Za darmo

Mater dolorosa

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Ma quella sera la duchessina, già spogliata e inginocchiata, in camiciuola, accanto al letto, non finiva mai di dire le sue orazioni. Giorgio, coricato, leggeva serio la gazzetta; ma stava attento a Lalla che non si moveva, e però, ad un certo punto, si accorse che piangeva… che singhiozzava.

– Animo, Lalla – le disse allora con dolcezza; – non c’è ragione di piangere. Io non sono in collera con te, lo sai bene.

Lalla baciò le sue madonnine, si asciugò gli occhi, poi in fretta, saltò nel letto, ma tenendosi affatto sulla sponda, dalla sua parte, il più lontano possibile dal marito, e senza guardarlo, senza dire una parola.

Giorgio buttò via il giornale, e si tirò lui più vicino, ma Lalla continuò a non guardarlo, rimanendo immobile cogli occhi spalancati.

– Animo… via, non voglio vederti a piangere, mi fa pena; – e si piegò per darle un bacio, ma Lalla gli puntò contro il petto le sue braccia tese, così fortemente, che sembravano di ferro.

– No, – gli disse, – non mi devi più baciare, dal momento che non mi vuoi più bene.

– Ma no, cara! Ti voglio tanto tanto bene, ed è per questo che…

– Oh, se tu mi amassi davvero, mi stimeresti anche, e non avresti creduto subito alle bugie di un cattivo; perchè c’è stato un cattivo che ha voluto metter male fra di noi.

– Ascolta, bambina mia…

– No… tua, no, più! – Giorgio a questa minaccia, tentò di prenderle una mano, ma Lalla non volle saperne. – No!… no!… Io ti ho sempre raccontato tutto, fin le sciocchezze che mi dicevano per farmi la corte, e tu hai potuto credere, non so come, che io potessi mentire!

– No, non l’ho mai creduto.

– Se vuoi domandarlo alla mamma, essa ti potrà dire che, non più tardi dell’altro giorno, mi ero consigliata con lei appunto per trovar modo, senza parere, di far diminuire al marchese le sue visite. E ciò, sai, non perchè egli me ne avesse dato motivo, ma per togliere ogni pretesto alla malignità di certa gente.

– Sì, cara, ti credo, ti credo; ma non devi pensare che io non ti voglia più bene.

– Oh, pur troppo, la scena d’oggi non potrò dimenticarla per un pezzo! Dio mio!… non ti avrei mai creduto così!…

– Via, Lalla… sii buona… perdonami.

– È impossibile.

– Te ne prego… ti supplico!…

– È impossibile… – No, sai: vado sola… in un’altra camera!

– Ti amo!… ti amo tanto!

– Adesso, mi ami… ma oggi, no; oggi non mi volevi più bene!

E… e non ci fu verso. Giorgio dovette rassegnarsi e cominciò a credere di essere proprio lui dalla parte del torto.

Il giorno dopo Giacomo di Vharè chiese due o tre volte al suo vecchio servitore se erano stati mandati dei libri: nulla; non era arrivato nulla. Nella mattina della domenica (la domenica dell’appuntamento) nemmeno; alle tre tornò a casa: poteva esser capitato qualche avviso, ancora all’ultimo momento… – non c’era niente! Allora, ormai sicuro che l’incontro del venerdì non aveva avuto cattive conseguenze, si avviò tranquillamente a casa Della Valle.

– C’è la contessa? – domandò al portinaio; ed era tanto sicuro di trovarla in casa, che si avviò diritto verso la scala, senza aspettare la risposta.

Ma invece il portinaio gli corse dietro gridando:

– Nossignore! Nossignore! non c’è nessuno!

– Come?… Non è in casa la contessa?

– Non c’è nessuno. – I padroni sono andati in campagna, a Santo Fiore.

– Per tutto il giorno?…

– Per due o tre mesi: non si sa quando ritorneranno. Il Vharè guardò fisso il portinaio e gli sembrò di scorgere sotto una cera umile e rispettosa un sorrisetto maligno.

– Va bene. – Giacomo prese dal portafoglio un biglietto da visita, lo piegò ad uno degli angoli e se ne andò con aria indifferente, senza dir altro. Ma, invece, egli era assai turbato, assai inquieto e addolorato. La notizia di quella partenza lo aveva messo tutto sossopra. Era accaduto certo qualche cosa di grave; Lalla, chissà, non avea nemmeno avuto il tempo di avvertirlo!

– Povera Lalla!… Povera Lalla!

Pensò di seguirla, di correre da lei, nascondendosi in qualche casetta dei dintorni; ma era un agire da pazzo e non da uomo: l’avrebbe perduta interamente, senza scopo; e vi rinunciò. Egli era sicuro che appena Lalla potesse farlo, gli avrebbe subito scritto, informandolo di tutto. Ma, invece, passarono due, tre, quattro giorni… e nessuna lettera, nessun avviso… niente. Aspettò ancora, sempre colla speranza, colla febbre: aspettò un’altra settimana… niente, niente. Allora cominciò a calmarsi e a ragionare.

– Com’è possibile che in tanto tempo, non abbia mai trovato il modo di potermi scrivere, almeno una parola?… Un servitore, un contadino, una persona qualunque si trova facilmente, e nei casi disperati si manda al diavolo anche la prudenza!

Aspettò ancora un altro poco, finchè un giorno vide, sul Corso, Giorgio Della Valle, proprio lui, – quel cane! – che andava per le botteghe a fare acquisti.

Giacomo pensò subito di avvicinarlo e di fermarlo: così almeno sarebbe uscito dall’incertezza.

Giorgio era un carattere troppo franco e sincero, per saper fingere, per saper simulare.

Il Vharè attraversò la strada col cuore sospeso, ma con piglio risoluto.

– Buon giorno, conte!

– Oh, buon giorno, marchese.

– Si possono aver notizie della contessa Della Valle?

– Sta benissimo, grazie.

– Vi pregherò di presentarle i miei omaggi.

– Grazie, marchese!

Giorgio era stato più amabile del solito col Vharè, e per poco non lo invitava a Santo Fiore!… Per Dio, il conte Della Valle, certo non aveva l’aria di far morire sua moglie, o di tenerla relegata nel fondo di una torre come un tiranno del Medio Evo!… Dunque? Che cosa pensare? Qualche cosa era accaduto, ad ogni modo, ma nulla di serio, nulla di grave. Dunque?… Era Lalla la leggera, la civetta, la perfida!… Era lei che si era messa a scappare alla prima scaramuccia!… Sicuro… Lalla non amava, non sapeva amare!… Innanzi al primo pericolo, il suo amore, così pieno di giuramenti e di promesse, svaniva a un tratto e tutto dimenticava, anche quell’uomo che soffriva per lei e che con una parola, con una sola parola ella avrebbe potuto illudere e consolare. No, non aveva cuore, come non aveva sangue: egli ne aveva sempre dubitato; adesso ne era sicuro.

Una sera, poco tempo dopo, egli seppe a teatro, dalla Calandrà, che la contessa Della Valle si divertiva in campagna, ch’era allegrissima, che vedeva molta gente e che spesso facevano gite a cavallo e combinavano cacce alla volpe, numerosissime. La Calandrà, non potendo riuscire ad ottenere le confidenze di Lalla, voleva tentare di avere quelle del marchese, e perciò gli parlò lungamente, con aria di mistero, della duchessina, promettendo a Giacomo che gli avrebbe fatto sapere quando sarebbe ritornata a Santo Fiore.

– Grazie, molte grazie!… – rispose il Vharè, senza mostrare di aver capita la generosa offerta della Calandrà. – La pregherò soltanto di ricordarmi particolarmente ai d’Eleda e ai Della Valle.

Quando il Vharè ritornò a casa e si chiuse nella sua camera, gli pareva di soffocare; aveva la gola secca e il cuore gonfio. Cominciò per svestirsi, ma poi d’un tratto, si buttò sopra una poltrona, ch’era a’ piedi del letto, piangendo come un ragazzo.

Ma con quelle poche lacrime sgorgò dal suo cuore tutto quanto vi era di gentile e di nobile; con quelle poche lacrime si consumò tutto il suo dolore, tutto il suo amore… ed egli non sentì più altro per la duchessina che dispetto e disprezzo.

– Sì, – borbottava, – ne convengo! mi hai giocato bene!… Sei stata più furba di me, e sei la sola che può vantarsi di avermi ingannato!… Ma chi avrebbe indovinata la tua perfidia sotto quell’apparenza timida e pudibonda? Ma… chi sa?… ride bene chi ride l’ultimo. Chi sa?… chi sa?…

A questo punto il marchese Giacomo di Vharè, che aveva finito di svestirsi, si cacciò nel letto, e poco dopo si addormentò profondamente.

XXV

A Santo Fiore, in questo frattempo, era successo un fatto molto importante: nientemeno che la signora Veronica e la bella Ottavia… erano rimaste incinte tutte e due, con grande contentezza e meraviglia del signor Domenico e del signor Niso, ai quali le rispettive consorti non avevano mai concesso un tanto onore.

Il nuovo segretario comunale, succeduto al povero Frascolini, morto da qualche mese, un giovinottino della città, tisicuzzo, giallo, biondo e un po’ gobbetto, ma ricco di cuore e d’un pince-nez, era riuscito a rappattumarle fra di loro, tanto che adesso, tutt’e due, la Minerva e la Venere del paese, facevano disegni in comune, pei loro nascituri, e volevano essere chiamate zia, l’una e l’altra, dal rispettivo bébé dell’amica. Era un divertimento per tutto Santo Fiore quando la brigatella andava insieme e d’accordo per istrada, a fare la passeggiata igienica del dopo pranzo. Camminavano adagio adagio; ma il gobbetto rimaneva in mezzo, quasi nascosto dalle donne e dall’Omnibus, gazzetta di Borghignano che egli teneva spiegata, leggendone ad alta voce l’appendice. La bella e maestosa Ottavia, dondolante, la pancia gravida che risaltava sotto un grembiule scarlatto, voleva far la bambina, la vergognosetta, e arrossiva, frignando, ad ogni scherzo che le veniva diretto. E a quelle allusioni, quando il signor Niso si trovava presente, arrossiva anche lui, per una contentezza fiera e modesta. La signora Veronica, invece, superba del suo stato, camminava colla testa alta, la faccia arcigna, lanciando certe occhiate che dardeggiavano e parevan dire a tutti quelli che incontrava: – Fate altrettanto, se ne siete capaci!…

Ma, tuttavia, questo duplice e fortunato avvenimento, non era la sola novità importante di Santo Fiore: c’era ben altro!…

Sandro Frascolini era ritornato al paese, appunto in que’ giorni, per raccogliere l’eredità paterna (una decina all’incirca di mille lire); e intanto, non volendo perdere il suo tempo, si dava attorno tentando di fondare il Circolo democratico degli Operai Agricoltori e cercava azionisti per un suo giornale politico di là da venire: L’Amico del Contadino. Il Frascolini, adesso, l’aveva a morte coi nobili e coi preti, ch’egli chiamava sepolcri imbiancati, poi prendeva spesso la sbornia, portava la cravatta rossa, il cappello alla Lobbia e usciva sempre con un nodoso bastone.

 

Egli aveva dovuto abbandonare il canto per la politica, dietro il consiglio di un classico pugno che aveva preso in un occhio, per amori e gelosie del dietro scena. Era però sempre un bel giovane, anche con un occhio solo; il vuoto lasciato da quell’altro, che se n’era ito, lo teneva nascosto con una benda di seta oscura. I crapuloni, gli oziosi e le birbe lo portavano in auge; ma aveva perduta la stima delle persone dabbene. Il signor Domenico, per esempio, il sindaco, gli aveva levato il saluto. Il medico e il veterinario lo schivavano, e il maresciallo dei carabinieri gli teneva gli occhi addosso. In quanto al signor Niso… Il signor Niso lo salutava sempre, ma poi se ne scusava, sospirando, colla moglie, che non voleva – vergogna! – e lo strapazzava per quella sua debolezza.

Invece don Vincenzo soffriva una gran paura del Frascolini, e quando usciva dalla canonica, faceva sbirciare dal nonzolo se lo scorgeva sulla piazza, e se c’era, sgattaiolava dalla porticina di dietro. Il Frascolini non lo insolentiva, e non lo minacciava: soltanto si levava il cappello, e inchinandosi profondamente gli gridava dietro ad alta voce: – Mi saluti la signora, reverendo!

La Veronica e l’Ottavia incontravano spesso il Frascolini nelle loro passeggiate, ma era tal e quale come se non lo avessero mai conosciuto. Tiravano via diritto, la Veronica guardandolo fiera, minacciosa, a testa alta, la Ottavia abbassando gli occhi, pudicamente, e stirandosi il gonfio grembiule colle mani. Quando poi erano passate innanzi, si scambiavano un’occhiata di sopra al piccolo segretario, il quale, alla vista dell’ex tenore, parea volesse nascondersi tutto dentro la gazzetta. In quanto al Frascolini, egli non ci badava, nemmeno per riderne! Si sentiva salito troppo in alto per occuparsi delle signore di Santo Fiore!

La duchessina, lo stesso primo giorno ch’era arrivata in villa, lo vide subito, fermo sulla piazza della Stazione; ma, sul momento, non lo aveva nemmeno riconosciuto. Gli fu indicato da miss Dill, la quale era andata incontro alla contessa Della Valle, componendosi sulle labbra una smorfia, un sorriso, col quale voleva esprimere tutto il suo giubilo; ma invece, in fondo al cuore, la miss era molto seccata pel ritorno della duchessina. Ormai ci avea preso troppo gusto a spadroneggiare a Santo Fiore e ad essere libera de’ fatti suoi.

A Lalla la vista del Frascolini non fece nessuna impressione; tant’e tanto, a lei non poteva far nulla di male!… La sua figura plebea, gli stessi ricordi dell’ultima scenata ch’egli le aveva fatta a Borghignano, tutti insomma i molti ricordi di quella scappatella sentimentale, s’erano via via dileguati dal suo animo, alla stessa guisa che i primi tepori d’un bel mattino d’autunno fanno dileguare dai cristalli della finestra i fantastici rabeschi, i fregi bizzarri che la nebbia e il freddo della notte vi avevano disegnati.

D’altra parte il Frascolini, per qualche giorno, non si lasciò vedere dalla duchessina; egli invece si ubbriacava più spesso, e le sue sfuriate contro le carogne aristocratiche si facevano più irose, più violente. Adesso aveva imparato a memoria lunghi brani dei Misteri del Popolo di Eugenio Sue, e spesso ripeteva le profetiche invettive dei figli di Gioele, il brenn della Tribù di Karnak, spacciandole come roba sua. Durante quelle sfuriate stringeva i pugni, si mordeva le dita, e schizzava foco dal suo occhio vivo, iniettato di sangue, con un’espressione di rancore, di odio, di ferocia, da non lasciare in lui nessuna traccia del buon Guglielmo (quello dei Due Sergenti) che tante lacrime aveva fatto spargere alle sensibili donnine di Santo Fiore. Ma, con tutto ciò, Sandro Frascolini non mostrava molto coraggio contro la casta esecrata: tutt’altro!… bastava ch’egli udisse, mentre stava predicando in piazza, la sonagliera dei due poney della contessa Della Valle, perchè fuggisse via, come un cane scottato!

Un giorno, per altro, rimase preso, lì, su due piedi, quando meno se l’aspettava. La contessa usciva dal palazzo a braccio di Giorgio per andare a salutar don Gregorio, e Sandro la vide passare vicina, tanto vicina, da udire ancora una volta il timbro della sua voce, tanto vicina, da vederla ancora una volta nella sua personcina vaga, sottile, tutta bianca e odorosa come un fiore, con quegli occhioni grandi e modesti…

Tutti s’inchinavano umili e riverenti; ella passava via leggera, tranquilla, simile alla visione di un sogno.

E dire ch’egli l’aveva stretta fra le sue braccia quella creatura superba che sembrava una regina!… e dire ch’egli l’aveva baciata in bocca, ch’egli le aveva cacciate le mani nei capelli, ch’egli avea confusa la sua propria colla voluttà di quella creatura vereconda… che sembrava una madonna!…

Quell’incontro di Lalla, inasprì la ferita sempre aperta. Sandro tentò di ubbriacarsi, prima col vino, poi co’ liquori; ma non ci riuscì. Rimaneva freddo, cupo, coll’immagine di Lalla fissa dinanzi agli occhi. Imprecava contro di lei, la malediva, la copriva d’insulti, ma Lalla gli sorrideva cogli occhi languidi, la bocca umida, socchiusa, dalla quale usciva l’alito caldo e profumato, che gli risollevava nel sangue il ricordo dei fremiti lunghi e voluttuosi di quel suo corpicciuolo morbido di sensitiva. Sparuto e taciturno, viveva solo, lasciando in pace, per il momento, tutti i figli di Gioele, il brenn della Tribù di Karnak. Sfuggiva gli amici, i soci, i camerati, e mancò più di una volta alle sedute del Circolo democratico degli Operai Agricoltori.

Lalla aveva l’abitudine di ritornare da Santo Fiore al Villino tutte le sere a piedi, dopo di aver preso il perdono in chiesa, con miss Dill e con don Vincenzo. La strada, larga e dritta, era tutta chiusa da folte siepi di pruno selvatico, rese più fitte dagli ontani che vi si spesseggiavano. Solo ad una metà circa del cammino, venendo dal paese, le siepi erano aperte da due passaggi, l’uno di contro all’altro, che mettevano nei campi.

Lungo quella strada non s’incontrava mai anima viva: una sera Lalla sentì camminare al di là delle siepe, ma non vi fe’ caso. La sera dopo, invece, avvicinandosi dove si apriva il passaggio, appoggiato ad uno de’ cancelli vide un uomo fermo, immobile, colle braccia incrociate sul petto. Lo indicò agli altri e lo riconobbero subito: era Sandro Frascolini, Si consultarono a bassa voce: tornare indietro non si poteva, dunque, per amore o per forza, bisognava tirare innanzi e passargli proprio sui piedi.

Lalla aveva una gran paura, il cuore le batteva fortemente, e colla coda dell’occhio guardò se il Frascolini si levava il cappello, perchè gli avrebbe fatto anche lei, di ricambio, un salutino gentile, tanto per non irritarlo maggiormente. Ma il Frascolini non si mosse.

A don Vincenzo tremavano le gambe, non fiatava. Il povero prete si faceva curvo, piccino, piccino, sperando, quasi, lui così grosso, di potersi nascondere dietro alla miss, che camminava impettita, dura come fosse di legno.

Gli passarono davanti adagio adagio, poi a mano a mano, senza accorgersene, affrettarono il passo sempre di più, e quando furono in vista del Villino si può dire che andavano di corsa, tutti e tre stretti insieme, senza mai voltarsi, senza mai parlare, colle sottane svolazzanti, innalzando mentalmente una preghiera al buon Dio in tre lingue diverse: in italiano, in inglese e in latino. Giunti a casa, al sicuro, miss Dill bevette subito un bicchierino di acqua di tutto cedro, ed ordinò al credenziere di sturare una bottiglia per don Vincenzo. Lalla non prese nulla; passato il pericolo, era passata anche la paura, e scherzava e rideva raccontando a Giorgio quanto le era accaduto, e metteva in burletta don Vincenzo e l’istitutrice. Ma disse al marito che le altre sere sarebbe andata a Santo Fiore in carrozza e che lui l’avrebbe dovuta accompagnare. Giorgio ne fu ben contento, quantunque in pericolo, in tutto ciò, non vedesse altro che le spalle del Frascolini.

Quando la duchessa Maria e il duca Prospero erano venuti in campagna, avevano condotto seco anche la Giulia che, in quegli ultimi giorni, aveva dovuto abbandonare i Della Valle per casa d’Eleda. Era stato Prospero Anatolio a consigliare ed a voler così, non trovando nè conveniente, nè divertente per la ragazza, quel dover correre dietro a far da comodino fra marito e moglie. Pier Luigi, senz’altro, aveva approvato ed accettato il cambiamento, ed era partito per Varese. – Sarebbe poi ritornato a Santo Fiore, sarebbe, a riprendere la pupilla, in ottobre, dopo le corse, dopo.

Le due famiglie, unite e d’accordo, vivevano sempre insieme. I Della Valle andavano a pranzo – dalla mamma – quasi ogni giorno e dopo, accompagnati dai d’Eleda, a piedi, avendo i medici consigliato alla duchessa qualche breve passeggiata, ritornavano al villino, dove passavano la sera giocando e facendo un po’ di musica.

In quelle piccole gite, Lalla dava il braccio a miss Dill. Fra la vecchia istitutrice e la contessa Della Valle era nata di fresco una grande intrinsichezza: la mattina andavano insieme alla messa di don Vincenzo (don Vincenzo la diceva apposta un po’ più tardi) e insieme combinavano molte altre divozioni. Miss Dill, aveva sempre qualche notizia, qualche pettegolezzo da riferire in segreto e fu lei che fece prendere una sgridata solenne alla Nena, raccontando alla contessa di averla veduta col Frascolini, poco lungi dalla villa.

Il duca Prospero, invece, dava il braccio alla Giulia e le confidava, sospirando, di essere un marito infelice: sua moglie, la Madonna di neve, non sapeva comprenderlo e tanto meno apprezzarlo. Maria e Giorgio venivano gli ultimi, un po’ discosti dagli altri, perchè Maria, più debole, si stancava più presto.

Dopo che Lalla aveva fatto capire alla mamma di essersi accorta della sua freddezza per Giorgio, Maria aveva creduto bene di mutare contegno e di mostrarsi col genero assai meno riservata. Ella temeva che quella bizzarra figliuola potesse sinistramente interpretare la rigidezza fino allora mantenuta ne’ suoi rapporti col conte Della Valle. Ne parlò prima, in proposito e lungamente, con don Gregorio, e il buon prete pure la persuase che, ormai, essa non aveva più nulla da temere, che ormai, tutte le prove più aspre erano state superate e che però poteva, anzi doveva espandere in una nuova tenerezza, tutta quella grande passione che l’aveva colpita, senza riuscire ad abbatterla.

– Non hai più nulla da temere… No… consolati… hai vinto! – diceva a Maria don Gregorio. – Per quanto possa essere grande la tua tenerezza, io ti conosco bene, tu lo amerai coll’affetto di una madre.

Maria, a quelle parole, chinava il capo e sospirava.

Sì, lo avrebbe amato come una madre; ma sentiva pure che nessun figliuolo al mondo sarebbe stato amato come Giorgio Della Valle!

Un’altra voce più intima, segreta, consigliava a Maria quel mutamento: una voce le diceva, consolandola, che molto ancora non le rimaneva da vivere; e Maria non voleva… aveva diritto di non lasciare una memoria che non fosse cara, un rimpianto che non fosse duraturo. Non era tutto per lei?… La sua consolazione, la sua felicità, il premio suo che sospirava, che domandava a Dio, per le angosce sofferte?

E in quelle indimenticabili passeggiate, era sempre Lalla il prediletto argomento d’ogni loro discorso. Giorgio confidava – alla mamma – tutto l’amore, tutta la passione che gli traboccava dall’anima e le confidava (a lei, a lei sola) premendole il braccio teneramente, – ch’egli sperava sempre… che il suo sogno dorato non era del tutto svanito… insomma… quella sua felicità così grande sarebbe stata compiuta soltanto da un bambino… un bambino della sua Lalla!…

Maria, pallidissima, ma col volto irradiato da un sorriso mesto e soave, riusciva, forse lacerandolo, ad aprire il suo cuore a quell’eloquenza dolce e appassionata!… E mentre Giorgio, lietissima di riacquistare così la sua buona sorella, ma dolente di averla in quegli anni tanto sconosciuta da non rifuggire dinanzi a un sospetto mostruoso, esprimeva con calda espansione la stima profonda che le professava. Maria, che non voleva desiderare di più, innalzava sospirando gli occhi al cielo, ancora scintillanti di lacrime. E anche Maria faceva voti, anch’essa, la povera martire, perchè il desiderio di Giorgio fosse esaudito. Del resto, quel bimbo (e maschio, s’intende) era un po’ il desiderio di tutta la famiglia; ma le speranze parevano diminuire con ogni giorno, anzi, con ogni mese che passava.

 

Anche Lalla n’era contrariata, e non voleva farlo capire. Ci teneva ad essere invidiata anche nella sua perfetta felicità, e perciò ripeteva a tutt’andare che l’aver figliuoli non era altro che una seccatura!… Ma poi… Pier Luigi ghignava, la Giulia sorrideva e il duca… povero duca! Egli era addolorato più di tutti!… Aveva ottenuto che il primogenito dei Della Valle avesse a portare riuniti i nomi delle due famiglie e chiamarsi Prospero Giorgio Maria Anatolio conte Della Valle e duca d’Eleda, ma… ma come per fare un arrosto di lepre occorre per lo meno la lepre, così per ottenere un futuro duca d’Eleda, occorreva… un contino Della Valle!…

Giorgio, dal canto suo, si guardava bene dal lasciar trasparire neppur l’ombra del dispiacere; e ciò, primieramente, perchè egli voleva troppo bene a sua moglie, e poi perchè, sua moglie aveva finito coll’imporsi in tutto e per tutto e coll’avere su di lui un grande predominio. Quasi quasi, certe volte, si sentiva intimidito, aveva un po’ di soggezione, specialmente a doverla contradire. Essa faceva tanto presto a montare in collera!… E le collere di Lalla, ad onta della sua dolce soavità, ad onta della sua compostezza tranquilla, erano sorde e ostinate. Non gridava, non faceva scene, ma non gli rivolgeva più la parola, e a qualunque cosa che egli le dicesse rispondeva con un – come vuoi – immutabile di espressione e di tono, mentre alle sue carezze essa si faceva di ghiaccio.

La più ostinata di quelle collere bianche – era Pier Luigi che le chiamava così – il Della Valle l’ebbe appunto da combattere nei primi giorni che erano arrivati a Santo Fiore. Appena Lalla fu persuasa che suo marito non aveva alcun sospetto fondato e che ormai la credeva più candida di un’innocente colombella, pensò subito a difendersi per l’avvenire e anche un pochino a vendicarsi, per lo spavento avuto. Giorgio tentò ogni mezzo per acquetarla: la dolcezza, le carezze, le preghiere, i rimproveri; – niente: non c’era verso di smuoverla! Lalla ci teneva troppo a far sì che quella lezioncina fosse ricordata ben bene, e quando cedette finalmente, e solo perchè cominciava ad essere seccata lei stessa della propria ostinazione, volle ancora stravincere, e ci riuscì.

– Ebbene, io dimenticherò e perdonerò – disse a Giorgio che la supplicava, – ma ad un patto.

– Quale?… tutto ciò che vuoi!…

– Devi essere sincero e rispondere sì o no, francamente, ad una mia domanda.

– Ti dirò tutto!

– Fu tuo zio, fu Pier Luigi, non è vero, quello che s’è presa la briga… – e Lalla sorrise con malizia birichina – quello che s’è preso il bel divertimento di aprirti gli occhi?

– Scusa, ma prima di rispondere bisognerebbe…

– O sì o no!…

– Ma…

– Sì o no?

Giorgio la guardò facendole capire ch’essa aveva indovinato, ma non volle dirlo apertamente.

– Lo sapevo, sai, oh lo sapevo!… Quello invece che non sai tu, è perchè il tuo caro zio mi odia.

– No, Lalla, non ti odia; anzi, ti vuol molto bene!

– Troppo… troppo bene!… – esclamò Lalla, diventando rossa, palpitante di vergogna e di collera. – Sai, Giorgio? ho dovuto difendermi a viva forza! Mi ha baciata a tradimento!… L’ho scacciato dalla mia stanza!… Per questo si vendica!

– Lui?… Pier Luigi?… Pier Luigi?! – esclamò Giorgio balzando in piedi.

– Sì!… Soltanto perchè era lui… Pier Luigi… perchè era tuo zio, ho taciuto… ho soffocato tutto dentro di me!… Ma quanto piangere, Giorgio! Piangevo sola, di nascosto, piangevo di vergogna, di collera, di ribrezzo!… Dio, Dio, che giorni, che notti orribili! Ma speravo di poter risparmiare, almeno a te, questo gran dolore! Invece ora… non posso più tacere; mi sento il dovere, ho il dovere di dirti tutto. Speravo che il modo col quale l’ho trattato potesse bastare; invece no; mi sono ingannata! Cattivo e perfido, quanto è brutto, ributtante! Approfittò della mia stessa bontà per farmi del male, per avvelenare il nostro amore! È un’infamia!… È infame! – E Lalla, tutta tremante per l’urto dei singhiozzi, finì scoppiando in un pianto dirotto.

Giorgio, pallido, smorto, non disse una parola. Oh, se Pier Luigi gli fosse capitato dinanzi in quel momento, egli lo avrebbe schiaffeggiato… ammazzato.

Ma poi non potè reggere a lungo: quel miserabile che aveva insidiato il suo onore, insidiata sua moglie, era il fratello di sua madre!… E si buttò sopra una poltrona coprendosi il volto con le mani.

Lalla cessò dal piangere, si strinse al petto di Giorgio e lo coprì di baci.

– Nino mio, Nino mio! La tua Lalla ti vuol tanto bene!…

Giorgio sospirò, scrollando il capo; Lalla, tenera, affettuosa, sedendosi sulle sue ginocchia, stringendolo colle belle braccia odorose, tornò a baciarlo, continuò a baciarlo, sussurrandogli parolette care e deliziose ch’erano altrettante carezze:

– Oh, Nino mio, tu sei stato ingiusto colla tua piccola Lalla e l’hai giudicata a torto; hai dubitato di lei, del suo affetto per te: l’hai sgridata, l’hai spaventata con una scena terribile; l’hai costretta a scappar via da Borghignano a precipizio, e tutto ciò per che cosa?… per chi?… Per un brutto cattivo!… Ma d’ora innanzi crederai sempre alla tua Lalla, vero?… alla tua Lalla che ti vuol tanto bene!…

– Sì.

– Crederai sempre a me?… E a nessun altro?…

– Sì!… Sì!… – rispose Giorgio vinto, consolato, innamorato; e Lalla, in compenso di una tale promessa, lo fece delirare con un furore di baci.

In quella commozione e in quel trasporto la duchessina era spontanea e sincera. – Povero Giorgio, tanto buono! – Era contentissima di non aver rimorsi e il Vharè non lo voleva più vedere, sentiva che non lo amava più. No, no; non voleva più saperne di sotterfugi: aveva avuto troppa paura. Sentiva ancora, come in quel malaugurato venerdì, i passi di Giorgio, quando si avvicinava al salottino: – Dio, Dio! Che angoscia!… che momento terribile…

Ma, dopo qualche giorno, ormai pienamente sicura di suo marito, ricominciarono le inquietudini per via del Vharè. – Come avrebbe egli accettata quella scomparsa improvvisa e, sopratutto, quel suo continuo silenzio?… – Lalla, appena a Santo Fiore, aveva pensato se gli doveva scrivere, tanto per calmarlo. – Ma, poi, per mandargli la lettera? – Di chi si sarebbe fidata? – Della Nena?… E se Giorgio l’avesse spiata e scoperta?… Allora… allora suo marito avrebbe avuto ragione di credere anche quello che non era, perchè lei, infine, non aveva rimorsi! – Non sarebbe stato prudente nemmeno il valersi, come al solito, dei libri. Giorgio, che non era uno stupido, avrebbe capito subito il contrabbando. – Era meglio lasciar correre l’acqua per la sua china… – e lasciò correre.

Per altro, passato molto tempo, quando fu sicura che il Vharè non pensava, nè avea mai pensato di correrle dietro, allora si sentì un po’ mortificata.

– Ma dunque?… non era innamorato come diceva?… Si rassegnava a perderla, e per sempre, senza ribellarsi, senza fiatare?… Oh, – allora, per ripicco, voleva mostrarsi indifferente anche lei!… – E per ciò, quando arrivarono le prime visite della Bertù e della Calandrà, la contessa Della Valle fu di buonissimo umore, raccontando che vedeva molta gente, che andava alla caccia, che andava a cavallo, insomma che si divertiva dalla mattina alla sera. E tutto ciò perchè il Vharè lo sapesse e fosse convinto che se lui si era subito confortato, anche lei non moriva di dolore!… In tal modo, senza che Lalla se ne fosse accorta, il bel marchese, uscitole dal cuore da una parte vi rientrava dall’altra; sempre, è vero, per stradette oscure e recondite chè, direttamente, lì dentro per la strada maestra, non vi entrava nessuno.

Cessati tutti i timori, quella rottura col Vharè le spiacque anche per un’altra ragione: Pier Luigi, la Bertù, la Calandrà, Gianni Rebaldi, tutti insomma i pettegoli maligni di Borghignano, avevano ragione di stare allegri; avevano ottenuto il loro scopo; quello, cioè, che il Vharè non le andasse più in casa, e non le facesse la corte.