta chiamare, miss Dill dovette cercarla nello studio del duca.

– Cattiva! – le gridò Maria quando la fanciullina entrò in camera. – Cattiva! Hai disobbedito a tua madre, e hai detto delle bugie a miss Dill!

Lalla non rispose; ma con un salto fu sulle ginocchia di sua madre, e l’abbracciò stretta stretta. Miss Dill uscì.

– A voi – disse Maria affettando una severità che era uno scherzo – da brava! scrivete qui, sotto questo ritratto.

– Lasciamelo vedere, mamma.

– Lo hai già veduto ieri: è il tuo ritratto.

– Lasciamelo vedere, mammina bella.

– A te, guarda, sei contenta?

Lalla fece una smorfia e poi: – Sono stata più ferma di Mimì, non è vero, mamma? – Mimì era una piccola amica… una piccola rivale.

– Sì, sei stata più ferma di Mimì, la quale per altro è più ubbidiente di te, e non dice bugie. Scrivi da brava.

– E a chi regali il mio ritratto? al babbo?

– No, al tuo amico Giorgio.

– Al mio amico Giorgio? Ma non avevi detto di regalarlo al babbo?

– Scrivi, presto!

– Ne darai un altro al babbo?

– Sì, gliene darò un altro.

– Quale?

– Oh Dio! Un altro, come questo! Non farmi arrabbiare, andiamo. – E Maria, tenendo sempre Lalla sulle ginocchia, accostò a sè con una mano un piccolo scrittoio di mogano.

– Che cosa devo scrivere?…

– Scrivi… – e Maria, dettando, seguiva cogli occhi la manina di Lalla – scrivi: – Al buon amico…

– A-mico…

– Giorgio.

– Gior-gi-o. – Basta?

– No! devi scrivere ancora…

– Che cosa, mammetta?

– La tua piccola Lalla.

– Tua piccola Lal-la.

– Brava! Così! – E Maria fece per toglierle di mano la penna.

– No! Aspetta. – La bimba, la quale, prima non voleva cominciare, ora non voleva più smettere, e sotto gli occhi meravigliati di sua madre scrisse, dopo la firma: for ever.

– For ever?! – esclamò Maria, stupita. Lalla guardò la mamma, e col suo intuito precoce, ebbe paura di ciò che aveva fatto.

– Chi ti ha insegnato a scrivere for ever?

Lalla, rossa rossa, balbettò, si confuse, e poichè Maria insisteva per sapere la verità, scoppiò in lacrime, e cominciò a strillare. Allora la mamma, fissandola severamente, la minacciò, se non diceva tutto, di regalare Dèsir, il suo cavallino favorito, a Mimì. Era una minaccia che otteneva sempre un grande effetto.

– Non lo farò più, mamma!… Non lo farò più!…

– Va benissimo, ma prima mi devi dire tutto…

– Ho trovato per terra il portafoglio del babbo…

– Ebbene?…

– Non sapevo di far male… l’ho trovato per terra…

– Ebbene?…

Lalla mentiva; lo aveva tolto invece dal cassettino dello scrittoio, che trovò aperto un giorno, mentre suo padre, nella camera vicina, si mutava d’abito.

– E dunque? Animo, animo! bisogna dir tutto.

– E sotto il ritratto di una signora ho veduto scritto così.

– Dici una bugia.

– No, no! mammetta! – replicò Lalla, contentissima, – Hai anche tu quel ritratto – e così dicendo, scivolò dalle ginocchia di sua madre, corse nel salotto, prese un album, lo portò a Maria, l’aprì, fece passare i ritratti in fretta; poi fermandosi d’un tratto esclamò:

– Eccola! È questa qui! – e col ditino indicò il ritratto della Haute-Cour.

 

Maria impallidì, e i suoi occhi si empirono di lacrime.

– Perchè piangi, adesso, mamma?… Non lo farò più. te lo prometto.

Maria si strinse forte alla sua creaturina, e un singhiozzo, che le veniva dritto dal cuore, aprì lo sfogo ad un pianto dirotto. Lalla, che non capiva nulla, ritornò a piangere anche lei; baciava la bocca, le guance, gli occhi della povera sconsolata, e colla vocina infantile continuava a domandarle: – Perchè piangi, mamma?