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Mater dolorosa

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Stava così da molto tempo, sempre piangendo, colla mente sempre rivolta alle vicende dolorose di quell’amor suo infelice, quando, all’improvviso, fu scossa e spaventata da un gridare, da uno strillare acuto che veniva dalla camera della Giulia. Tese più attentamente l’orecchio, trattenendo il respiro per sentir meglio: non c’era di che inquietarsi; colle grida si udivano scoppi di risa; erano Lalla e Giulia che facevano il chiasso.

Lalla, quando svestita stava già per saltare in letto, provò, in sull’attimo, una paura tale, da non potersi ridire: c’era lì un coso nero, brutto… – Oh, che razza di scherzi!

Le avevano nascosto sotto le coperte il beduino che serviva da ferma uscio! Lalla indovinò subito da chi le veniva quel tiro, e toltosi il beduino in braccio e gettandosi addosso uno scialle, pian piano si avviò per compiere le sue vendette contro la Giulia, ma la Giulia, a sua volta, veniva appunto lì volendo assistere alla burla, e perciò tutt’e due s’incontrarono nel corridoio. L’una volle scappare, l’altra le corse dietro, Giulia saltò subito in letto nascondendosi sotto le coperte; e Lalla infine gliele strappò via e la costrinse a baciare, a ribaciare e a tenersi addosso, stretto stretto, quel brutto coso di carta pesta.

Quella sera tutt’e due le ragazze, erano un argento vivo. Si baciavano per mordersi, si tiravano dietro i guanciali, le vesti, tutto quanto capitava loro fra le mani; poi ad un tratto spensero i lumi, ebbero paura, chiamarono in aiuto la Nena e la Luigia, e non si calmarono finchè non furono tanto stanche di ridere, di gridare, di correre, da non poterne più!…

L’indomani Maria si alzò prestissimo; non aveva potuto chiuder occhio in tutta la notte. Era indebolita, aveva la febbre, tossiva, tossiva… Dio, Dio, come si sentiva male!

Si doveva celebrare il matrimonio religioso prima, poi il civile. Il religioso alle dodici del mattino, l’altro alle tre, per lasciar tempo alla sposa di mutare d’abito. Dopo, alle cinque, c’era il pranzo, al quale erano invitati anche don Gregorio, don Vincenzo, il sindaco… e finalmente gli sposi sarebbero partiti per il loro viaggio di nozze.

Lalla era ritornata seria, malinconica; per altro faceva tutti i suoi piccoli preparativi senza confondersi, senza distrarsi. Invece il conte Della Valle dimenticava tutti gli ordini che aveva da dare…

Maria era sfinita… non aveva più lacrime; ma Prospero ne sgocciolava anche per lei mentre, dopo aver spalmato di burro il pan fresco, lo inzuppava, gemendo e sospirando, in una tazza di caffè e panna.

La cerimonia religiosa non avrebbe potuto riuscire più commovente. La chiesa era stipata; il pubblico rumoreggiava curioso e pettegolo; ma quando don Gregorio unì indissolubilmente nel santo nome di Dio, in un nodo sacro, eterno, le due creature e le due anime, egli seppe trovare, benedicendole, parole così soavi da intenerire non solo gli sposi, Prospero Anatolio e i quattro commendatori, ma da suscitare in tutta quella gente una commozione viva e sincera.

In Municipio, invece, non si fece altro che ridere; si rise per i guanti bianchi di filo di Scozia e la sciarpa nuova che sfoggiava il signor Domenico, si rise della goffa ed impacciata importanza ch’egli si dava, e si rise più assai, quantunque tutti si sforzassero per contenersi, quando il signor Domenico, firmato l’atto, diede principio con voce altrettanto solenne quanto nasale, ad un discorsone proprio coi fiocchi. Era questo l’unico frutto ottenuto dalla sua unione colla dotta signora Veronica; ma, pur troppo, il sindaco di Santo Fiore, dopo quel giorno-, non potè più dire: – Chi ben comincia è alla metà dell’opera! – Il signor Domenico aveva cominciato benino il suo discorso, ma dopo i primi periodi incespicò, si confuse, mangiò le parole, e ne saltò mezzo, spaventato dagli occhietti bigi del duca Prospero, che lo fissavano con aria meravigliata.

Quando rientrarono in casa, la sposa si mostrò subito più disinvolta; era già in abito da viaggio: un abito grigio, attillato alla persona, che lasciava scorgere i fremiti della sua magrezza di sensitiva. I bei capelli, sciolti dalla noiosa corona di fiori di arancio, avevano ripreso il loro artistico disordine. Le guance, soffuse d’un leggero incarnato, le davano l’aspetto quasi di una bambina, e così era piacevolissimo il contrasto tra il suo visetto infantile e gli occhioni profondi e vellutati. Giorgio Della Valle la seguiva passo passo e pareva rapito in estasi. Egli non poteva credere che quella donnina tanto cara, tanto gentile, tanto aggraziata fosse proprio sua moglie. La guardava muto, estatico, senza saper dire una parola; la guardava lungamente, teneramente, supplicandola. Lalla invece, era affabile e affettuosamente chiacchierina con suo marito e con tutti quanti.

E Giorgio, sempre dietro, non la perdeva d’occhio un momento. Non viveva altro che col cuore, e il cuore è sempre l’eterno fanciullo!… Pieno di una beatitudine inquieta, guardava sua moglie a muoversi, a parlare, a ridere… – Sua!… – Era sua!

Una volta, mentre la seguiva, era stato trattenuto da uno dei quattro commendatori che gli annunciava la prossima nomina di Prospero a senatore; allora chiamò Maria per liberarsi dell’importuno e – Mamma! Mamma! – le disse – come mi sento felice.

In quanto a Prospero, per il momento non pensava a malinconie; gongolava tronfio fra il Senato del Regno e la Camera dei deputati.

Il pranzo fu cordialissimo. Pier Luigi, seduto accanto alla nuova nipotina, la stuzzicava con certe allusioni sul viaggio di nozze, molto arrischiate. Lalla arrossiva e abbassava il capo modestamente, ma poi lasciava intendere allo zio, con un volgere malizioso degli occhi sfavillanti, ch’ella capiva tutto benissimo e che ne rideva.

Pier Luigi cominciava fino d’allora, non si potea dire che perdesse il tempo, a corteggiare la contessa Della Valle, ch’egli trovava piccante e seducentissima; e Lalla, pur senza perdere tempo, si godeva a lasciarsi fare la corte e ad ottenere l’ammirazione e le attenzioni del conte Pier Luigi, nel quale vedeva l’uomo esperto, che in fatto di donne s’era creata la riputazione d’intelligente. Per tutto ciò ci teneva a piacergli, e scherzava e gli si dimostrava amabilissima, e ridendo si aggiustava le trecce che aveva annodate sulla nuca facendo con quell’atto, risaltare meglio la bellezza delle sue braccia. Tuttavia il marito non era trascurato. Egli era anzi il punto fisso dove Lalla terminava sempre col girare degli occhi; e sotto quello sguardo languido e soave, Giorgio sentiva una scossa per ogni fibra e spasimava di stringersi fra le braccia… sua moglie!… di baciarla, di sciuparla, di morderla, di tuffare le mani in quei capelli biondi e profumati.

Don Gregorio, fattosi più grave, e come impensierito, continuava ad osservare attentamente Maria, la quale aveva lui alla sua destra, e il signor Domenico alla sinistra, i due che le avevano maritata la figliuola. Ma il signor Domenico avrebbe ceduto il privilegio assai volentieri. Lo avrebbe ceduto magari ad uno qualunque dei quattro commendatori!… Il modesto sindaco di Santo Fiore si sarebbe trovato assai meglio, nascosto in un cantuccio, godendosi a tutto suo agio quelle vivande così prelibate che il signor Francesco gli era andato descrivendo da tanti giorni, degnandosi anche d’indicargli quelle in cui avrebbe dovuto di preferenza mettere i denti. Così, invece, la soggezione gli lasciava appena il tempo di assaporare com’erano buone; gli si fermavano i bocconi nella strozza e restava istupidito quando, dimenticandosi per un momento, lasciava sul piatto la forchetta o il coltello e quei camerieri infuriati gli portavan via tutto! Invidiava il coraggio di don Vincenzo che, con le labbra unte, il naso rosso e la bocca sempre piena, strippava, macinando a due palmenti, tutta quella grazia di Dio, così che la povera miss Dill, vedendosi trascurata, se ne offendeva e metteva il broncio. Solo alle frutta, quando don Vincenzo, dopo d’essersi lasciato scappare il primo rutto, la fissò con una tenerezza da ciuschero, facendole scorrere la tabacchiera di sotto alla salvietta, miss Dill, rabbonita, gli sorrise clemente, sentendosi tutta rinvenire, come un gambo d’insalata dopo un’acquazzone d’estate.

– E Prospero Anatolio?… – Prospero non mangiava, ma, invece, divorava la Giulia: egli l’aveva accosto, vicinissima tanto da sentirne il calore, con quelle sue carni bianche e rosse, sparse di un pelolino simile alla pesca duracina.

Verso la fine del pranzo tutti s’erano animati: parlavano sempre a due a due, ma le voci si facevan più vive, il ridere più frequente e più forte, l’intimità più espansiva. Fu uno dei quattro commendatori, un pezzo grosso dei Lavori Pubblici che, dopo di aver guardato l’orologio, avvertì gli sposi di affrettare i preparativi, se non volevano perdere la corsa. Eccetto don Gregorio e Maria, che non ne ebbe il coraggio, vollero tutti accompagnare gli sposi alla stazione: il caffè lo avrebbero preso al ritorno, con più comodo.

Coi saluti, cominciarono le lacrime. Piangevano tutti, e alla tenerezza di circostanza s’era aggiunta quell’altra, assai più spontanea, provocata dagli effetti di una buona digestione, perchè l’uomo, come il coccodrillo, si commuove più facilmente a stomaco pieno.

Il conte Della Valle soltanto e Maria avevano gli occhi asciutti; Giorgio tradiva l’interno sentimento che lo agitava col pallore del volto e il tremito delle labbra; Maria… povera Maria!… Ma per fortuna nessuno badava a lei in quel momento, tranne don Gregorio, che per ciò era diventato a mano a mano sempre più inquieto.

Lalla singhiozzava, non sapeva staccarsi dal babbo e dalla mamma e si sfogava colle carezze e con gli abbracci. Prospero aveva ricominciato a sospirare e a soffiarsi il naso. La Giulia pure piangeva, e miss Dill pareva impietrita dal dolore.

Poi la commozione dei padroni si diffuse anche fra i servitori, e l’addio della Luisa e della Nena fu affettuosissimo.

 

Ormai tutti erano pronti e si doveva partire. Lalla volle ancora abbracciare la mamma: poi la Giulia, poi don Gregorio. Quindi affidò la sacchettina dei gioielli alla Nena e le raccomandò di non abbandonarla un momento; in fine, appena seduta nella carrozza e mentre i cavalli si muovevano salutò la mamma un’ultima volta: – Scrivi! scrivi presto! subito!

Giorgio doveva montare nel landò, che veniva dopo, con Pier Luigi, la marchesa di Genova ed un commendatore. Gli altri già erano a posto, quand’egli, prima di salire alla sua volta, si avvicinò a Maria, come aveva fatto Lalla e l’abbracciò teneramente. Maria non ricambiò e non respinse l’abbraccio; rimase muta, immobile come l’immagine del dolore. Ma quando il cancello del giardino, richiudendosi dietro all’ultima carrozza, diede il suo addio agli sposi col sonante ripercuotersi delle spranghe di ferro, allora, senza nemmeno un gemito, cadde a terra svenuta.

Quando rinvenne, si trovò adagiata, distesa sul canapè del salotto: don Gregorio era solo con lei. Il buon vecchio, che ormai aveva tutto compreso, avea saputo con un pretesto allontanare anche la Luigia, temendo che Maria, nello stato in cui si trovava, potesse perdersi con qualche parola imprudente. – Coraggio, coraggio! – le disse subito, appena vide i suoi occhi guardare attorno spalancati, con un’aria di sorpresa e di sgomento. – Coraggio, il Signore ti ha fatto trionfare anche dell’ultima prova.

– No, no, don Gregorio; non ho potuto trionfare – e la povera donna, ritornando alla dura, alla spietata realtà della vita, non potè più oltre contenersi, e a quelle parole che le rivelavano scoperto il suo segreto, sentì sprigionarsi, prorompere dall’anima, dal cuore, da tutta sè stessa la piena del proprio dolore, come ad un urto che ne apra le chiavi, l’acqua della corrente irrompe furiosa ad allagare la campagna.

– No… non posso, non posso resistere… e Dio… Dio non c’è! No… e se ci fosse… sarebbe peggio… sarebbe un Dio crudele! Qual capriccio feroce il suo di concedermi la forza di affrontare l’ora del sacrificio… e togliermela poi all’ultimo istante?… E farmi adesso rimpiangere il sacrificio stesso, e farmi cattiva, disumana; e così, dopo di avermi resa infelice a questo mondo, dannarmi anche nell’altro?

Le lacrime le colavano copiose dagli occhi, mentre coll’urto dei singhiozzi scoteva la bella testa addolorata, convulsamente balbettando fra una parola e un singulto: – No… no… Dio… non esiste… Dio non esiste…

Don Gregorio, intanto, piangeva con lei e pregava: pregava Iddio fervidamente per la poveretta; pregava Iddio perchè ridonasse la calma al suo cuore e perchè perdonasse, nella sua bontà infinita, quell’infinito dolore. Solo quando l’impeto dei singhiozzi cominciò un poco a rallentarsi, egli disse dolcemente, prendendole una mano:

– Il Dio che senti nel tuo cuore, esiste, ed è un Dio di perdono e di pace. Egli, nella sua sapienza divina, riserva, alle creature elette, forti come tu sei, la missione di aiutare coll’esempio i deboli e i vacillanti nelle battaglie della vita. Ringrazia, Maria, ringrazia il Signore con tutta la sincera espansione dell’anima, e non imprecare alla sua bontà previdente. Dell’uomo che poteva essere per te uno strumento di perdizione, ne ha fatto il figliuolo del tuo cuore; ti ha riserbata la contentezza, la gioia di vegliare al suo bene, e alla sua felicità; lo ha riunito, lo ha confuso nel più grande affetto e nel più santo dovere della tua vita: nell’affetto, nel dovere di madre. Lalla è giovanissima ancora; la sua indole non è come la tua: essa ha bisogno di una madre che la sorvegli, che la sorregga; ha bisogno di te perchè tu infonda nel suo cuore quello spirito di carità e di fede che vivifica il tuo. Così serenamente e santamente avrai compendiata tutta l’esistenza nel preparare, nell’assicurare e nel difendere la felicità… di chi ha la tua tenerezza ed il tuo affetto. Vedi, figliuola mia, quanto il Signore è stato buono con te? Lo spirito del male voleva tentarti, ma Iddio lo vinse colla rettitudine della tua coscienza, ti salvò dal peccato, dalla colpa sollevandoti sopra le ali della fede, fece di te il buon angelo custode dell’uomo che tu ami.

Queste parole di don Gregorio scesero benefiche nell’anima di Maria. Ella intravvide come un raggio di sole penetrare e diffondersi nelle tenebre della propria esistenza, mentre un’aura di pace aleggiava intorno a lei, consolandola con una commozione dolce e profonda.

– Fra qualche tempo – continuò il buon vecchio – quando il fervore del sangue si sarà intiepidito, quando il cuore rallenterà l’impeto dei suoi palpiti, quando ritornerà il sereno della tua mente coll’alba riposata di una prima ciocca di capelli bianchi, allora, invece dello squallido rimorso che avrebbe turbata la tua vecchiaia solitaria, invece del disprezzo e dell’odio, ti vedrai circondata dall’amore e sarai benedetta come il santo orgoglio della tua casa. Allora, rivolgendo uno sguardo tranquillo in mezzo alla ridente felicità de’ tuoi cari, potrai dire di aver creato tu stessa quel Paradiso, col tuo eroismo e col tuo sacrificio; e accarezzando delle vaghe testoline bionde, che ti saluteranno col sorriso degli angeli, non dirai più, come stasera, che Iddio non esiste; ma lo sentirai vivo e possente in un inno di gratitudine che proromperà dal tuo cuore.

– Grazie, grazie, don Gregorio!… Voi mi avete salvata!… – e Maria, cogli occhi ancora bruciati dalle lacrime, baciò con trasporto la mano del vecchio che stringeva la sua.

Don Gregorio aveva vinto; aveva saputo far rinascere la speranza e tornare la calma nel cuore di Maria. Il dolore l’avrebbe uccisa a ogni modo, essa lo sentiva e lo bramava; ma adesso non vedeva più la sua tomba solitaria e deserta; le appariva invece sparsa di fiori e di ghirlande, come l’oasi prediletta della gratitudine e dell’amore. Quella missione di angelo tutelare infiammava, col misticismo che la involgeva, la sua immaginazione casta e poetica. Simile alla suora di carità che non abbandona il letto dell’infermo anche quando sente il contagio penetrarle nel sangue, Maria sarebbe rimasta coraggiosa, al fianco di Lalla, per riscaldarla colla sua propria fiamma, per riunire e confondere in uno solo, come il profumo di due fiori, l’amore di sua figlia e l’amor suo, facendolo alitare sulla cara esistenza di Giorgio colla perenne profusione di una corrente viva e benefica.

Quando il duca e gli amici ritornarono dalla stazione, don Gregorio se n’era già andato e Maria si fece scusare; nè la loro mancanza fu molto lamentata. Avevano tutti una voglia matta di ridere e di scherzare mentre bevevano il caffè colla chartreuse, in circolo, attorno al caminetto, riscaldandosi con una bella fiammata allegra e scoppiettante.

Ma più assai del caminetto era la contessina di Rocca Vianarda che riscaldava la brigatella. Ciascuno faceva con lei il galante e lo spiritoso, eccitato dal riso libero e sano della bella fanciulla, dagli arditi atteggiamenti, dalle forme ricche e tondeggianti. Chi per altro cominciava a perderci la misura era Prospero Anatolio, il quale pareva già confortarsi del distacco di Lalla. Egli aveva sempre qualche cosa da dire alla Giulia a bassa voce, nell’orecchio. La prendeva a braccetto e, colla scusa ch’essa era l’unica figlia che gli era rimasta, voleva abbracciarla; e una volta incontrandola tra due porte, all’oscuro, la strinse con tanta forza che la fanciulla, un po’ seccata, gli disse respingendolo vivamente:

– Calma, calma, caro duca; stringete troppo per un padre e specialmente per un – santo padre! – Prospero Anatolio arrossì, confuso, e non ebbe più il coraggio di guardarla in faccia per tutta la sera, ma abbassando gli occhi, le rispondeva impacciato, quando la Giulia gli rivolgeva qualche scherzo o qualche piacevolezza, rincrescendole di averlo troppo mortificato.

Intanto miss Dill e don Vincenzo si erano dileguati, e con loro anche la vecchia marchesa.

Quando, suonata la mezzanotte, la riunione si sciolse e ognuno si ritirò nella propria camera, Prospero Anatolio non si coricò subito, ma si sdraiò vestito sulla poltrona, accanto al letto. Pensò alla Giulia, al suo fiero rimprovero, a quella nota di sarcasmo così pungente, alla figura ridicola ch’egli ci aveva fatto… e l’immagine della bella fanciulla gli era sempre viva dinanzi agli occhi. Sentiva ancora il calore del suo corpo; vedeva il riso della bocca umida, giovane coi suoi dentini che apparivano sfacciati fra le labbra rosse.

Quanto era bella!… Ah!… se lui fosse stato ancora un giovinotto, o un uomo piacente!

E col pensiero penetrava nella camera di lei, desiderandola, e non l’abbandonava durante la notturna toeletta… Per distrarsi volle pensare a sua figlia, ma anche lì mille immagini ribelli lo tormentavano…

– Signore Iddio benedetto, che cosa ho addosso questa sera!

Era stato lo champagne! ne aveva bevuto troppo!… Stette così qualche tempo ancora, poi si alzò risoluto e uscì di camera.

Neppure Maria si era spogliata: era rimasta immobile per molto tempo, sdraiata nella sua poltrona, poi si era inginocchiata per pregare; e adesso, dopo aver pregato, tornava a piangere, a singhiozzare, quando udì bussare all’uscio, con un toccheggiare esitante:

– Scusami, cara, vorrei parlarti – disse al di fuori Prospero Anatolio, con voce malferma.

Maria asciugò in fretta gli occhi e aprì.

Prospero Anatolio entrò nella camera sorridendo: ma negli occhiettini bigi ebbe un lampo di malumore, vedendo la moglie ancora vestita. Maria non se ne accorse perchè il marito non la fissava in faccia, ma la guardava di traverso, mentre si buttava, come se fosse stanco morto, a sedere sopra un piccolo divano.

– Che cosa vuoi?

Prospero non rispose, ma si tirò accanto a Maria sul canapè, e con mano tremante cominciò a carezzarla ravviandole i capelli dalla fronte.

– È… partita. – balbettò alla fine, vedendo che sua moglie lo fissava negli occhi muta, impassibile. – È proprio andata via per sempre… Adesso, co-come vedi, ne sento tutto l’affa-fanno, non so darmene pace, mi turba un vuoto do-o-lorosissimo!

– Lo hai voluto tu, – rispose Maria seccamente.

Prospero Anatolio tacque a lungo, poi sempre senza osare di guardarla in viso, sussurrò qualche parola inarticolata, ch’ella per altro comprese bene. Si alzò di colpo, pallida, tremante: Prospero ne ebbe quasi paura; balbettò, volle scusarsi, e uscì dalla camera scomposto e barcollando come un ubbriaco.

Maria, superato il ribrezzo e lo sdegno, si era sentita agghiacciare. Le pareva che il Cielo, dopo averle così crudelmente spezzato il cuore, volesse anche schernire, svillaneggiare il suo immenso dolore, con quella domanda oscena che le veniva buttata in faccia! Si rannicchiò sul letto senza spogliarsi, e stette così fino al mattino. Quando si alzò, un colpo di tosse le addolorò il petto e la gola arsiccia, mentre sentiva correre sulle labbra alcunchè di denso, di tiepido, d’un sapore dolciastro; si asciugò la bocca e poi guardò il fazzoletto… era macchiato di sangue.

Allora Maria ritornò a piangere, ritornò a credere e a pregare: Iddio la consolava colla più cara delle sue promesse; e la morte sorrise alla povera donna come la sua ultima speranza, come il perdono e la pace.