Za darmo

Mater dolorosa

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XX

L’itinerario già stabilito dal duca non fu perciò punto modificato, e i d’Eleda partirono il giorno dopo per Borghignano. Non parve neppur conveniente che Giorgio li seguisse subito subito; egli avrebbe dunque aspettato un’altra settimana prima di raggiungerli.

Quei pochi giorni di tregua erano più che necessari a Maria. Trovare la calma, la pace, ella non poteva sperarlo, ma almeno, così, un po’ di tempo lo avrebbe avuto per raccogliersi in sè stessa, e rinvenire da quel colpo terribile, come chi, preso da capogiro, sente il bisogno di fermarsi, di chiudere gli occhi e di riposare.

Nel lunghissimo viaggio, la nobile famiglia non fece molti discorsi. Maria… si capisce; Lalla pensava al rumore che leverebbe la nuova di quelle nozze, e al dispetto della Giulia; Prospero Anatolio meditava il suo primo discorso in Senato, mentre l’agitata miss Dill, coll’emicrania, si rodeva per non poter sapere che cosa avrebbero fatto di lei dopo il matrimonio della sua scolarina. L’avrebbero tenuta in casa ugualmente alle condizioni di prima? la lascerebbero in libertà, con un assegno vitalizio? oppure la pianterebbero in mezzo alla strada? Perchè, con quegli egoisti, c’era tutto da aspettarsi!… Intanto sperava di trovare a Borghignano una lettera di don Vincenzo, al quale aveva già scritto, per consigliarsi, appena scoppiata la bomba.

Al loro arrivo trovarono la casa piena di parenti e di amici, e cominciarono le congratulazioni.

Un telegramma di Prospero Anatolio spedito da Pegli al conte Eriprando, aveva già divulgata la lieta novella, e dalla Curia Vescovile al gran Caffè di Borghignano, tutti la ripetevano l’uno all’altro, come l’avvenimento più importante della giornata.

Ogni parola, ogni complimento di quella gente vuota e pettegola era una stretta dolorosa per il cuore di Maria. Tutti erano infuriati a lodare la coppia bene assortita e ad enumerare con gli entusiasmi di occasione le gran belle doti del promesso sposo.

– Se dura la Sinistra al potere, in una prossima ricomposizione lo vediamo ministro, o per lo meno segretario generale – profetava solennemente uno dei suoi grandi elettori.

– Non è più un giovinetto, ma è sempre il gran bell’uomo – esclamavano le signore.

– Oh, quella santerella non è stata certa di cattivo gusto!

– Fortunata lei!

– E fortunato lui! – saltò su a dire un’altra amica che si teneva stretta al braccio della duchessa. – Se il Della Valle avrà una sposina simpatica, lasciatemelo dire, avrà pure anche la gran bella mammina!…

– Fra un annetto – terminò ridendo con amabile malizia, il medico di casa – avremo una nonna che potrà dare dei punti all’invidia ed alla gelosia di molte nipoti.

– Oh, sì; sì certo! – E così, continuamente, accanitamente, senza tregua, senza remissione, Maria era perseguitata, torturata, angosciata. Alla lunga non ci potè più resistere, e Prospero Anatolio, vedendola pallida con gli occhi incavati e le labbra arse dalla febbre, le domandava ogni poco se si sentiva male; ma poi cambiava subito discorso, contentato dalla prima risposta negativa, e soddisfatto in tal modo di non essere costretto a impensierirsene.

Quanto più grande era il coraggio di Maria, quanto più grande era lo sforzo col quale riusciva a dissimulare con tutti, anche con sua figlia, anzi più di tutti con lei, lo spasimo interno che la struggeva, tanto più forte era la scossa che il suo fisico ne doveva risentire. Anche l’arrivo improvviso di Giorgio, che anticipò di ventiquattr’ore il ritorno, fu cagione per la poveretta di angoscie nuove e inaspettate. Erano tutti raccolti nel salotto: Lalla al pianoforte, provava un notturno delicatissimo di Chopin quando, d’un tratto, la soneria del portone fece trasalire la poveretta… e un momento dopo, entrava, appena annunziato, il conte Della Valle.

Egli sembrava un po’ titubante per quella leggera infrazione al prescritto; e – mi perdonate? – domandò inchinandosi e salutando, mentre sentiva dentro di sè che Lalla era lì, presente. Eppure non aveva avuto il coraggio di voltarsi, di guardarla! La fanciulla arrossì… senza muoversi, miss Dill rimase dura, impettita, e il solo Prospero Anatolio festeggiò il nuovo arrivato saltandogli al collo, e abbracciandolo con enfatica tenerezza.

Poco dopo il Della Valle (che era riuscito per miracolo a schivare una discussione sul macinato), seduto accanto alla sua Lalla, tanto per avere un pretesto di restarle vicino, le voltava le pagine della musica. Ma quelle pagine, adesso, avevano una strana difficoltà nel piegarsi; le interruzioni si succedevano più lunghe e più frequenti, finchè la musica tacque, o per dir meglio cambiò di tono, e si mutò in un chiacchierìo sommesso intimo, affettuosissimo, non meno armonioso e molto più soave per quei due che si volevano bene. Venne il thè… e Lalla dovette alzarsi a servirlo lei. Giorgio voleva aiutarla, ma le offriva il cucchiaino quando occorrevano le mollette, e le mollette invece del cucchiaino.

Lalla, dopo servito anche il babbo, portò il thè al fidanzato – era un pensiero amabile, col quale voleva dire che per lei, egli era già della famiglia – e Maria notò che nel prendere la tazza, Giorgio strinse delicatamente la punta dei bei ditini affusolati della fanciulla, così che la tazza rimase sospesa fra quelle due mani; notò uno sguardo, lungo, tenerissimo, ricambiato; e quando Lalla dovette pure allontanarsi, Maria vide lui fatto più pallido per la cara voluttà di quel muto colloquio.

Dopo il thè non c’erano più altre scuse per Giorgio; bisognava andar via. Però egli fece e rifece i saluti lentamente, senza mai risolversi a infilar l’uscio; cercando tutti i pretesti per riattaccar discorso con l’uno o con l’altro, pur di fermarsi un po’ ancora. Fu lui; questa volta a tirar in ballo il macinato, e per mezz’ora lì, ritto in piedi, attento, senza interrompere, ascoltò il discorso politico di Prospero Anatolio, con una pazienza di cui Lalla gli mostrava cogli occhi quanto gliene fosse riconoscente. Nemmeno Prospero fu ingrato, e lo invitò a pranzo per l’indomani; ma i due fidanzati avevano una quantità di disegni e Giorgio aveva già trovato un pretesto per dover venire a casa d’Eleda anche nella mattinata. Adesso, per altro, bisognava andar via: anche Prospero era esaurito. Volle provare con miss Dill, e le buttò un motto sopra l’Irlanda, ma l’istitutrice, che fingeva aver più sonno del vero per fargli dispetto, lo guardò dietro il pince-nez, co’ suoi occhi pelati, in modo tale da disingannarlo, caso mai egli avesse potuto sperare di trovarsi un’alleata. Bisognava andarsene; bisognava andar via.

Il salottino era attiguo ad una specie di galleria lunghissima, che da una grande invetriata metteva capo allo scalone. D’estate, aperto l’uscio, si respirava dalla galleria un’arietta fresca, deliziosissima. Giorgio se ne andava lentamente… Lo si vedeva ancora, nel buio, e si sentivano i suoi passi battere scricchiolando sul pavimento, quando Lalla, accortasi ch’egli si era dimenticata non so che noticina per certe sue commissioncelle, gli corse dietro chiamandolo e rimproverandolo scherzosamente. L’altro si fermò sul pianerottolo dello scalone, poi tornò indietro. Allora Prospero Anatolio, che dal salotto li vedeva bene, fe’ cenno a Maria che si avvicinasse anche lei per guardarli. I fidanzati si credevano soli; si erano presa la mano, si parlavano vicinissimi, finchè Giorgio lentamente baciò i capelli della fanciulla. Prospero ridendo tossì e Giorgio scomparve.

– E pensare – esclamò il duca rivolto alla moglie, – e pensare che tu, un giorno, avevi voluto farmi geloso di lui!… Di nostro figlio!…

Lalla poteva chiamarsi felice. Non aveva più nulla a desiderare, era amata da chi voleva essere amata; la sua vanità era soddisfatta, come lo era il suo cuore, che credeva allora di amare e di amare sul serio. Ma, un bel giorno, mentre meno lei se lo aspettava, l’azzurro sereno di quella dolcissima pace fu intorbidito da un caso impreveduto.

La notizia delle nozze illustri era ormai giunta fino a Venezia, e capitata proprio all’orecchio di Frascolini quando il famoso cugino aveva appena alzato il tacco in cerca d’altri lidi, lasciando ai creditori la cassa vuota e la bottega chiusa. Sandro non voleva dar quella nuova alla sua Lalla, altrettanto divina quanto crudele; e ormai apertamente in rotta col babbo, non sapeva più a qual santo votarsi per far fortuna. Colla sua voce avrebbe potuto tentare il teatro, e quell’idea lo seduceva assai, ma una volta tenore bisognava rassegnarsi a perdere Lalla per sempre, e il nostro giovanotto era più che mai innamorato, quantunque si sforzasse per credere di non esserlo più. Anzi, senza saperlo, difendeva Lalla in cuor suo; e quando egli riusciva a trovare una buona scusa per la signorina si sentiva meno infelice. Col pensiero era sempre là: imprecava contro Lalla, giurava di vendicarsi, di odiarla come odiava tutto il mondo; ma, mentre era vero, pur troppo, che lui cominciava ad odiare e il mondo e i galantuomini, amava Lalla sempre di più, e con frenesìa sempre maggiore. Soltanto quando sentì la notizia del matrimonio, soltanto allora, diventò cattivo davvero. Tutte le passioni gli si scatenarono nell’anima. L’odio, la gelosia, l’amore, quanto egli aveva sperato e sofferto, poi l’abbandono, quel disprezzo noncurante e spietato, l’acre voluttà goduta, e sempre irritata dai vivi ricordi, tutto ciò lo avrebbero trascinato, spinto a qualunque eccesso.

Partì subito da Venezia, e senza un pensiero pel grave scandalo che ne poteva nascere, non appena smontò a Borghignano, si avviò difilato al palazzo d’Eleda.

La Nena fu la prima che lo vide. Stirava su nella guardaroba; e la sua emozione fu così forte da scottarsi le dita col ferro caldo.

– Maria Vergine! – esclamò, il signor Alessandro! – e non seppe dir altro. Ma l’emozione, il turbamento della povera ragazza non furono nemmeno avvertiti dal giovinetto che, a sbalordirla ancor di più, le domandò senza preamboli; – La signorina, dov’è?

 

– La duchessina?… è giù, in sala, colla signora duchessa e il signor conte Della Valle. Non si può vederla per ora.

A queste parole Sandro urlò una bestemmia, battendo il pugno sulla tavola: il colpo rimase attutito dallo stiratoio di lana; ma i ferri sobbalzarono così fortemente come il cuore della Nena. Il Frascolini le si avvicinò, le prese un braccio stringendoglielo in modo da lasciarle il livido, e – andate subito da lei, – le intimò fissandola di traverso – andate subito da lei, non importa fosse anche col Padre Eterno, e ditele che io… io, Alessandro, quello di Santo Fiore, sono qui che l’aspetto, perchè voglio dirle quattro parole e che, per Dio, non mi muovo di qui se prima non gliele ho dette.

La Nena uscì sbigottita. Non sapeva più se era desta o se sognava, se Frascolini era sano o ammattito; ma qualche cosa di vago, di indistinto, le stringeva il cuore e le facea intravedere d’essersi illusa quando avea creduto che quel ragazzo pensasse a lei, e le volesse bene davvero. Per altro aveva ancora la testa a segno, e invece di scendere dalla signorina, come voleva Sandro, corse affannata a riferir la cosa a miss Dill, la quale era appunto in camera sua, almanaccando senza far nulla col solito crochet fra le mani.

Appena inteso di che si trattava, la miss si tolse le lenti e sgranò gli occhi per veder in faccia la Nena.

– Venga, venga subito con me.

L’istitutrice si alzò senza fiatare. Altro che pensione, altro che rendita vitalizia!… Se si scopriva quell’amoretto, era spacciata! E corse da Sandrino per calmarlo.

– Non ascolto nulla, sono irremovibile. Voglia vederla, voglio vederla sul momento; ha capito?…

– Non si può, subito, non si può. Siate ragionevole, via, non le fate del male.

– Ci ha pensato lei, prima, se ne faceva a me, del male?

– Siate ragionevole, siate umano: se non volete per noi, siatelo almeno per la signorina! – La miss, a questo punto, aveva presa una mano del giovinotto e la stringeva fortemente, mentre gli occhi le si facevano loschi per la tenerezza.

– Oh, in quanto a lei, signora, mi commove poco anche lei. Ricordo, sa, ricordo bene tutte le sue cattiverie!… Io le inghiottivo per amor di quell’altra!… Ma la cuccagna è finita! – Stia ferma! – Non mi commove, le dico, non sono don Vincenzo!… Chiami subito la signorina.

Il nome di don Vincenzo, buttato lì quasi a casaccio, fece molto effetto sulla povera miss. Non fiatò più, abbandonò la mano del giovanotto e rinunciò ad ogni altro tentativo di seduzione. – Conducetelo nella mia camera, – ordinò alla Nena, – e aspettateci là.

– Ditele che ho fretta – insisteva il Frascolini – che non ho tempo da perdere, che se non viene lei da me, anderò io da lei, perchè è finita la cuccagna dei signori!… la legge è uguale per tutti!

… Giù, nel salotto, non c’era sintomo alcuno, foriero dell’uragano che si addensava minaccioso nel piano superiore; e quando miss Dill entrò non vi si udivano che le voci sommesse dei due fidanzati seduti, quasi nascosti, nel vano di una finestra. Discutevano scherzosamente sulle gradazioni dei colori vivaci delle varie lane che Lalla adoperava per un suo lavoro che stava allora tessendo, mentre Maria, nell’angolo di una finestra, rincantucciata nella sua poltrona con uno scialle buttato sulle spalle, perchè si sentiva intorno un po’ di febbretta, leggicchiava la Revue des Deux Mondes.

Là dentro spirava la calma e la pace: il sole vi penetrava appena, timidamente, dagli spessi cortinaggi, e i sensi erano ricreati da un’auretta molle, soavemente profumata, dai fiori freschi e delicatissimi, disposti con dovizioso disordine un po’ dappertutto.

Giorgio, appena entrata miss Dill, si alzò per stringerle la mano, domandandole conto della sua salute.

– Come al solito, molto poco bene. – L’istitutrice approfittò di quel momento nel quale il Della Valle si era allontanato da Lalla, e chinandosi sul piccolo telaio della fanciulla, e fingendo di esaminare il ricamo, le disse sottovoce: – È arrivato il Frascolini.

– Dov’è? – chiese Lalla fattasi un po’ pallida, ma senza scomporsi.

– È su, in camera mia; c’è la Nena di guardia.

– Vengo subito.

La miss prese un uncinetto dal cestino della signorina, e ritornò in fretta dal filodrammatico per tenerlo d’occhio.

Lalla fece ancora qualche punto del suo ricamo, poi si alzò adagino e si mosse per uscire.

– Dove vai? – le domandò Maria vivamente.

– Vado di là, a prendere un po’ di lana azzurra.

– È inutile adesso; andrai più tardi.

– Oh! bella, – esclamò Lalla sorridendo, – si direbbe quasi che ti secca, che hai paura, che non vuoi restar sola con Giorgio! Vado e torno. – Ed uscì.

Fece le scale adagio adagio; esitando ad ogni passo con un grande stringimento al cuore, non tanto per il timore, quanto per la ripugnanza, l’avversione ch’ella sentiva adesso di Sandro, perchè la incomodava, perchè l’angustiava proprio sul più bello della sua tranquilla felicità. Però, a mano a mano ch’ella si avvicinava a quell’incontro così scabroso, lo stringimento del cuore diventava sgomento e allora l’avversione, la ripugnanza si mutavano in odio. Nel corridoio incontrò ancora miss Dill e ve la lasciò di guardia. La Nena, appena ritornata l’istitutrice, era corsa via.

– E così… che cosa volete?… – disse la duchessina ad Alessandro, appena entrata in camera, aprendo lei il foco, subito, con alterezza stizzosa.

– Che cosa voglio? – esclamò l’altro: e vedendola così fresca e piacente nel vestitino succinto di mussolina bianca, sentì una scossa, come un fiotto di sangue caldo al cervello. – Che cosa voglio? Te, voglio, che lo hai giurato, che sei mia!

– Sua?… Da quando in qua, signor Frascolini?… Sandro si sentì pungere sul vivo e: – Meno arie, signora duchessina – le rispose un po’ sogghignando. – Ho buona memoria io, e sono qui apposta per provarlo a lei e a tutti.

Gli occhi, di solito così affettuosi, così soavemente timidi della fanciulla, ebbero a questo punto come un bagliore sinistro: diventarono foschi e torti, sotto le ciglia aggrottate; ma fu un lampo, e tutta l’espressione del suo volto si rifece dolcissima quando ella domandò al giovinotto:

– Mi vuol perdere dunque?… E perchè?… Che cosa le ho fatto di male?

– Che cosa mi ha fatto! – esclamò Sandro incrociando le braccia e parlando con voce bassa e tremante. – Che cosa mi ha fatto? mi ha ingannato, deriso, respinto, mi ha tradito. Si è fatta giuoco di me e del mio amore; mi ha messo in urto colla mia famiglia, in collera coi miei amici, mi ha fatto prendere in odio da tutti. Ero felice e mi ha avvelenata la vita; ero stimato e non sono più che un miserabile… e mi domanda freddamente, sorridendo, che cosa mi ha fatto di male?!… Ma, in nome di Dio, tanto male mi ha fatto, tanto male, che avrei ragione di strozzarla colle mie mani!…

E le lacrime gli rigavano calde calde le guance; le lacrime che gli uscivano proprio dal cuore, e per una parola, una parola sola di quella creatura esile, bionda, vaghissima che gli stava, ritta dinanzi, il povero innamorato avrebbe data la vita senza esitazione e senza rimpianto.

– Tanto male le ho fatto?… Io che non so di aver avuto nessun altro torto tranne quello forse di essere stata troppo debole… troppa buona con lei?…

– No, la sua non era bontà, era capriccio, era cattiveria! Lei ha voluto scherzare con me dimenticandosi che anch’io, quantunque povero, avevo un cuore che sarebbe stato spezzato; un cuore… plebeo, ma che perciò non avrebbe sofferto meno profondamente, e meno dolorosamente!

– Lei, signor Alessandro, si è un po’ illuso, ecco, ma io non ne ho colpa!

A queste parole il Frascolini perdette il lume degli occhi, non sentì più ritegno e gettò in faccia alla signorina tutte le contumelie le più atroci che gli corsero alle labbra. Era così forte, così furibonda quella collera, che Lalla impallidì tremando, non per lo sdegno, nè per la collera, ma più che altro per la paura.

– Maledetta, maledetta!… Ha il coraggio di venirmi a dire che sono stato io a illudermi!… – Io mi sono illuso! – Fosti tu a sedurmi, ad attirarmi, a circondarmi, a prendermi a poco a poco nelle tue reti, con ogni astuzia, con ogni lusinga, con ogni inganno! Tu sei venuta a cercarmi, tu mi hai voluto, tu, più corrotta nella tua fredda e sapiente verginità delle donnaccie da trivio, mi facesti sentire tutti gli spasimi, mi facesti godere tutti i piaceri della voluttà, e adesso hai il coraggio di contare a me, (a me di venirlo a contare!) che mi sono illuso!… Ma dimmi, non ricordi più quando ti strisciavi addosso a me, come un serpente?… Non ti ricordi più in qual modo mi hai baciato l’ultima sera a Santo Fiore?!… Hai proprio dimenticato tutto?!… Ma guarda, guarda, lo vedi questo anello? – e così dicendo le indicava un anello che Lalla aveva in dito, – ebbene, sono stato io che te l’ha dato, e allora, nel prenderlo, mi avevi promesso piangendo, – sì, piangevi falsa, bugiarda, piangevi! – mi avevi giurato che non saresti stata d’altri, che saresti stata mia, mia solamente.

Sandro aveva ragione. L’anello che Lalla teneva in dito era il suo, la turchina colle rose d’Olanda; lei però non ci pensava ormai più da che parte le era venuto; lo portava sempre perchè le piaceva, perchè era molto carino.

– Maledetta, maledetta! – continuava a urlare il Frascolini fra i singhiozzi; e Lalla, sempre più spaventata, scongiurava quel matto a non gridare, a non far nascere uno scandalo.

– Voglio gridare! Sì!… Voglio fare uno scandalo! Sei un’infame!

– Non gridi tanto, la prego, la supplico! parli più piano per amor del cielo!

– Voglio farmi sentire; voglio vendicarmi, voglio farmi sentire da tutti, e poi… e poi quell’altro lo ammazzerò! Il Medio Evo è finito! Un cane di nobile non vale adesso più d’un altro cristiano!

– Pietà di me!… lei mi fa morire! pietà… un po’ di pietà!…

– No, no e no! È stata una perfidia troppo grande. Mentre laggiù, a Venezia, chiuso in uno stambugio senz’aria e senza luce, mi logoravo la vita, tu, soddisfatto il tuo capriccio, mi schernivi, e facendo la civetta, la sguaiata coi nobilucci leccati e profumati, preparavi il tuo bel matrimonio!… Maledetta! – E il Frascolini gridava sempre più forte, voleva uscire, voleva scendere da quell’altro, schiaffeggiarlo, vendicarsi. Lalla era tanto spaventata dal pericolo serio che correva, da non rilevare nemmeno tutti quegli insulti. Si era lasciata andare in un dirotto pianto, e, buttatasi ginocchioni fra Sandro e l’uscita, lo supplicava di chetarsi, di perdonarle, stringendogli le ginocchia, baciandogli e coprendogli di lacrime le mani rozze e callose. Ma lui non sentiva pietà, non voleva saperne di misericordia. – Bisognava finirla con tutte le sue commedie, con tutte le sue falsità; non avrebbe più potuto ingannare nessuno!… Tutti dovevano sapere che cos’era di buono!… Tutti!

– Alessandro, Alessandro mio, un po’ di compassione, non le domando altro che un po’ di compassione!

– No… Nessuna compassione! Voglio scendere, voglio vedere il tuo amante, voglio dirgli chi sei!

– Dio, Dio, ma se non… se non l’amo, se non posso amarlo, te lo giuro!

– Menti. Sei bugiarda.

– No. È mio padre che vuole, non io, è mio padre! Quanto non avevano potuto ottenere nè il pianto, nè le smanie della fanciulla, l’ottennero invece queste semplici parole. Sandro si calmò subito, come per incanto; e abbassando la voce, prendendole un braccio, e stringendolo fortemente: – E allora, tu, perchè lo sposi? – le domandò fissandola cogli occhi foschi.

Lalla respirò: capiva che aveva vinto finalmente, e che ormai aveva poco da temere.

– Lo sposo perchè mio padre lo vuole; lo sposo dopo aver sofferto in questi due mesi quanto di più orribile si può soffrire al mondo. Oh, Alessandro, lei non può capire… non conosce mio padre, lei!… Non mangiavo più, non uscivo più, non facevo altro che piangere; mio padre rimaneva inflessibile, minacciandomi che se non mi piegavo alla sua volontà mi avrebbe condotta nel Belgio e rinchiusa, per sempre, in un monastero. Allora, istupidita dal dolore e dalle privazioni, ho ceduto e – Alessandro non saprà mai quello che si agita nel mio cuore – ho detto a me stessa, – ma almeno… qualche volta potrò ancora vederlo.

– Se mi hanno detto che lo ami, che tu facevi l’amore anche a Pegli col conte Della Valle?

– La gente lo avrà creduto; ma, se sia vero o no quanto le ho detto, ne domandi conto alla Nena e alla miss!

Sandrino anche in quelle parole sentiva correre la bugia, ma era una bugia così cara per lui, che egli non ebbe più coraggio di opporsi e di smascherarla. Invece, stanco, abbattuto, vi si abbandonò anima e cuore, come a un conforto, come alla sua ultima speranza.

 

Successe un lungo silenzio fra i due giovani. Sandro fissava la signorina ostinatamente, cogli occhi torvi, pallido, e col respiro greve, affannoso.

Lalla, ritta in piedi, giuocherellando colla catenella dell’orologio fra le dita tremanti, di tanto in tanto alzava la testolina, lo guardava dolcemente con un leggero tremito delle labbra, con un’espressione indefinibile, piena di affetto e d’indulgenti rimproveri, e poi, subito, la riabbassava intimidita.

Sandro, vinto, tremando a sua volta, le si avvicinò.

– Dunque… me lo giuri?… Dopo potrò… potrò ancora vederti?

Ci fu un altro sguardo della fanciulla, tenero, lungo, timidissimo, che terminò con un – sì – quasi impercettibile, che era tutto una carezza.

– Ebbene… ricordati, ricordati che se m’inganni anche questa volta, guai!… guai!… – Ma l’intonazione di questi due – guai – pronunciati dal giovanotto non era la stessa, perchè la seconda volta Sandro, presa Lalla d’improvviso fra le braccia, finì quel secondo – guai! – con un bacio ch’egli le stampò sulla bocca e nel quale c’era dentro l’amore, la collera, la gelosia, l’anima e le passioni tutte del povero innamorato. Lalla purchè egli se ne andasse in pace, purchè non la compromettesse col suo furore insensato, non si oppose che debolissimamente; e allora si sentì addosso una furia di baci che parevano morsi, sul collo, sui capelli, sugli occhi, sulle guance, sulle vesti, dappertutto. Sandro, inebriato e irritato, non più pallido, ma acceso in volto, con strette febbrili brancicò pazzamente quel corpicciuolo tanto bramato, finchè, intimidito, vinto da uno sguardo, da un muto rimprovero della fanciulla, ch’era una eloquentissima supplica di rispettarla, fatta ancor più efficace dal suo rassegnato abbandono, la strinse un’ultima volta al petto, così forte da farle male, una ultima volta le soffocò la bocca colla sua, lungamente, rabbiosamente, e poi superata la tentazione da cui era dominato, gettò lungi da sè quella creatura fatale, uscì ratto dalla camera e fatte le scale d’un salto corse via dal palazzo d’Eleda e, ben presto, anche da Borghignano.

Appena uscito Sandro, Lalla si rialzò, libera finalmente, e lo seguì con gli occhi scintillanti, pallida, tremante di sdegno e di odio, perchè adesso la paura era cessata. Si asciugò dispettosamente, col palmo della mano, la bocca ancora umida dei baci di lui, che le facevano schifo, e colla gola strozzata, colla voce sorda, ma con un desiderio cocente di vederlo cader fulminato, gli gridò dietro: – Villano, villano!… – Poi, siccome non c’era tempo da perdere, senza spiegarsi punto colla miss che la guardava stralunata, corse nella sua cameretta, si bagnò, si lavò gli occhi per bene con dell’acqua freschissima per levarne il rossore, si aggiustò l’abitino sgualcito, sciupato, si ravviò i capelli, rifece il fiocco della cravatta, ringraziò in fretta il buon Dio per il pericolo sfuggito, e presa la lana merinos, ch’era stata il pretesto della sua scappata, discese e rientrò quietamente nel salotto. Sulla porta incontrò il Della Valle che ne usciva allora, in cerca di lei.

– Un po’ di pazienza, signor conte! – gli disse Lalla, sorridendo con molta grazia. – Un po’ di pazienza!…

– Via non mi sgridi… Un’altra volta l’aspetterò senza fiatare. Così sarà contenta, lei? – e Giorgio segnò appunto quel lei, che era stato uno scherzo della fanciulla.

– Come, non c’è la mamma?

– È uscita quasi subito… Si direbbe che ha paura a star sola con me!

– Che fortuna – pensava intanto Lalla in cuor suo – che alla mamma non sia venuto in mente di correre a cercarmi!

Erano soli nel salotto, cosa che accadeva loro di rado. Lalla aveva preso un fiore dalla cesta di mezzo al tavolo e in punta di piedi si sforzava per aggiustarlo nell’occhiello dell’abito di Giorgio, arrabbiandosi con attucci piacevoli, perchè non ci riusciva. Giorgio, innamorato più che mai, aveva circondato con un braccio il bel vitino della fanciulla e parlandole fra i capelli, le domandò la grazia di un bacio.

Lalla non rispose, ma rialzò quel suo visetto così fine dove si scorgeva adesso un amabile sorriso far capolino di sotto ad una comica serietà, e facendosi un po’ indietro colla persona, alzò le manine e gliele porse tutte due unite sulle labbra, con un garbo che voleva dire: – Ti fo grazia delle mie mani, baciale pure, ma ricordati bene che chi comanda sono io! – Il Della Valle, uno dopo l’altro baciò allora quei dieci ditini bianchi, dalle unghie rosee di madreperla, ma poi, vedendola ancora sopra pensiero: – Scommetto – le disse – che indovino a cosa tu pensi in questo momento.

– Davvero? – e Lalla sorrise di quella ingenua pretesa.

– Tu pensi a tutto il gran bene che io ti voglio.

– Oh, no!… niente affatto!

– Tu menti… e menti senza arrossire!

Lalla glielo lasciò credere volentieri: ma non mentiva. – Che fortuna – pensava ancora la duchessina fra sè – che alla mamma non sia venuto in mente di correre a cercarmi!