Za darmo

Mater dolorosa

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Attorno a costoro, qualche avvocatino sentimentale e senza clienti, qualche piccolo vice-segretario di prefettura, qualche ufficialetto dilettante di musica, e i gran lions di Borghignano c’erano tutti.

Si può immaginare dal quadro il bel divertimento di Lalla!… Essa sentiva come un sollievo, come un’eco della vita elegante di Pegli e di Roma, abbandonandosi alla passioncella pel Vharè; e mentre aspettava ansiosamente il suo arrivo, aveva intanto scritto lei alla Giulia, quantunque al Vharè avesse lasciato credere il contrario, perchè venisse subito a tenerle compagnia a Borghignano. Lalla capiva già che il marchese Giacomo sarebbe stato molto più forte a Borghignano di quanto non lo fosse stato a Roma, e perciò aveva chiesto il ritorno della Giulia, nella quale ella avrebbe avuto un pretesto sempre pronto da adoperare all’occorrenza, una salvaguardia, una inconscia e potente alleata.

Poi, anche in casa, la vita di Lalla sarebbe stata troppo monotona senza il soccorso del brio e delle effervescenze della Giulia. L’amore profondo di Giorgio, tenero, rispettoso, era sempre uguale, senza burrasche, senza le seduzioni dell’ignoto e dell’impreveduto. Prospero Anatolio, che colla Giulia faceva l’amabile e l’accompagnava in carrozza al passeggio, con Lalla diventava serio, tanto per far credere che, in politica, lui aveva più peso di suo marito, e le riferiva, parola per parola, le interminabili discussioni del Consiglio Comunale, e i discorsoni ch’egli preparava e teneva in serbo per l’apertura del Senato. Maria, malaticcia, melanconica, aveva sempre pronto qualche buon consiglio od una qualche opportuna rimostranza. Discorreva a lungo colla figlia de’ suoi affetti, de’ suoi doveri e del suo avvenire; ma quanto era spontanea l’effusione di Maria, altrettanto Lalla l’ascoltava sommessa in apparenza, con un raccoglimento forzato che, il più delle volte, nascondeva a stento uno sbadiglio: uno sbadiglio leggero, che poteva anche passare per un sorriso. Così per tutto questo, il Vharè tornava carissimo a Lalla che otteneva da quell’idillio coll’avvenente marchese distrazioni nuove e piacevoli, che alleggerivano la noia delle lunghe giornate. In un modo o nell’altro, riuscivano a vedersi ed a parlarsi frequentemente. Giacomo in casa non le poteva fare più di due visite alla settimana, e soltanto, ma ben di rado, quando il conte Della Valle andava in campagna, oppure era in seduta al Consiglio Provinciale, ne arrischiava una terza. Adesso era Giorgio che domandava alla moglie se aveva avuta la visita del Vharè, e quando gli aveva detto di sì, egli s’imbronciava, ma senza fiatare, ciò che faceva sorridere e divertiva Lalla moltissimo.

Invece il marchese Giacomo si faceva assiduo in casa d’Eleda, dove incontrava Lalla senza destar sospetti e dove, accattivatosi Prospero, lusingandolo nella sua vanità d’uomo di Stato, vi era ricevuto benissimo. Poi, Lalla e Giacomo combinavano d’accordo visite e ritrovi presso qualche comune conoscente, e non si peritavano nemmeno di commettere l’imprudenza, che più tardi dovettero pagare ben cara, di fissar convegni per istrada, e di fare insieme un breve tratto di via. Una volta Giacomo si arrischiò di proporre all’amica una rapida volata nel suo piccolo quartierino – sicuro per ogni verso; – ma Lalla rispose subito che – quella cosa lì, non l’avrebbe mai fatta.

Oltre agli incontri, ai ritrovi, agli appuntamenti, c’era anche l’aiuto del teatro, quand’era aperto, del caffè nelle sere di musica, delle riunioni private, dei concerti; e tutto questo complicatissimo orario veniva combinato, diretto ed anche modificato all’occorrenza, da uno scambio, da un andirivieni continuo di libri che servivano pel solito sistema di corrispondenza che Lalla aveva già usato, la prima volta, col Frascolini, e che adesso aveva insegnato lei, l’innocentina, a quel suo don Giovanni, tanto vecchio del mestiere.

Di mandar lettere non si fidava, e diceva al Vharè, sovente, tanto per scusarsi: – quando mi metto allo scrittoio e comincio a scriverti, mi sento presa da una soggezione strana che mi turba, mi confonde, mi fa perdere le idee e le parole. Tu hai tanto ingegno! Tu sai tante cose, ed io, invece, non sono altro che una povera… ignorantina!

Certi rispetti al passato, il – pudore delle memorie – essa non lo sentiva affatto. Un giorno, rovistando a caso in uno scrignotto, le era corso fra le mani l’anellino di Sandro, e Lalla, anche un po’ per liberarsene lo affidò in deposito al Vharè, facendogli credere che lo aveva ricevuto in dono, per la sua prima comunione, dalla zia di Genova; la famosa marchesa vecchia e sorda.

L’ascetismo poetico, non solo durava vivo in quell’idillio sentimentale, ma cresceva sempre d’intensità. Adesso il Vharè era costretto a tenersi chiusa nel portafoglio una piccola medaglina benedetta; e tutte le volte che erano soli nel salotto, Lalla gli toglieva con una carezza il portafoglio di tasca, lo apriva, ne frugava i segreti, levava la medaglina, la baciava, e voleva, colle sue moine, che la baciasse anche lui, cosa che il Vharè non rifiutava di fare, dopo però di avere imposto a Lalla, ed ottenuto, qualche dolce compenso. Quindi, finite le divozioni, essa gli riponeva il portafoglio nella tasca dell’abito, e si fermava qualche momento colla mano sul petto di Giacomo, per sentirne i battiti del cuore. Un giorno ch’ella lesse in un libro di preghiere, tradotto dallo spagnuolo, un’Ave Maria in versi, inspirata e gentile, volle, ad ogni costo, che il Vharè l’imparasse a memoria: se lo fece inginocchiare dinanzi, sorridendo voluttuosa, le mani nei capelli di lui, che la teneva abbracciata per la vita e baciandogli la bocca, gli occhi, la fronte, gliela fece ripetere tante volte, finchè Giacomo la potè dire da solo.

Lalla s’era messa in mente d’essere come una specie di piccolo missionario, che sperava, riconducendo la pecorella smarrita al buon pastore, di scusare, e quasi di rendere meritorie le sue scappate. Si sa bene, se alle volte doveva pur sottomettersi e doveva cedere, concedendo qualche piccolo premio a quel peccatore così difficile da convertire, anche Domeneddio avrebbe dovuto chiudere un occhio e forse tutt’e due… per il trionfo della fede. Il fine giustifica i mezzi; tuttavia la duchessina non avrebbe sempre potuto cantar vittoria se anche la Provvidenza non l’avesse aiutata.

Erano diversi giorni che il Vharè si faceva vedere imbronciato. – Così non la può durare – borbottò con l’amica. – Sento, capisco, non mi volete bene. – Lalla protestava; si stringeva nelle spalle sospirando, gemendo, spremendo qualche lacrimetta dagli occhi bellissimi e… non si andava più in là.

Che fare?…

Il Vharè cominciava ad essere seccato, arrabbiato, nervoso:

– Era tempo di concludere, ormai, o di finirla.

Ma faceva i conti senza l’astuzia finissima di Lalla, ed insensibilmente le si era troppo legato per poterla lasciare.

Stavano così le cose, quando la Prefettessa di Borghignano, nell’occasione del proprio onomastico, offrì alle varie notabilità del Comune e della Provincia, una serata di gala.

A Borghignano, l’aristocrazia affettava di non intervenire ai ricevimenti pubblici del Prefetto, prima di tutto perchè il Prefetto rappresentava un Governo di sinistra, e i Lastafarda avevano riferito che anche a Milano la nobiltà, quella pura, non si lasciava vedere in simili riunioni, e poi perchè, naturalmente, vi era ammesso un po’ di tutto. L’aristocrazia di Borghignano era un’aristocrazia spiantata, che teneva molto al sangue e ai titoli, anche per il resto che se n’era ito, e con una invidia assaettata, odiava i nuovi ricchi, i quali, se avevano lasciati i blasoni al loro posto, s’erano impadroniti delle ville più grasse e dei palazzi più splendidi. Così

. . . . la rancida

Muffa Patricia

credeva di vendicarsi contro le sopraffazioni del denaro, sfoggiando un’alterigia altrettanto impertinente quanto ridicola. Dal Prefetto dunque i corpi santi, come si chiamavano le matrone meglio inquartate, non comparivano affatto; soltanto i loro mariti, per convenienza e per curiosità, vi facevano una fugace apparizione, tenendosi appartati e cuciti sempre insieme, alle falde, gli uni cogli altri, temendo quasi di perdersi in quel bailamme, silenziosi, duri, impettiti, come i congiurati nel Ballo in maschera. Lalla, figlia del senatore e moglie del deputato di Borghignano, non poteva rifiutare l’invito, e poi aveva troppo ingegno e troppo spirito per patire simili bizze; tuttavia non volendo correre il rischio di restar sola, condusse la Giulia con sè.

Questa paura era esagerata: per amore o per forza sarebbe intervenuta alla festa anche la moglie del generale Calandrà, una baronessa polacca, papista sfegatata e arciduchina in fondo all’anima; secca di corpo grulla di spirito e attempatuccia; rigonfia, a chiacchiere, di principî e di morale; in pratica, spavento e arpia dei giovani ufficiali d’ordinanza di suo marito, che li voleva scegliere sempre lei, che li voleva sempre scapoli, assoggettandoli a servizi straordinari, non contemplati dai regolamenti. Poi non avrebbe nemmeno potuto mancare ad una festa data dal Prefetto la moglie del Presidente del Tribunale, una piemontesona coll’erre, che nasceva dai Bertù di Saint-Florin de la Baltea, sciocca, linfatica, schifiltosa e pettegola, che girava attorno con un’aria balorda, che parea dire a quel volgo in guanti bianchi: – tireve-’n là, i veui pa spörcheme. – Maria no: Maria non si lasciò vedere nonostante le sollecitazioni di Prospero, il quale voleva diventar popolare per le solite elezioni del quinto dei consiglieri comunali. La duchessa d’Eleda non aveva lena di muoversi, di affaticarsi. Tutte le sere le veniva la febbre, e perciò era sempre più debole e più sofferente.

– Sarò stasera al ballo del Prefetto, – diceva Le journal d’une femme, del Feuillet, mandato da Lalla a Giacomo. – Non so se vi potrò venire, – rispose la Conquête de Plassans, rimandata dal marchese alla duchessina. Il Vharè, certo, non voleva mancare alla festa, ma rispose così per mostrarsi in collera.

 

L’appartamento del Prefetto, illuminato a spese della Provincia, lasciava molto a desiderare in fatto di buon gusto: le sale parevano quelle di un albergo, riempite, per l’occasione, col mobilio di tutta la casa. Le stoffe dei canapè e delle seggiole erano differenti di tessuto e di colore, forse in omaggio ai vari partiti politici che vi erano ospitati. Povero l’apparecchio, i servitori portavano i baffi e si vedevano rinfagottati nelle livree stinte coi bottoni lustri. Anche le signore, meno poche eccezioni, erano di una bellezza e di una eleganza da far innamorare un pittore di pappagalli. Alcune, fra le altre, mogli rispettabili di qualche consigliere comunale o provinciale, o di qualche regio impiegato, s’erano messe intorno, per fare del lusso, tutto il guardaroba, e il tesoro di famiglia, dalle buccole di corallo al bel medaglione di lava del Vesuvio. Andavano guernite con nastri a mille colori, che sulle tuniche chiare, di seta greggia, o di grenadine celeste, stonavano maledettamente, come il pianoforte della sala da ballo, anche quello di proprietà della Provincia. Di tanto in tanto si vedevano dondolare braccia nude, secche e nere, che ricordavano le lingue affumicate; ma la maggioranza era rappresentata dalle donne grasse, rigonfie, colle spalle nude picchiettate da rosse bollicine che la cipria non riusciva a nascondere, e con quel tutt’insieme di poco pulito, esalante un odore di sudaticcio, che si potrebbe dire il profumo della fedeltà coniugale, perchè, si sa, la donna, in generale, non si trascura… se ha degli amanti.

Lalla, la Giulia, la Bertù e la generalessa, corteggiate da Gianni Rebaldi, da qualche ufficiale di cavalleria e da due o tre piccoli segretari di Prefettura, formavano un circolo a parte.

Lalla, nascondendo le risatine, dietro il ventaglio, si divertiva a mettere la gente in caricatura, e la Bertù arricciava all’aria il naso aquilino, sempre malcontenta di tutto e di tutti e toglieva addirittura il respiro colle sue interrogazioni inconcludenti e scipite. Parlava senza mai una battuta di pausa, come il tè-tè-tè-tè monotono e stonato di una trombetta di legno. E voleva sapere se quella signora vestita di verde era ricca, se quell’altra coll’abito giallo aveva figliuoli, se questa in lilla andava d’accordo con suo marito; domandava il nome e l’indirizzo e i prezzi delle sarte, delle modiste, e discuteva sulle vesti, sulle acconciature e sui buoni costumi, con un calore, che avrebbe fatto ridere, se però avesse seccato meno. La sua vittima principale era la Giulia, che le rispondeva distratta, essendo occupatissima nel tener vive, ad un tempo, le speranze di quattro innamorati.

Il conte Della Valle discorreva di politica col Prefetto e d’amministrazione col Presidente dei Luoghi Pii, mentre Prospero Anatolio dava il braccio, accompagnandola in giro per le sale, alla moglie di un celebre avvocato ultra democratico ch’era il leader dell’opposizione municipale. E quando il duca passava con quel carico vicino a Lalla e alla Giulia, evitava di guardarle.

Oh! parlava spedito, quella sera, Prospero Anatolio: l’avvocatessa non poteva esercitare su di lui i fascini occulti che gli legavano la lingua! Era un donnone colossale, colle spalle e colle braccia rosse e rigonfie. In capo aveva un’acconciatura di penne bianche e di fiori finti, con le fogliuzze d’oro; vestiva un abito di seta chiara, a strie verdognole, guernito con bottoni d’acciaio brillantato. Al collo portava una collana di perle false, nelle orecchie smeraldi di Murano, in mezzo al petto, enorme e sformato, uno spillone di filagrana, con una miniatura rappresentante la Piazzetta di S. Marco e la laguna. Aveva la bocca grande, il labbro superiore ornato da due baffetti da matricolino, i denti guasti e il naso a ballotta. Per farsi bionda, essendo rossa di capelli, s’era coperta di cipria e ne aveva sul collo, nelle orecchie, sulle braccia, tanto da infarinare la giubba di Prospero Anatolio, che non poteva a meno di sentire una certa ripugnanza scorgendo un cordoncino annerito dal sudore e dall’uso, il cordoncino del corsè, che usciva fuori, di dietro, sulle spalle, fra il candido fisciù dell’ampia scollatura, rivelatore indiscreto di certi misteri che non destavano curiosità. Portava i guanti bianchi, ad un bottone solo; le braccia erano coperte da braccialetti d’oro, di tartaruga, di corallo e di venturina. Camminando, la fiera avvocatessa, faceva il passo dell’angelo, sventolandosi con un ventaglio di struzzo, che perdeva le piume, appeso ad una catenella di nickel legata attorno alla vita, e dimenandosi tronfia, per essere al fianco del duca d’Eleda, pur non ascoltando altro che distrattamente tutto ciò che Prospero Anatolio le diceva d’amabile, occupatissima com’era ad osservare se quelle altre la vedevano così accoppiata, e se la vedevano tutte, e se, finalmente, crepavano di rabbia!…

Tuttavia, la signora aveva una punta di amarezza, in mezzo alla sua piena felicità: sapeva di non dover quel trionfo ai propri meriti personali, ma invece… a suo marito!… Era costui un omiciattolo scarno, gobbo e irrequieto, insaccato nella giubba logora e con un dito sempre nel naso, forse per impedire alle idee di scappar fuori da quella parte. Permaloso e aggressivo nella vita pubblica, era docile assai con la moglie, la quale, per vanità, volendo sfoggiare in pubblico il suo predominio su quel piccolo Robespierrino, si godeva a mortificarlo con spostature e rispostacce che impacciavano abbastanza il duca d’Eleda, non abituato a quelle beghe, ma che poi anche lo vendicavano di quello sgorbio addottrinato, del quale aveva dovuto inghiottire più di una volta, nelle sedute del Consiglio Comunale, le demagogiche requisitorie.

Il marchese di Vharè entrò l’ultimo: la festa era già cominciata da un pezzo. Con un’aria di noia e di sonnolenza altrettanto di buon genere, quanto era poco lusinghiera per la riunione, egli si guardò attorno stringendo le palpebre in cerca della padrona di casa, e quando l’ebbe veduta in un angolo, in fondo della sala, si avviò diritto verso di lei e le strinse la mano con dimestichezza, sorridendo appena, a fior di labbra, in un modo che voleva dire: – Capisco che vi dovete seccare assai e vi compiango sinceramente. – Poi passò vicino al Prefetto e gli fece un saluto distratto, con un cenno del capo, come se già lo avesse veduto poco prima; quindi si fermò un momento, cercando intorno cogli occhi e, alla fine, quando ebbe scoperto le quattro signore appartate, mosse adagio verso il gruppo, stringendosi coi gomiti per non urtare la folla e strisciando leggero co’ piedi, per evitare gli strascichi. Giunto dinanzi all’eletto circolo s’inchinò tre volte, in tre tempi e, sempre senza dire una parola, senza curarsi particolarmente di Lalla, si adagiò, stirandosi, sopra uno sgabello vicino alla Giulia, le tolse il ventaglio e cominciò a farsi vento, scompigliando l’esercito timido dei piccoli adoratori e facendo subito allontanare Gianni Rebaldi, che passò vicino alla Bertù.

La Saint-Florin de la Baltea si scagliò su Rebaldi. té-té-té-té, per conoscere gli anni, le rendite e il casato del marchese Giacomo.

Gianni Rebaldi che lo odiava per invidia, quantunque ci mettesse molta buona volontà, non riuscì a calunniarlo altro che a proposito degli anni; ma il naso della Bertù ch’era rimasto indifferente all’enumerazione dei debiti del Vharè fatta con l’accanimento di chi non paga i propri, si arricciò quando sentì dire che quel marchesato non era autentico e si contorse scandalizzata al racconto delle audacie galanti del marchese, perchè la signora Bertù di Saint-Florin de la Baltea era assai schifiltosa in fatto di morale.

La contessina Giulia era bellissima quella sera, e il Vharè si godeva a farla ridere, per vedere i dentini bianchi apparire fra le labbra umide e rosse. Lalla, un po’ mortificata, osava appena di rivolgere, colla sua voce più morbida, qualche paroletta a Giacomo, che le rispondeva distratto, mostrandosi solo occupato della sua bella vicina. Intanto colla Prefettessa, che passava e ripassava strizzando l’occhio, facendo frequenti e rapide corse in quella piccola riunione, prendendo viva parte ad ogni discorso che vi si faceva, mostrando chiaro come col cuore fosse tutta lì in mezzo, quantunque i pesi della rappresentanza la obbligassero altrove, si stava combinando un carrè, per i primi lancieri; un carrè a parte, fra loro sole, composto dalla Bertù, dalla Calandrà, dalla Giulia e da Lalla. A poco a poco anche il Prefetto, il Generale, il conte Della Valle e Prospero Anatolio, che con bella maniera aveva deposto il carico avariato, si accostarono al circolo, e allora, trovandosi tutt’insieme, come in famiglia, respirarono più liberamente, cominciarono a ridere ed a scherzare.

Giulia si alzò la prima, perchè si sentiva sete; il Vharè le offrì il braccio e la condusse al buffet. Là s’intrattennero più del necessario, discorrendo fra di loro soli, pianino; Giulia, coll’intenzione di far risolvere, mediante lo stimolo della gelosia, l’uno o l’altro dei suoi timidi pretendenti; Giacomo, recitando apposta quella commediola perchè la Della Valle ne dovesse soffrire, e siccome egli sapeva bene la sua parte, il gioco gli riusciva pienamente. Infatti furono presto raggiunti dalla duchessina e da Prospero Anatolio che, anche lui senza parere, non perdeva mai di vista la Giulia, come fa un vecchio avaro col suo tesoro. Lalla era nervosa e non si sentiva più tanto sicura, tanto padrona di sè. L’ultima volta che s’era trovata col Vharè c’era stato un po’ di burrasca: Giorgio, proprio all’indomani della festa del Prefetto, doveva andare in campagna, e il Vharè, avendolo saputo, voleva un appuntamento; ma Lalla era stata risoluta a non volerlo concedere, e da ciò la collera e i dispetti…

Dall’altra sala, frattanto, giungeva allegra la musica del valzer e il frastuono vivace, animato delle varie voci confuse col fruscìo delle vesti. Giacomo fece un cenno alla contessina Giulia, inchinandosi sorridendo: la fanciulla rispose accettando l’invito, gli si appoggiò mollemente con una mano sulla spalla, e tutti e due, stretti insieme, sparirono, travolti come da un’onda, in quel turbine di colori e di luce, per ritornare poco dopo, Giulia al braccio del Vharè, col volto acceso, il seno palpitante, spirando dal languido atteggiamento di tutta la persona l’ebbrezza goduta in quella volata rapida e voluttuosa.

Il duca Prospero non volle più saperne di simili corteggiamenti: appena la vide, le mosse incontro, la prese lui con bel garbo sotto il braccio e la ricondusse a sedere accanto alla Bertù. Lalla e il Vharè rimasero così faccia a faccia, e come fossero soli, perchè in mezzo a gente che non conoscevano e che non dava loro nessuna noia: tuttavia un po’ impacciati, per trovarsi giunti al momento desiderato e aspettato con tanta ansietà.

– Cattivo!… – balbettò Lalla con un filo di voce. Giacomo la guardò fissamente, senza parlare.

La musica del valzer era finita, e adesso l’instancabile maestro cominciava sul pianoforte i primi accordi che preludiano i lancieri, mentre le coppie si univano, si avviavano chiacchierando al loro posto.

– Li ha già impegnati questi lanciers, signora contessa? – domandò Giacomo finalmente, con un leggero tremito nella voce.

Lalla alzò i grandi occhi sopra di lui con due lacrimone belle che li rendevano ancor più dolci e insinuanti.

– Sì… con te!

Giacomo le offrì il braccio, e lei, nel passar di sotto colla mano, trovò il destro di pungerlo forte, fin nelle carni, colle sue unghiette di madreperla, così bene affilate. Il Vharè impallidì, poi sorrise, premendo col suo braccio il braccio nudo della duchessina.

La pace era fatta.

Le coppie della Calandrà, della Bertù, della Giulia si erano già messe di fronte: Lalla col suo bel cavaliere venne a compire il carrè, ma quel carrè non fu certo un modello di ordine, nè di compostezza: Gianni Rebaldi, che non ballava, si divertiva a fare lo spiritoso, a cacciarsi in mezzo alle coppie, così grosso e bracalone, durante i traversez e i retraversez, a imbrogliare un demi-ronde o un tour de mains, a dare indicazioni sbagliate colla voce fessa e uggiosa, ridendo sgangheratamente quando riusciva a confondere tutta la figura.

Le signore, tranne la Bertù che girava attorno severa, composta, colla maestà ch’era fusa nel sangue dei Saint-Florin, secondavano il chiasso animatamente, dando la beffa a Gianni Rebaldi e percuotendolo leggermente coi ventagli e chiamando la Prefettessa perchè gli comandasse di smettere, di stare zitto, di andar via; e tutto ciò accresceva il disordine, la confusione, il brio schietto e disinvolto che tutti gli altri carrés, i quali compivano il dos-à-dos, la visite, la promenade e la reverence, taciti, composti, senza mai confondersi nelle figure, osservavano, invidiavano e disapprovavano scandalizzati.

 

Lalla aveva perduta ogni prudenza: parlava troppo, e sempre a bassa voce, col Vharè. Negli intervalli gli si appoggiava al braccio con languido abbandono e, quasi sempre, distratti tutti e due, erano chiamati all’ordine dalle altre coppie. Quando, per le combinazioni delle varie figure, Lalla doveva dare il braccio ad un altro cavaliere, continuava a fare segni e a rivolgere a Giacomo occhiatine e parolette che sottintendevano discorsi interi, mentre Giorgio, che non la perdeva di vista, si faceva, a mano a mano, più serio e imbronciato.

Il frastuono, la vivacità, il calore crescevano sempre: Gianni Rebaldi era riuscito nel più bello d’un chassez croisez ad allontanare dalla sua dama un ballerino poco esperto e a mettersi lui al suo posto. Lalla, che di solito nel tour de mains e nella chaîne offriva due dita sole al cavalieri, adesso invece, quando incontrava la mano del Vharè la stringeva fortemente, segandola colle unghiette che si sentivano bene anche sotto i guanti. La confusione raggiunse il colmo alla chaîne finale. Chi passava da una parte e chi dall’altra, incrociandosi rapidamente, vorticosamente, ridendo e vociando, sfogandosi in un’allegria obliosa, espansiva, correndo e saltellando, fermandosi ad ogni tratto per salutarsi, per inchinarsi e poi per ritornare a correre e a girare attorno, storditi e anelanti. Era una vertigine di colori, di spalle nude, di capelli biondi e neri, di faccie pallide, di occhi scintillanti; un disordine ed un eccitamento nuovo dei sensi istigati e irritati dal continuo stringersi delle mani, dal premere delle braccia, dallo strisciar dei fianchi e delle vesti, mentre le orecchie rimanevano intronate da quella musica del cembalo chiara, pettegola, che ripeteva insistente il monotono ritornello dei lancieri, affrettandolo nelle ultime battute con una vibrazione più calda e più animata.

La Bertù era già uscita dal carrè prima che il ballo finisse; Gianni Rebaldi, rosso invasato, il colletto della camicia molle di sudore, dondolante, sventolandosi col fazzoletto, facendosi becero per la smania di sembrar disinvolto, finì collo sdraiarsi, sghignazzando, sopra una lunga poltrona vicino al buffet, dove ingoiò mezzo pasticcio con una bottiglia di Marsala.

Lalla, accesa in volto, il respiro ansante e gli occhi che le sfavillavano, come se quei tepidi lancieri avessero sollevate per lei le complici ebbrezze del valzer, si appoggiava colla piccola personcina, tutta rorida e fremente, al braccio di Giacomo, che doveva ricondurla nel solito cantuccio dell’altra sala, fra la contessina Giulia, la Generalessa e la Bertù.

– Dunque?… Domani?… le chiese il Vharè, sottovoce.

Lalla lo guardò appena, timida, amorosa, poi palpitando più forte e premendogli il braccio con le dita della mano, ch’ella vi aveva appoggiata, chinò il capo senza rispondere.

– Alle due? – insistè l’altro.

La duchessina non lo guardò, ma rispose un sì lento, quasi inintelligibile, che corse con un brivido per le vene di Giacomo.

Quando il Vharè l’ebbe accompagnata al suo posto, s’inchinò salutandola; girellò qua e là per la sala, discorrendo coll’uno o coll’altro del più e del meno, ma presto sparì dalla festa. Il suo scopo, ormai, era stato raggiunto.

– Avevi da parlare di cose molto importanti, col signor Vharè? – domandò Giorgio alla moglie, mentre si spogliavano per andare a letto.

– M’è venuta una buona idea; voglio persuaderlo a sposare Giulia.

– È un’idea pazza!… Uno spiantato pieno di debiti e di vizi!… Non incaricartene affatto, e ricordati: meno colui ti verrà fra i piedi, più ne sarò contento.

Quel tono aspro e freddo, quella severità del marito, mentre Lalla era così piena di dolci ricordi della serata, la irritò, le sembrò cosa cattiva, ingiusta, e Giacomo le diventò, per il contrasto, ancor più piacente e più caro. Essa rispose a Giorgio con altrettanta durezza ed ironia:

– Senti, caro: io non posso, nè voglio fare degli sgarbi a chi è sempre stato amico della mia famiglia, a chi è sempre stato molto gentile con me, senza mai mancarmi nè di riguardo nè di rispetto. Se tu vuoi metterlo alla porta, buon padrone; ma tocca a te: sei tu… l’uomo forte.

Non era il primo caso, codesto, nel quale Lalla si mostrasse adirata; ma le altre volte Giorgio smetteva subito la bizza e le domandava perdono, accarezzandola. Invece, quella notte, tacque imbronciato; e mentre Lalla, svestita e inginocchiata dall’altra parte del letto, diceva le sue orazioni, Giorgio, coricato, cominciò a leggere il Diritto. Lalla fini di pregare, si segnò, baciò l’amuleto che teneva appeso sul capezzale, e leggiera, svelta si tuffò sotto le lenzuola. Giorgio continuò imperturbabile a leggere il Diritto. Quella resistenza era affatto nuova e Lalla ne rimase un pochino impressionata. Ma Giorgio non leggeva: meditava, assorto col pensiero nel Vharè e nelle parole di sua moglie. Certo, da molti anni colui era l’amico della famiglia d’Eleda… l’amico di Maria. Il dubbio, persino, gli ripugnava, ma… Ma pure, vedeva ancora Maria e Giacomo come in quella triste mattina, così per tempo, a cavallo, soli soli, sul Poggio dei Platani… Giorgio continuò per un pezzo a fantasticare, ma poi finì, secondo il solito, persuadendosi di essere un pazzo… – Sì, sì; un pazzo!… Dubitare di Maria?

– Se non era altro che una statua di ghiaccio!… Se non aveva cuore per nessuno!… Che!… avrebbe giocata la vita, sull’onestà, classica, di quella donna!

Poi, dopo un momento, tornava a pensare: – Discorrevano della Giulia. Certo, certo; se il Vharè avesse intenzione di fare la corte a Lalla, Lalla stessa, che mi conta tutto, me lo avrebbe già detto. Metterlo alla porta?… Si fa presto a dirlo, ma… come si fa? E le chiacchiere? I commenti? E poi, comprometterei il mio onore e l’onore di mia moglie, senza una ragione! Del resto ho un bel mostrarmi freddo, inurbano con quello sfacciato: o non capisce, o non vuol capire!… Eh, se ci fosse qualche cosa!… per Dio!… lo ammazzerei!… Povera Lalla; tanto buona… ed io tanto sospettoso!… Ma non è di te che dubito, no, angelo mio, è della perfidia, della cattiveria altrui!… Se potessi portarmela via, lontana da tutti, sola… con me… – Così pensando, si voltò verso la moglie, per vederla dormire; Lalla riposava tranquilla, come una bimba, i bei capelli disciolti, le braccia incrociate sul petto, la bocca socchiusa e ridente. Egli la guardò a lungo, con una tenerezza profonda, appassionata, e allora tutti i suoi cattivi pensieri svanirono come per incanto. Non volle destarla, ma lievemente, trattenendo il respiro, depose un bacio su quella bocca fragrante come un fiore… ritornò a guardarla… a guardarla… poi, sospirò, spense il lume e si rannicchiò per dormire. Ma appena il lume fu spento, Lalla aprì lei gli occhi e senza muoversi, senza farsi sentire, sorrise con una contentezza birichina: suo marito era sempre lo stesso innamorato!