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Mater dolorosa

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XXII

Nemmeno nei primi mesi della luna di miele la contessina Lalla perdette il suo tempo: no, no; anzi, quando Giorgio si abbandonava accanto a lei inebriato e inebetito, colle pupille stanche, ella apriva i suoi grandi occhioni, e attentamente studiava il marito per imparare il modo di guidarlo e di dominarlo. E già poteva chiamarsi contenta: c’era riuscita proprio bene. Quell’uomo, in apparenza tanto forte, non isfuggiva alle sue manine bianche e delicate. Con un sorriso o con una lacrima, con una preghiera o con un po’ di malumore, coll’arte di saper concedere a tempo, e a tempo di saper negare, Lalla lo teneva legato alla propria volontà, con fili invisibili, ma tenaci.

Una volta, fu la prima ed anche l’ultima, egli tentò ribellarsi al giogo adorato, negandole risolutamente di accompagnarla alla messa. Lalla pregò, supplicò, pianse, tutto inutilmente. Vi andò sola, ma colle ciglia aggrottate, e ritornata a casa si serrò a chiave in camera sua. Giorgio ebbe un bel fare: quell’uscio gli rimaneva chiuso in faccia ostinatamente. Venne la sera, la notte, ma sua moglie, quantunque avesse paura a dormir sola, fu inesorabile, e l’indomani soltanto, quando il marito tornò pentito di chiesa, essa gli riaperse l’uscio e le braccia.

Dopo d’allora Giorgio cominciò a transigere con lei; e, si sa bene, le transazioni sono come le ciliege: la prima si tira dietro le altre.

Perchè doveva egli turbare la fede di sua moglie?… Appunto, se egli non credeva alla messa, poteva benissimo accompagnarla, come l’avrebbe accompagnata in qualunque altro luogo. Così, perchè non avrebbe mangiato di magro il venerdì ed il sabato?… O che?… il pesce non gli era sempre piaciuto?… Già, una donna libera pensatrice non l’avrebbe sposata, e nemmeno una dottoressa repubblicana; dunque doveva bene lasciarla fare e pensare a suo modo; e Giorgio intanto non si accorgeva che invece cominciava lui a fare e a pensare come voleva la moglie.

Del resto era una pietà piuttosto strana, quella di Lalla; essa credeva ciecamente in un Dio di manica larga, che perdona sempre, e si accomoda facilmente, e col guadagnare l’empio consorte alla fede non aveva dubbio di accaparrarsi l’indulgenza per il passato… e per l’avvenire. E il Della Valle di tutto questo non capiva nulla; e mentre sarebbe corso ad una nuova Mentana, se un’altra volta ci fosse stato da sciogliere col fucile la questione religiosa, chinava la fronte e le ginocchia dinanzi all’elegante clericalismo della bionda duchessina che lo aveva innamorato. Il conte Della Valle, che per il trionfo dei suoi principî avrebbe speso la vita, li sacrificava adesso ad uno ad uno, sotto l’arcana influenza delle carezze di Lalla.

Questa sua influenza per altro, essa non la esercitava soltanto in pro della Chiesa e delle istituzioni. La carità comincia da noi, dice il proverbio, e così faceva Lalla. Per esempio, volendo assicurarsi da ogni possibile birbonata che il Frascolini le volesse giocare, Lalla, a prevenire il pericolo, aveva raccontata e fatta credere a suo marito una storiella tutta d’invenzione, nella quale dipingeva Sandro come un matto, un farabutto che, perduta la testa, si era innamorato di lei, che s’era messo a guardarla sfacciatamente, a perseguitarla, seguendola ad ogni passo, finchè un giorno le scrisse anche una lettera. E siccome lei gliela fece restituire dal vecchio Ambrogio, senza neppure averla letta, s’intende, e con un solenne rabbuffo per giunta, lui la minacciò che, un dì o l’altro, quell’azione gliela avrebbe fatta scontare e… e il povero Ambrogio nella sua qualità di morto, naturalmente era obbligato a tacere!

A Roma, dove da tempo avevano stabilito di passare l’inverno, la contessa Della Valle spiccò non poco per la sua grazietta attraente, pei grandi occhi vellutati, per lo spirito fine, per la bella personcina sottile e flessuosa, per il sorriso a volte timido e modesto, a volte birichino, e per il tutt’insieme nobile e signorile. Anche a Roma continuarono a chiamarla la duchessina, ed era attorniata da uno sciame di adoratori che la corteggiavano con molta insistenza. Giorgio, da principio, era gelosissimo; ma Lalla, in poco tempo, seppe ridurlo alla ragione. Quando ritornavano da qualche festa, e liberati dalla presenza della cameriera, rimanevano soli, Lalla, mezzo spogliata, si sedeva sulle ginocchia del marito, che fumando l’ultima sigaretta sdraiato in una poltrona, si godeva a contemplarla. E lì fra carezze e baci e mille moine da gattina, essa circondandogli il collo colle braccia nude, che gli faceva ammirare e baciare, fissando sempre lei il numero dei baci, confidava al marito tutte le dichiarazioni ricevute durante la serata. Allora con quella monelleria tanto garbata e briosa, Lalla faceva la caricatura di tutti i suoi eleganti innamorati, mettendo in burletta il languore dell’uno e il fuoco dell’altro, imitandone il gesto, l’espressione, l’accento. Giorgio era contento e beato, perchè così acquistava la convinzione che quella cara e innocente bambina gli avrebbe contato sempre tutto, in ogni occasione e, in tal modo, senza una sorveglianza importuna, avrebbe potuto prevenire i pericoli; e Lalla era pure soddisfatta vedendo che il giuoco le riusciva bene.

Per ciò, e in breve tempo, ella si trovò affatto libera di andare, venire, stare e ricevere chi meglio le accomodava.

Una volta sola il Della Valle mise innanzi un bel no; ma fece fiasco. Il fatto successe nell’occasione che fu presentato alla duchessina il marchese di Vharè.

– Ti prego, Lalla, di non invitarlo in casa nostra… mi è antipatico; e poi… compromette tutte le donne!…

– Come fare?… è tanto amico della mamma!

Giorgio arrossì, Lalla se ne accorse, e il dialogo fu interrotto; ma poi, qualche giorno dopo, il Della Valle vide entrare il Vharè da sua moglie. Lalla lo assicurò di non averlo invitato; era vero, ma aveva fatto intendere al marchese ch’ella stava in casa tutti i mercoledì dalle due alle cinque, di giorno, e che il sabato riceveva alle dieci di sera.

Il Vharè, per Lalla, non era mai stato indifferente: perchè? chi sa!… Forse fra quelle due nature dal sangue guasto, esisteva una corrente simpatica: certo è poi che la fama di scapestrato, di Don Giovanni adorato dalle donne e temuto dagli uomini, fama ch’egli non s’era scroccata, costringeva Lalla ad ammirarlo. Anche gli scandali eleganti, sollevati dai suoi amori colla diva Soleil, riconfermata per quel carnevale da un impresario di Roma, eccitavano continuamente la sua attenzione e la sua curiosità.

Giacomo di Vharè aveva passato i quarant’anni, ma restava tuttavia un uomo piacente. Alto della persona; pallido, coi baffi biondi e i capelli brizzolati, che appena sulle tempie cominciavano a farsi radi. Aveva una coltura varia, facile, alla portata di tutti, e perciò da tutti ammirata, ch’egli aveva saputo acquistarsi coi suoi viaggi e con una memoria straordinaria. Riteneva subito, e per lungo tempo, tutto ciò che gli capitava di leggere nei giornali e nelle riviste. Parlava bene, parlava molto, e aveva uno spirito pronto, paradossale. Conosceva poi la gente più in voga di tutto il mondo, da Sarah Bernhardt al padre Curci, e la conosceva davvero, perchè di esagerazioni era schivo, massime quando parlava di sè. Non citava mai i suoi duelli, non alludeva mai alle sue fortune amorose, non nascondeva i suoi debiti e ci teneva molto al marchesato, quantunque non fosse di buona lega. Scettico ma freddamente cortese, aveva quell’aria indefinibile di padrone del mondo e di grand’uomo andato a male, che si fa ammirare dagli sciocchi… e gli sciocchi sono in maggioranza.

Con tutto ciò, è naturale, in quel vivaio di adoratori, Giacomo di Vharè fu il primo e il solo che arrivò a farsi notare dalla duchessina. Lalla scherzava sempre, era con tutti amabile e civettuola; ma, sicura del fatto suo, non ci pensava più che tanto a quelle farfalle che si bruciavano le ali attorno alla sua fiamma, o se ne occupava appena per contarle. Col marchese, invece, la cosa era ben diversa; con lui diventava seria, non era più motteggiatrice, chiacchierina, ma lo ascoltava attenta coi grandi occhi fissi. Il marchese di Vharè, a poco a poco, si abituava a quella bambina, cominciava a trovarsi bene con lei, ad accorgersi ch’ella avea molta intelligenza e molto spirito, e la stuzzicava a proposito del suo sentimentalismo di fanciulla bionda, e del suo clericalismo di duchessina legittimista, godendosi a sentirla ragionare così composta, così aggraziata, con la voce dolce, d’argento che accarezzava l’orecchio come una musica. A farle la corte non si provava nemmeno: gli pareva impossibile di poter riuscire – interessante – lui, non più giovane, a quel fiorellino pallido e delicato, che sbocciava allor allora, fragrante di soavità.

Una sera, per un momento, ne aveva avuto quasi il capriccio, la tentazione: poi non ci pensò più; era una cosa assurda, ridicola.

… Quella sera aveva avuto luogo, al teatro, la beneficiata della diva Soleil e uno splendido mazzo di orchidee e di violette russe, che spiccava fra i moltissimi stati offerti alla festeggiata cantatrice, aveva suscitato nel palchetti i commenti ed i pettegolezzi delle signore. Certo, certo, era stato il Vharè! Era il dono del Vharè! Era l’omaggio del Vharè!

Dopo teatro, c’era riunione dalla principessa di Kleigenburg e tra gli invitati si notavano anche Lalla e il marchese. Quest’ultimo, dopo aver girato attorno fra le signore, facendo complimenti, o lanciando qualche epigramma, si sedette vicino alla duchessina, coll’abbandono di chi, dopo essersi molto seccato, si procura un istante di sollievo. Lalla non gli aveva mai fatto parola a proposito della diva, nemmeno per dirgli che la Soleil cantava bene; ma quella sera essa voleva parlare e intanto lo fissava sorridendo… e fissava pur sorridendo l’occhiello del suo frak, dov’erano infilate alcune violette.

– Bellissime…

– Mi spiace, duchessina, ma non posso, non oso offrirgliele.

 

– Teme un dolce rimprovero?

Giacomo guardò Lalla stupito: – Oh, no; tutt’altro!

– Allora, le sono molte care quelle violette?

– Nemmeno, contessa; ma che vuole? le parrà strano, eppure anche noi vecchi roués abbiamo il nostro pudore e… Lei non mi può capire, contessa, nulla di meno questo fiore così sciupato… ecco… mi parrebbe di mancarle di rispetto se gliel’offrissi. – Le reticenze marcate e studiate con molta arte stabilivano un’antitesi, fra il contralto e la duchessina, molto lusinghiero per quest’ultima.

Quando Giacomo tacque, si guardarono tutti e due lungamente, senza parlare; poi Lalla, colle labbra un po’ tremanti e il seno che dalla scollatura dell’abito si vedeva ansare più forte, fissandolo sempre, stese la mano aperta verso di lui, con un’espressione dolcissima di preghiera e d’affetto. Giacomo si tolse le violette dall’occhiello e più per abitudine che per deliberato proposito, strinse leggermente le dita di Lalla: e Lalla presi i fiori li chiuse, con molta cura, nel suo ventaglio di pizzo.

– È una dichiarazione od è uno scherzo? – pensava il marchese fra sè. – Mah! chi può capire le donne?… Perchè mai vorrebbe ch’io le facessi la corte?… Amarmi?… lei? Sentire simpatia per me, che devo esserle stato dipinto da suo marito col pennello di Bosch, il pittore dei mostri?… Eh! questa intanto potrebbe essere anche una buona ragione… Poi è una donnina di talento e chissà, trovandomi meno stupido degli altri… No, no; è impossibile; divento vecchio, e per lusingarmi basta anche un’amabilità, affatto innocente… o ingenua! Con quell’aria così composta? Con quegli occhi così modesti?… Eppure, alle volte, sa guardare in un certo modo… No, no; è inverosimile, è assurdo! – Invece, quantunque inverosimile, la cosa era proprio vera. Lalla ci godeva assai, e ci teneva a far girar la testa al marchese di Vharè, più che ad ogni altro.

Ma perciò non bisogna credere che il Vharè dovesse il buon successo soltanto alle memorie infantili della piccola duchessina; vi concorse anche un’altra circostanza, molto singolare e molto efficace. Al Della Valle era stata offerta in vendita la casa di campagna del marchese Giacomo e, prima di recarsi a Roma, Giorgio e Lalla, passando da Santo Fiore per salutare i d’Eleda. erano andati insieme a visitarla.

Giorgio aveva abitato un mese in quel villino senza scoprirvi nulla di singolare; Lalla invece, subito, appena dentro, fatti appena i primi passi, in tutta quell’intimità ricca ed elegante, in tutti quei mille gingilli, vide come apparire, animarsi, muovere il dissipatore simpatico e capriccioso, il seduttore amabile, dal gusto finissimo, e dalle abitudini signorili; e in un tappeto con due cifre graziose, che non erano nè una V nè una G. quasi nascoste dagli arabeschi, e in un vasetto di fiori appassiti, e in un pennaiuolo ricamato, e in un coltroncino trapunto, essa indovinò, al primo sguardo, le manine di una donna, o di più donne, che volevano, o che avevano voluto molto bene al padrone di casa. Con quel suo istinto di bimba curiosa e indiscreta, Lalla guardava, toccava tutto, e di tutto voleva sapere, indovinare il perchè. Essa correva di qua e di là, dallo studio al salottino, dal salottino alla camera da letto, cercando, frugando, rovistando, trovando sempre qualche cosa di nuovo, e d’interessante. Pareva in casa sua là dentro, essa pareva lo spirito, l’anima, il folletto di tutto quel piccolo regno dell’amore e della femminilità.

Quando da uno specchio era riflessa la leggiadra personcina di Lalla, così vagamente bizzarra, coll’ampia pelliccia scura, che la freddolosa si serrava addosso stretta stretta, col berrettone di lontra che non le nascondeva punto le ciocche scompigliate dei bei capelli, quello specchio pareva mutarsi per incanto in un bel quadro di genere messo lì, a suo posto, dal buon gusto di un artista sapiente. Lalla correva di qua e di là; ma d’un tratto, nella camera, accanto al letto, si fermò, prima attonita, poi pensierosa. Fra le cortine rialzate, vicino al capezzale, aveva scoperto un quadrettino piccolissimo, qualche mistero di certo, perchè, di sotto al vetro, era calata una tendina di seta verde, con un disegno stinto nel mezzo.

Come ci riesce bene il diavolo quando ci vuol mettere la coda!…

Giorgio, in quel momento, era alla finestra, occupatissimo col notaio incaricato della vendita, che gli indicava i vari confini dei fondi adiacenti alla villa.

Lalla staccò il quadretto, lo guardò da tutte le parti, con una smania un po’ nervosa, finchè, nascosta tra i fregi della cornice, in un angolo, scoperse una piccola molla; la spinse forte, colle dita; la tendina si alzò di scatto, e Lalla vide una miniatura, il ritratto di una donna bellissima, nuda fin oltre la metà del seno, e circondata da un arruffio di capelli biondi (era bionda anche lei!…) che riempiva tutto lo spazio rimanente del piccolo quadrettino.

Quella signora così… bionda era una gran dama dell’alta aristocrazia romana, celebre non soltanto per la sua bellezza, ma più ancora per la sublime e rara virtù. Invece… invece era l’amante del Vharè.

Intanto Giorgio che trovava conveniente l’acquisto di tutti quei beni, stava fissando col notaio i termini del contratto.

– Nella vendita è compreso il mobilio?… E anche gli oggetti d’arte? – domandò la duchessina.

– Il signor marchese – rispose il notaio – si riservò soltanto alcune memorie di famiglia, che intende conservare.

– Ho capito – pensò Lalla sorridendo. La bella miniatura sarebbe stata conservata… tra quelle memorie!.

Ma tutto ciò, ad insaputa stessa del Vharè, gli aveva aperta la via per entrare diritto nel cuore di Lalla; e dopo successa la scena del fiore, quando Giacomo per la prima volta arrischiò, a mezza voce, una mezza dichiarazione, egli vide gli occhi di Lalla, solitamente così modesti, fissarlo, interrogarlo quasi supplichevoli, vide le sue guance tingersi di un leggiero incarnato e il respiro farsi anelante… come quando, senza parlare, essa gli aveva chiesto, cogli sguardi desiderosi il gradito omaggio delle violette.

Giorgio era seccato, pareva sospettoso. Appena Lalla si metteva a discorrere col Vharè, egli diventava serio, stava attento, e subito, e non sempre con abbastanza disinvoltura, correva a mettersi in mezzo fra di loro. Lalla scorgendo quelle ansietà, quelle mosse, sorrideva impercettibilmente, più cogli occhi che colle labbra; capiva bene che suo marito, sicuro di tutti, di – quello lì – non lo era punto; capiva che – lì – egli presentiva il pericolo e con una logica tutta particolare, Lalla ne deduceva, per conseguenza, che il Vharè doveva valere molto di più degli altri; e nei colloqui notturni, quando essa rivelava al marito tutte le dichiarazioni ricevute nella serata, quelle del Vharè passavano sempre sotto silenzio. Anzi una volta che Giorgio le domandò con alquanta circospezione, per non turbare la sua innocenza, se il Vharè non aveva mai tentato di farle – un po’ di corte – essa gli rispose tranquillamente, candidamente.

– No; mai. – Senti, Nino mio, ti assicuro, a te il Vharè è antipatico e ne avrai le tue buone ragioni, ma io l’ho trovato sempre cortese, rispettosissimo: dalle sue labbra non è ancora uscita una parola che possa parere una dichiarazione: dice sempre che potrebbe essere mio padre e, via, non ha torto, sai, perchè sembra più vecchio di te!… Insomma sta tranquillo, gelosone, nemmeno un briciolino di corte; nemmeno un briciolino così!… – alzando il braccio nudo, fuori dal candido accappatoio, mentre coll’altro si teneva stretta al collo del marito, gli mostrava, stringendo il pollice contro l’indice, l’ultima estremità di un’unghietta brillantata. – I tuoi cari amici, invece, i tuoi colleghi (sinistra, destra, ed anche la montagna!) a sentirli loro, si fonderebbero tutti in un partito solo, contro di te! – E Lalla rideva col suo riso schietto, squillante, baciandogli la bocca, gli occhi, i capelli che ella si godeva ad arruffare colle manine nervose. Giorgio era felice, imbambolato dall’amore e dalla voluttà. Egli, del resto, aveva troppa fiducia in sua moglie per temere il Vharè come seduttore, ma gli spiaceva un’apparente intimità con uno scapestrato di quella specie. Che poi il Vharè non avesse in animo di fare la corte a Lalla, egli ne era sicuro! anche per quell’altra sospetto che covava dentro di sè da tanti anni e che per quanto fosse un sospetto assurdo, ridicolo, pure non aveva mai potuto scacciare dalla sua mente. Per tutto ciò, il Della Valle inquieto ed incerto sul da farsi, non giudicava nè prudente, nè conveniente, il mettere alla porta il Vharè, vedeva con molto piacere, come un grande sollievo, avvicinarsi il giorno della loro partenza da Roma: così, senza pettegolezzi, senza dover imporsi, senza far scene, riusciva a liberarsi definitivamente da quell’importuno. Ma invece… invece, la bimba cara, aveva già fissato in quelle ultime sere, trovandosi sola soletta col bel marchese di Vharè, il giorno e l’ora in cui questi, salvando le apparenze, l’avrebbe raggiunta a Borghignano.

Tuttavia, per quanto Lalla fosse stata molto civettuola, non era andata più in là di un amoretto platonico, sentimentale; e le ragioni di questo fatto, assai importante, bisogna ricercarle in due farse ben diverse; una proveniente da Lalla, l’altra dal Vharè. Giacomo sentiva per la bella donnina una tenerezza soave, melanconica, che gli parlava al cuore, più che ai sensi, e di cui fin allora non aveva mai provata l’eguale; una timidità delicata e affettuosa. Se qualche volta si faceva troppo ardito, gli occhi di Lalla si facevano grandi grandi e lo fissavano timorosi ed egli allora, sorridendo, la chiamava – bambina – e rimaneva pago della simpatia idealmente affettuosa di quella creatura cara ed innocente.

In quanto a Lalla, il suo – no – era affatto istintivo.

La sua indole, il suo gusto delicato, la rendevano repugnante a tutto ciò che faceva perdere all’amore i poetici e interessanti colori della sentimentalità; tanto più, poi, che suo marito le voleva molto bene e glielo dimostrava molto, e perciò essa aveva il sangue calmo, e i nervi tranquilli. In quanto alla coscienza… Oh, era una coscienza che faceva sentir la sua voce sempre a proposito… per ammonire che il peccato cominciava appunto là, dove Lalla trovava per lo meno incomodo di dover arrivare.

Perchè una donna, come la duchessina, giunga a pronunciare l’ultima parola dell’amore, l’amante solo, per quanto avveduto e audace, non basta quasi mai; fa d’uopo il concorso di molte circostanze di tempo, di luogo e… e anche di temperatura. Circostanze varie, impensate, indefinibili; che la sorprendano nel cuore, nei sensi, nel capriccio, quando meno lo sospetta ella medesima, e le tolgano volontà e lena di combattere. Tutto ciò può accadere in otto giorni, può farsi aspettare mesi e mesi e, alle volte, può anche non capitar mai.

Dopo, finito l’incanto, o quel momento d’oblio appare come un punto nero, e allora resta isolato nella vita della donna che riesce con disinvolta facilità a dimenticarlo, oppure ebbe una scintilla, un lampo di elettricità luminosa, e allora essa ne popola il cielo del suo amore, colla profusione delle stelle che risplendono, nella cupezza serena di una notte bruna, dopo la tempesta.

Lalla ci teneva molto che il Vharè le facesse la corte; ma era stata presa dalla vanità, non dal cuore. Egli, più che altro, aveva per la duchessina le capricciose attrattive del frutto proibito; e l’antipatia ombrosa e paurosa manifestata contro di lui dal marito, ne accresceva il fascino. Ma Lalla, in presenza di Giacomo, era sempre padrona di sè, quantunque egli esercitasse su di lei una certa influenza; quantunque fosse l’unico che, sovente, la facesse impallidire e arrossire, inspirandole una soggezione strana, un orgasmo, una titubanza indefinibile, quasi paurosa. Ma erano fenomeni di poco conto, che la storditaggine stessa di Lalla bastava a dissipare.

La duchessina si sentiva contenta; le bastava di aver domato il suo Mefistofele. Più forte e più abile delle altre donne che col Vharè avevano tutto perduto, anche l’onore, per vederlo poi, stanco e disonorato, Lalla, con una sola parola, con una lusinga vaga, indeterminata, lontanissima, riusciva, conservando il proprio equilibrio, a tenerlo legato dietro al carro del suo trionfo.

Lalla non amava, ma voleva essere amata; non sentiva il bisogno di libare al calice dell’amore; ma il bel calice si godeva a tenerlo in mostra, fra le artistiche minuterie del suo salottino. Accresceva per lei il piacere dei balli, dei teatri, delle riunioni il sapere che là, come le altre, aveva il suo moderno cavalier servente, che l’aspettava ansioso, geloso, inquieto, innamorato. Tutti i misteri, le ipocrisie eleganti, l’impreveduto, il romantico ed anche il drammatico dell’amore e degli amori, la divertivano assai. Ma fino ad un certo punto; soprattutto non voleva commettere un passo falso e voleva conservare la propria libertà: non voleva perdere la propria riputazione e non voleva darsi un padrone.

 

Subito appena si furono spiegati, fu la prima Lalla a trattare Giacomo col tu, francamente senza esitare, giubilante di poter dire a sè stessa che quell’uomo, il quale faceva tanto discorrere di sè, quel babau della morale, era ai suoi piedi, era suo, era – il suo amante. Ma quando egli le domandò il primo bacio, – no, sai, non te lo dò, un bacio – gli rispose rannicchiandosi in modo, nel cantuccio del canapè, da sembrare ancor più piccina, e ancor più bambina; – no, perchè coi baci, si sa come si comincia… ma non si sa poi… come si finisce; – ed abbandonò invece la manina morbida, nella mano di Giacomo, che gliela stritolò convulsamente, pallido, imbronciato, meravigliando in cuor suo, che – la bambina – avesse tanta esperienza. Tuttavia l’esperienza non mancava nemmeno al Vharè: egli aspettava paziente e rispettoso, senza esser punto disperato.

Uno solo, fra tutti i suoi adoratori timidi e sottomessi, ebbe la sfacciataggine di mancare a Lalla di rispetto; e fu il conte Pier Luigi. Sicuro; Lalla aveva voluto fare la civettina anche col vecchio zio: così… non per altro che per riderne colla Giulia!… Era un giochetto che le riusciva tanto bene!…

Un giorno, sul tardi, nel salottino s’era fatto un po’ buio, le altre visite s’erano dileguate, e lo zio e la nipote aspettavano l’ora del pranzo. Lalla languida languida, colla testina chinata, tagliava lentamente con una stecca d’avorio, le pagine di un romanzo nuovo, mentre scherzava col suo piedino tra il falbalà della veste. Pier Luigi, colla faccia invasata, le era seduto accosto e le ripeteva che era una donnina irritante. Lalla si ostinava a volerne sapere il perchè, fingendo di non capire ciò che invece capiva benissimo. Pier Luigi allora le disse, con la voce grossa, che si era fatta bella, e lei, di rimando, a rispondergli che mentiva, che sapeva di essere brutta e che lui parlava così, perchè c’era buio! Pier Luigi minacciò di alzare la tendina, e lei ad opporsi amabilmente e a non volere che lo facesse… – Allora non gli sarebbe piaciuta più!… – Il vecchio non fiatò, non rispose, ma, d’improvviso, le stampò un bacio sul collo. Lalla si alzò di colpo, fremente d’ira e di ribrezzo; ma lo zio, che la teneva stretta con un braccio, le strisciò un altro bacio sulla bocca. Lalla pallida, senza un grido, si sciolse violentemente da quella stretta, spingendo il vecchio lungi da sè, e balbettando: – Vi trovo ributtante, sapete; ributtante, ributtante!…

Lalla, prudente, per evitare dispiaceri, non riferì quella scenaccia al marito; ma Pier Luigi, punto sul vivo, non le perdonò mai più.

… E l’angelo custode, nel frattempo, che cosa faceva? Maria scriveva di continuo alla figliuola lettere lunghissime, colme d’affetto, di premurose sollecitudini, di consigli, e di ammaestramenti. Ma Lalla trovava quelle lettere noiosette e melanconiche, perciò le scorreva in fretta, saltando le mezze pagine e spesse volte guardando appena alle ultime righe, tanto per accertarsi che il babbo e la mamma stavano bene.

Maria aveva fissato di recarsi a Roma col duca Prospero, e questi, infatti, vi raggiunse la figlia e il genero, verso la metà di maggio, tre giorni dopo che gli fu comunicata, ufficialmente, la sua nomina a senatore del Regno; ma alla duchessa d’Eleda, all’ultimo, era venuto meno il coraggio, ed era rimasta sola a Borghignano. a provvedersi di forze, per il momento, ormai prossimo, del ritorno di Giorgio e di Lalla.

Già la poveretta aveva sperimentato a proprie spese come il volere e il coraggio abbiano un limite; e ciò nell’occasione che gli sposi fecero a Santo Fiore la loro gitarella, quasi all’improvviso. Per un giorno Maria potè reggere, mantenersi tranquilla, e mostrare una contentezza che non sentiva nel cuore, ma poi, malata, colla febbre, dovette rimanersene a letto.

Da qualche tempo la salute della duchessa peggiorava a vista d’occhio; ma Prospero Anatolio non vi badava gran fatto. Egli si lamentava, invece, trovando che sua moglie era eccessivamente lunatica, piena di egoismo e vuota di cuore: lei non faceva nulla per alleviare al marito il doloroso distacco della figliuola. Ma l’infelicità di Prospero Anatolio non era altro che rettorica; egli aveva un solo dispiacere: quello di non possedere l’ubiquità di Sant’Antonio, e perciò di non poter, essere, nello stessa tempo, nel palazzo municipale di Borghignano, dove imperava autocrate assoluto, e nel Senato del Regno, in cui, alla prima seduta, domandò subito la parola. Peccato che il caldo cominciasse a liquefare gli onorevoli e fossero imminenti le vacanze delle Camere.

In casa Della Valle si cominciava intanto a fare le valigie, e con gran consolazione della Nena, la quale, a Roma, forse perchè non era nè un deputato, nè un senatore, non ci si poteva vedere. Pativa di nostalgia, in mezzo a quell’andirivieni di facce nuove, e non capiva la maraviglia dei signori che si fermavano colla bocca aperta, ammirando certe case rovinate, certe statue senza naso, certi fusti di colonna col capitello rotto. La Nena non avrebbe dato il corso di Borghignano per tutta Roma. A Borghignano, almeno, le strade erano pulite e piane, mentre a Roma bisognava arrampicarsi su su, come in montagna, e si ritornava a casa colla testa intronata. E poi la Nena ci soffriva di amor proprio a non essere conosciuta da nessuno. A Borghignano sapevano tutti chi era; le facevano di cappello, e i merciai, i giovani di negozio, erano pieni di garbatezza e di premure; ma a Roma?… A Roma pareva che le facessero un piacere a venderle la roba, e la servivano in fretta e in furia, senza nemmeno lasciarle il tempo di barattare quattro parole.

A consolarla un poco, le capitò, altrettanto caro quanto inaspettato, il Corriere d’Euterpe con una corrispondenza da Palazzolo sull’Oglio, segnata col lapis rosso. Il cuore le disse subito ch’era stato Sandro Frascolini a mandarle quel giornale; allora si chiuse sola nella sua camera e, compitando lesse la seguente corrispondenza:

«Palazzolo (sull’Oglio).

«Ieri sera, nella Favorita, melodramma del celebre maestro cav. Donizetti Gaetano, abbiamo assistito al debutto del giovane primo tenore assoluto, signor Alessandro Frascolini. Dire non lice, all’umile penna del vostro corrispondente, gli applausi ch’egli riscosse caldi e ben meritati, egregiamente assecondato eziandio dalla valente prima donna assoluta, signora Mochetti Giuseppina. Soddisfacendo le brame addimostrate dall’affollato uditorio, il sullodato debuttante bissò la sua bella romanza dell’ultimo atto «Spirto gentil» fra il generale e crescente entusiasmo. Il signor Alessandro Frascolini ha bella voce, nobile l’aspetto, è ben aitante della persona, ed affrontando con disinvolta spigliatezza le difficili tavole del palco-scenico, impronta, con vero slancio di provetto artista, il carattere del personaggio rappresentato.

«Avanti, signor Frascolini! Avanti sempre! Gli applausi dell’intelligente pubblico di Palazzolo sull’Oglio vi devono essere di sprone a perseverare nelle parti di tenore assoluto, nelle quali Euterpe vi riserva splendido, per l’avvenire, l’aurato serto di Elicona.

«Il Ficcanaso»

La Nena, quella notte, dormì colla prosa di Ficcanaso sotto il capezzale: era incerta, titubante se dirne qualche cosa alla signora contessa: poi, si persuase, che ormai Frascolini non aveva mandato il giornale altro che per lei, la Nena, solamente per lei: si consolò tutta, allora, e pregò la Madonna perchè le facesse la grazia di potersi incontrare a Borghignano, almeno una volta con Sandrino, reduce dai trionfi di Palazzolo sull’Oglio.