Za darmo

Mater dolorosa

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XVIII

La famiglia d’Eleda non si fermò a Borghignano che pochissimi giorni. Maria non si fece quasi vedere da nessuno e ripartì col marito, Lalla e miss Dill, alla volta di Pegli, dove avevano stabilito, tutti d’accordo, di far la cura dei bagni.

Pegli era allora di moda. Vi si vedeva raccolto il fior fiore dell’eleganza, e fra gli altri c’era anche il conte Pier Luigi da Castiglione, il quale aveva abbandonata la diplomazia perchè oramai, mortagli la moglie, non trovava più alcun bisogno di star lontano da casa sua. Quantunque vecchio, Pier Luigi era un sottaniere incorreggibile: grande, grasso, floscio, colla faccia rasa bucherellata dal vaiolo, la pelle viscida, il capo pelato, coperto solo dai pochi capelli della nuca variopinti, lunghissimi, tirati sul cranio e incollati l’un presso all’altro con una maestria singolare. La bocca sdentata; il naso enorme, paonazzo, carnoso, sembrava una spugna filettata di vene azzurrognole. Era un coso, insomma, assai ributtante; ma aveva molti quattrini, preferiva nelle donne la forma alla sostanza, e quando riusciva a snidare qualche nuova selvaggina (era la sua frase) le si fregava d’attorno con un’insistenza così paziente e così petulante, da farsela cadere nelle mani nove volte su dieci. Bisognava vederlo il vecchio e grosso sornione a strisciar fra le quinte o a salterellare nei salotti di dubbia fama! Le mime, le ballerine, le cantanti da operetta, lo chiamavano – lo zio, – ed egli gongolava tutto a fare il coccolo, il bambinone, in mezzo a quello sciame di cicale. E anche dopo soddisfatto il capriccio non le lasciava andare; ma continuava a tenersele sotto mano, a visitarle nelle ore perdute, a regalarle di chicche e di fiori. Prendeva parte ai loro affari, dava consigli a proposito dei protettori, e le informava paternamente della cifra che questi potevano spendere, le rappattumava coi loro amanti, pettegolava colle cameriere, le teneva tutte sotto le sue ali, come s’egli fosse la chioccia del bordello.

Quando gli andò in paradiso la moglie, Pier Luigi tirò un sospirone; non doveva più correre fino a Parigi, a Vienna o a Berlino per divertirsi; tutto il mondo è paese, e il conte da Castiglione aveva capito che anche in Italia c’era da godersela abbastanza bene. Ma la fortuna, quella maledetta fortuna, proprio sul più bello del gioco, gli fece un tiro birbone: gli fe’ cadere addosso, nientemeno, una pupilla dai diciannove ai vent’anni, una nipote della sua povera moglie, la quale, in tal maniera, lo teneva legato alla catena anche dal mondo di là. La signorina Giulia di Rocca Vianarda era un bel pezzo di ragazza; pareva lavorata nel burro; bianca, rosea, tondeggiante, con certi capelli neri da zingara e due occhi grandi che bruciavano. Ma aveva la disgrazia di appartenere a una gran famiglia, e di essere senza un soldo di dote, ragion per cui Pier Luigi poteva ben correre con lei tutti gli stabilimenti di acque e di bagni da Santa Maria a Viareggio; un marito, un marito purchessia, non c’era verso di poterlo trovare.

Il povero tutore sbuffava; si tingeva a più radi intervalli, e cominciava per davvero a piangere sua moglie, che almeno lo lasciava libero all’estero e che, se fosse stata ancora quaggiù, se l’avrebbe digerita lei, la nipote!

– È stato un accidente, è stato: – un tiro di mia moglie, un tiro! – esclamava in tono di lamento il povero Pier Luigi, che aveva l’abitudine di ripetere le parole; e, non trovando altri partiti possibili, vagheggiava l’idea di far sposare la pupilla a suo nipote Giorgio Della Valle. Per cominciare dunque a mettere la paglia vicino al fuoco, egli aveva scritto a Giorgio che lo aspettava a Pegli, ma senza comunicargli il proprio disegno… per non spaventarlo.

Intanto era un conforto per il conte da Castiglione quando riusciva a collocare la Giulia in qualche famiglia di conoscenti. Di solito, appena arrivava in un albergo, sua prima cura era quella di studiare la tabella dei forestieri. Se c’era una qualche signora che gli poteva andar bene, anche se non la conosceva affatto, trovava sempre la via, immaginando conoscenze reciproche, fabbricando giri e rigiri di parentele, di diventare amico e, alle volte, di scoprirsi suo mezzo parente. Ma a Pegli non era riuscito di trovar nulla. C’erano molte signore sue amiche; ma erano lì per divertirsi, per essere libere, per farsi corteggiare, e di fare la parte di madre nobile non ne volevano sapere; ed egli si dava già per un uomo perduto, quando un bel giorno, colla gioia di una gratissima sorpresa, lesse sulla lista dei nuovi arrivati all’albergo, anche il nome del duca d’Eleda con famiglia.

Fece i gradini a due alla volta e capitò ansando in camera della pupilla cogli occhi che gli brillavano sotto le ciglia spelate, e coi capelli ingommati che gli si sollevavano tutti uniti sul capo, come un guscio d’ostrica.

– È arrivata la duchessa d’Eleda, è arrivata!

– La duchessa d’Eleda?… Non la conosco… – rispose Giulia, che non potè a meno di sorridere vedendo la faccia ridicola del rispettabile tutore.

– Come non la conosci?… Devi conoscerla. È la figlia del fratello del tutore di mio nipote, è la figlia, perciò siamo quasi, potrei dire, mezzo parenti. Vieni presto, da brava; andiamo subito a salutarla. La duchessa era amica intima della tua povera zia, io sono amicissimo del duca, faremo vita insieme, faremo.

– Domani o dopo arriva anche Giorgio…

– Tanto meglio!

E così, mentre Maria con Lalla e con Prospero stava per scendere nella sala da pranzo, venne annunziata la visita di Pier Luigi e della Giulia. Furono subito ricevuti e con molta cordialità.

Le fanciulle si scambiarono una rapida occhiata, e bastò perchè si valutassero a vicenda! Lalla trovò Giulia troppo grassa, Giulia trovò Lalla troppo magra, e così rimasero contente tutte e due. Dopo il solito scambio di gentilezze scesero sul terrazzino, in riva al mare, aspettando insieme che suonasse la campana della table d’hôte; poi a pranzo, parlarono di Firenze, di Roma, di Borghignano, domandandosi conto reciprocamente degli amici comuni. Maria, per altro, sebbene quelle chiacchiere fossero assai banali, sentiva dentro di sè una viva inquietudine. Chi l’avesse attentamente osservata, avrebbe notato in lei un leggero tremito che alle volte la faceva trasalire. Parlava distratta; ma invece era confusa: perchè?… Perchè prevedeva che il discorso, a lungo andare, sarebbe caduto su Giorgio Della Valle.

– È molto tempo, duchessa, che non ha notizie di mio nipote?

Prospero Anatolio, che non si aspettava la domanda, si fece serio, senza volerlo, mentre Maria rispondeva un – no – quasi impercettibile.

– Oh, col Della Valle, io e mia moglie – rispose pronto il d’Eleda – abbiamo molti conti da aggiustare.

– La politica lo guasta – concluse Pier Luigi con tono convinto – e bisogna dargli moglie, bisogna. Il giudizio è come lo spirito: colle donne chi ne ha lo perde, e chi non ne ha lo acquista… chi non ne ha!…

A quella notizia dell’arrivo di Giorgio, Maria impallidì; anche Prospero, quantunque l’accogliesse con un grazioso sorriso, ne avrebbe fatto senza volentieri. Tuttavia il pranzo finì lietamente come era incominciato, e alle frutta, Pier Luigi, vedendo che le fanciulle, perfettamente dimesticate, chiacchieravano insieme, ridendo e scherzando, esclamò rivolgendosi alla duchessa Maria: – Era proprio quello che mi ci voleva!… La Giulia, poveretta, trovandosi sola a Pegli si annoiava mortalmente. Spero però che la nostra duchessa sarà tanto buona da voler dividere con me le cure paterne, per le quali son proprio disadatto, e da permettere che qualche volta affidi a lei e a miss Dill la mia cara pupilla!…

La miss rispose con una smorfia. Ne aveva già una delle ragazze da sorvegliare, e le bastava; la duchessa graziosamente accettò e, tanto per cominciare, il conte da Castiglione le lasciò in custodia la Giulia, subito, quella sera medesima, mentre lui aveva da fare una scappatina a Genova.

A Pegli si poteva proprio dire che la gente vi si annoiava a furia di divertirsi. Di giorno, le passeggiate nella villa Pallavicini, e le gite in mare; la sera conversazione, concerti, feste da ballo… e, anche a Pegli, Maria ebbe subito il primo posto, senza cercarlo e senza volerlo, mentre invece rimpiangeva la quiete e la pace di Santo Fiore.

Il mondo, che d’altronde non può mutare, era sempre il medesimo: frivolo, corrotto, tristo. Maria vedeva gli uomini più seri e più stimati, cercare l’amicizia di suo marito, per poterla meglio corteggiare e insidiare. Non uno le aveva dato prova di sentimenti nobili e leali.

Non uno?… sì! uno c’era stato; ma per farla penare maggiormente.

Maria e Giorgio, la prima volta che si erano incontrati a Pegli, si erano salutati con quell’aria diplomatica colla quale le persone per bene si credono in obbligo di soffocare ogni cordiale espansione. – Oh! Buon giorno, conte; anche lei a Pegli? – Di passaggio, duchessa… – Tal e quale come se si fossero veduti il dì innanzi; invece dall’ultima visita del conte Della Valle a Santo Fiore erano trascorsi vari anni. Però l’emozione di Maria era stata così viva, che interamente non potè sfuggire nemmeno a Giorgio. Il rossore delle guance, l’occhio scintillante, il tremito, il bruciore della mano, tutto ciò fu notato da Giorgio che trovò la duchessa più bella, più buona e più affettuosa. Maria trovò Giorgio sempre lo stesso e perciò continuò ad amarlo… sempre di più.

Pier Luigi, appena Giorgio gli capitò fra le mani, cominciò subito, colla sua arte di vecchio diplomatico, a tastare il terreno. Gli domandò se ancora non aveva pensato di mettere la testa a partito, – di abbandonare la sinistra e di offrire la destra ad una donnina che lo facesse marito felice e padre fecondo… – Gli ricordò che i trentacinque anni erano suonati, che i Della Valle, se non ci pensava lui presto presto stavano per estinguersi, e che ad una certa età, la moglie fa anche bene alla salute.

 

Giorgio gli rispose francamente che ci aveva già pensato, che stava pensandoci ancora; ma però egli voleva sposare una ragazza della quale fosse innamorato, una ragazza che sapesse fargli perdere la testa.

– E in quanto alla Giulia – soggiunse ridendo – sai che cosa ne dovresti fare?

– Che cosa?

– Tua moglie.

– Mia moglie?

– Sicuro… tanto per liberartene.

– To’, non ci avevo pensato… non ci avevo… In un caso disperato… la sposerò io!

Se a Pegli si divertivano molto, non era vero, per altro, che si divertissero tutti.

Le ragazze, per esempio, vi erano molto trascurate; e si annoiavano. Qualche senatore gottoso che si faceva recitare gl’Inni Sacri, o – l’Addio ai monti – del Manzoni: qualche vecchio professore della scuola romantica, qualche pivellino che si raspava la pelle per farsi crescere i baffi, e finalmente qualche ufficiale superiore colla pancia e cogli occhiali, erano i soli adoratori, e i ballerini delle ragazze. Del resto, tutto quello che c’era di brillante e di elegante apparteneva alle signore. Il coro… dell’innocenza aveva un bel da fare, tentava tutti gli espedienti e tutte le attrattive: il candore, la modestia, la lingua inglese, il pianoforte, ma non c’era verso; scambiate appena quattro parole di convenienza, quelle povere ragazze erano piantate in asso, attorno al tavolo del thè.

Lalla pareva ne soffrisse meno delle altre; ma non era vero. Era brava, invece, e riusciva a non lasciare scorgere la propria rabbietta. Sentiva anche un po’ d’invidiuccia contro sua madre, tanto cercata e tanto festeggiata, e si vedeva troppo lontana dai trionfi che si era ripromessi; ma tuttavia, non disperava. Aveva capito che per ottenerli non le mancava più che un marito: il punto di contatto, appoggiata al quale la donna solleva il mondo.

Un marito?… Lalla portava un gran nome, era l’erede di una grande fortuna; quantunque non fosse bella, era assai piacente. Oh, un marito non si sarebbe fatto aspettare!… Anzi, non avrebbe avuto che da scegliere!… E Lalla si guardava attorno cogli occhi belli che vedevano, che scoprivano tutto, anche quando li teneva abbassati e raccolti, con quell’aria modesta che la faceva somigliante ad una Vergine del Murillo.

Le cose erano a questo punto, quando una sera nella quale a Pegli si ballava per beneficenza, le ragazze annoiate e ristucche si riunirono in congiura.

– È ora di finirla e di vendicarsi! – esclamò la Giulia con gran calore.

– Come fare?

– Sì, brava; se si potesse vendicarsi!

– In che modo?

– Facendoci sposare!

Tutte le ragazze applaudirono ridendo, e correndo dietro a Giulia uscirono sul terrazzo.

– Va bene, ma come si fa?

– Bisogna scegliere prima il fortunato mortale a cui destiniamo l’impareggiabile possesso del nostro cuore; poi quando lo avremo scelto, farlo restare sul colpo… innamorato morto. Ci state?

– Sì! Sì! Sì! – gridarono in coro tutte le ragazze.

– Allora seguitemi e guai ai vinti! – Giulia correndo in giro sul terrazzo, si fermò ad una finestra della sala da ballo e, indicando alle compagne le coppie che passavano ballando, cominciò con voce nasale, imitando il modo di parlare del suo tutore: – Signorine! Vedete quell’animale, vedete, bianco di sotto, nero di sopra nero, piuttosto brutto, piuttosto?… Ebbene, quell’animale si chiama uomo. È irragionevole, e basterà a dimostrarlo la sua indifferenza a nostro riguardo. Tutti gli uomini sono uguali dinanzi a Dio; non è così, peraltro, dinanzi alla donna, la quale, secondo i gusti li preferisce biondi, neri o marrons…

– Glacés!

– Silenzio, Lalla!

– Non interrompere!

– È bipede sempre – continuò la Giulia – quantunque alle volte, quantunque… basta, pare impossibile, pare. Ha il dono della favella, ma pure conserva ancora una grande difficoltà nel pronunciare il monosillabo sì matrimoniale.

Ci fu uno scoppio d’applausi; ma la Giulia ristabilì prontamente il silenzio, e continuò:

– Quell’animale, signorine, noi dobbiamo sceglierlo per nostro legittimo consorte. È una sventura; ma siccome le sventure non vengono mai sole, così, vi avverto può succedere il caso che quello scelto da noi non ne voglia sapere… non ne voglia!

– E allora, come si fa? – domandò una piccola biondina col naso schiacciato e rivolto all’insù, che prendeva viva parte al giochetto.

– Allora, o si va in convento, o si medita un suicidio, oppure, meglio, si ricomincia da capo, scegliendone un altro.

– Brava Giulia!

– Brava!

– Alla scelta!… Alla scelta!

– Va bene, ma a chi tocca scegliere per la prima?

– Io direi di andare per ordine di anzianità – propose la figlia di un colonnello della Territoriale.

– Benissimo!

– Allora tocca alla Giulia…

– Veramente non saprei… se tocca proprio a me.

– Quanti anni hai tu, Isa?

– Diciotto.

– E tu?

– Diciassette.

– Diciotto.

– Diciannove.

– E tu Lalla?

– Io?… sedici; ma vi avverto che se una di voi si sceglie il marito che piace a me, io non lo cedo a nessuno.

– Senti come prende fuoco la santarella!

– Animo, animo, senza tanti discorsi; tocca alla Giulia.

– Ebbene, non perchè sia la più vecchia; ma accetto il posto d’onore, come un tributo della vostra sommissione.

– Bene, approvato! – esclamò Lalla; – e ora a noi: tu Giulia hai il numero uno, tu Clara il numero due, la Isa il tre, l’Adele il quattro.

– E io?… – E noi?… – interruppero le altre, non comprese nella lista.

– Abbiate pazienza voi – rispose Lalla, – come ne ho io. Giustizia vuole che sia servito prima chi è più tempo che aspetta.

In questo punto gli accordi di un valzer di Rovere echeggiarono nella sala da ballo; le fanciulle si strinsero tutte serrate alla finestra e proprio di contro a loro videro le coppie aggruppate che una alla volta si avanzavano ballando, finchè la sala, che prima pareva quasi vuota, si popolava, si affollava di figure, di colori, di fiori, di trine, di gemme, mentre la musica della piccola orchestra rimaneva soffocata dal tramestìo delle voci varie, confuse e dallo strisciare e il battere dei piedi sul pavimento, misto col fru-fru cadenzato dei lunghi strascichi delle vesti.

– Attento il numero uno! – gridò Lalla alla Giulia. La prima coppia che si avanzava era composta di una signora attempatotta, enormemente grassa ed ansante, che si teneva attaccato un piccolo tenentino ai cavalleria, biondo, roseo, paffuto e ricciutello, il quale, davanti a quel donnone, pareva proprio che ci fosse a balia.

– Chi prende il tenentino Pippoli?… Numero uno a rispondere!

– Rifiutato.

– Numero due.

– Rifiutato.

– Numero tre.

– Idem.

– Numero quattro?

– Come sopra!

– Allora lo prenderò io, – -disse timidamente la biondina, quella del naso all’insù.

– Signore anziane, accordate Pippoli alla postulante? – domandò Lalla alle altre ragazze.

– Accordato! Accordato! – risposero in coro.

– Ed ora, attente.

Adesso veniva una ballerina che si teneva ciondoloni in braccio ad un bel signore alto, biondo, colla chioma studiatamente inanellata, la scriminatura larga, diritta, giusta, la gardenia all’occhiello della giubba e il pince-nez dorato. Ballava, tal e quale, come se facesse la cosa più seria del mondo, respirando a tempo di musica e non curandosi affatto della compagna, tutto compreso in una gran prosopopea.

– Attenta, Giulia, – esclamò Lalla vedendolo, – questo… è magnifico!

– Oh! bello! Oh! bello! Oh! bello! – esclamarono tutte insieme, con finta ammirazione.

– Numero, uno, è per te.

– Stupendo, ma non lo merito: lo cedo al numero due.

– Troppo tardi, la scelta è già fatta.

– Anch’io, – riprese la Giulia, – mi sono impegnata.

– Allora al numero tre, – disse Lalla.

– Non posso. Il mio cuore è già preso; o lui o il convento.

– Ma veramente, lo statuto si oppone ai voti segreti.

– No, no!… La scelta è libera! – esclamarono di nuovo le ragazze. – Ci siamo tutte maritate ormai!… Di nubile non c’è più che Lalla!

– Oh! io non ho premura e non mi sgomento; mi voglio prendere… chi sarà il vostro preferito!

– Bene! Brava! Bravissima! Accettato! – e le allegre giovanette incominciarono a battere le mani gridando: si divertivano a far rumore e ci tenevano a farsi notare.

E qualcheduno infatti già cominciava a prestar attenzione a quello stormo di belle ragazze: anche il conte Della Valle, ch’era ritto in piedi, pensoso ed immobile in fondo alla sala, alzò il capo, ma non si mosse; si mosse invece e uscì sul terrazzo un avvocatuccio un po’ attempatello, rotondo come un barilotto di vermutte, colla sua brava medaglia di deputato appesa alla catenella.

– Oh! Oh! Dove si nascondono, dove si nascondono le signorine belle? – cominciò l’onorevole – qui si ride e…

– E là si muor! – rispose subito una del coro canticchiando e nascondendosi dietro le compagne, che ridevano e scherzavano.

– Vediamo un po’, vediamo un po’, – continuava l’onorevole, – che cosa vuol dire questa diserzione in massa dalla sala da ballo?… C’è chi lamenta, e a ragione, la scomparsa dei nostri fiori più belli.

– Oh, caro! par vivo! – borbottò Lalla, a mezza voce, tanto da esser intesa solo dalle compagne, mentre assumeva in faccia al deputato un’aria contegnosa. E le altre, senza dargli retta, cominciarono a corrergli d’intorno, domandandosi e rispondendosi sempre ridendo: – Numero uno, è per te! – Grazie, non ne prendo! – Numero due! – Non ne voglio! – Numero tre! – Rifiutato! – Numero quattro! – Respinto! – e scappando, chi di qua, chi di là, lasciarono solo, con un palmo di naso e con un sorriso ancora da finire sulle labbra il pover’uomo, che se ne tornò via mogio mogio. Sparito il deputato, tutte le fanciulle, come uno sciame d’uccelletti, ritornarono, correndo, attorno alla finestra.

– Dunque, dal momento che la nostra scelta è fissata, ir-re-vo-ca-bil-men-te, – disse la Giulia, – confidiamoci a vicenda, giurando prima di dire la verità e null’altro che la verità, lo sposo scelto dal nostro cuore, per cercare di metterci d’accordo, nel caso di elezioni contrastate, e schivare i danni della concorrenza… e schivare!

Ma, pare impossibile, una proposta tanto opportuna fu accolta freddamente e, messa ai voti, venne respinta.

La Giulia replicò, ma non ebbe miglior fortuna, e invece fu approvato all’unanimità un emendamento di Lalla, che proponeva di scegliersi un’amica comune, alla quale ognuna avrebbe confidato il proprio segreto. In tal modo, nel caso contemplato dalla Giulia, di un solo marito scelto da due o più pretendenti, l’amica ne informerebbe le parti interessate invitandole ad un accordo amichevole.

– Sta bene, ma chi sarà la depositaria dei nostri segreti?

– Lalla; è la più giovane, è la più buona; e poi, ancora non ha scelto nessuno.

Il nome di Lalla fu accolto con favore, e la piccola duchessina fu tirata di qua è di là dalle fanciulle che se la contendevano e che pian pianino, una dopo l’altra, dentro l’orecchio, sotto voce, nascondendosi la bocca dietro la mano, le confidavano il nome del proprio sposo, meno la biondina dal naso all’insù, che dichiarava apertamente di restar fedele al tenentino Pippoli. Lalla, indifferente dopo ascoltata la prima confessione, alla quale sorrise, alla terza fece un atto di meraviglia, alla quarta non seppe più contenersi e dopo l’ultima divenne pensosa.

Tutte le compagne la guardavano stupefatte senza capire, mentre Lalla le fissava seria e muta.

– E dunque? – chiese la Giulia.

– Ma parla!

– Che hai?

– Vuoi rispondere, sì o no?

– Parlerò, e sarà sempre troppo presto.

– Insomma, vuoi spiegarti?

Lalla, lentamente, pronunciò un nome. Le fanciulle si guardarono tra loro, s’intesero, senza dir motto, e dopo di essersi tenute il broncio per un momento, proruppero in una grande risata.

Nelle confidenze delle sue amiche, Lalla non aveva udito che un solo nome; tutte insieme, e senza saperlo, avevano scelto lo stesso sposo: il conte Giorgio Della Valle.

– Non c’è altro da fare in questo frangente, che raccomandarsi alla sorte, – esclamò Giulia. Era sempre lei quella delle proposte. – Mettiamo tutti i nostri nomi in un’urna, come nel Ballo in maschera, e il primo estratto diventerà la contessa Della Valle.

– No, – obbiettò Lalla, senza ridere. – . Sacrificatevi tutte a un modo e cedetelo a me.

– A te? No, no!

– Nemmeno, per sogno!

– Sentite; io non l’ho scelto, per cui non sono una rivale, e non avrete la mortificazione di prendervi un marito destinato dalla sorte.

 

– Te?… Che cosa vuoi che ne faccia di te? Sei nata ieri!

– È un difetto a cui sarà rimediato domani.

– Bella pretesa! – disse Giulia, pavoneggiandosi coll’alta persona, che primeggiava. – Sei tanto piccola che per darti un bacio dovrebbe tirarti su colla carrucola! – E la duchessina divenne allora lo zimbello di tutte le ragazze che la tormentarono con un accanimento feroce, per quanto fosse da burla. Ella però le lasciò dire sorridendo e sopportando le cattiverie delle amiche senza punto arrabbiarsi; ma anche dopo finito il giuoco, rimase sopra pensiero: l’incidente le aveva fatto un’impressione vivissima.

Essa cominciò a guardare con grande attenzione quell’uomo singolarissimo che aveva ferito la fantasia di tutte le sue compagne: lo trovò piacente, lo vide cercato da tutti e accarezzato, mentre attorno al suo nome crescevano il rispetto e l’ammirazione. Egli era ricco, i Della Valle per condizione sociale valevano bene i d’Eleda…

– Come la Giulia rimarrebbe attonita – pensava Lalla – come si arrabbierebbe, se io riuscissi a farmi sposare davvero! L’impresa non era facile; ma la duchessina si sentiva istigata a tentarla… e la tentò.

Subito, appena entrata nell’ambiente suo naturale, Lalla aveva cominciato a non sentir più altro che disgusto per il primo amoretto di Santo Fiore. Sandro scapitava troppo in confronto degli eleganti giovinotti che la circondavano, e la fanciulla, dimenticando di essere stata lei a volerlo a’ suoi piedi, faceva ormai pesare sull’amante il pentimento che, nell’interno suo, già sentiva spuntare per la propria debolezza. Ricordava come altrettante offese, offese che l’avrebbero avvilita mortalmente agli occhi della società, le carezze, le promesse, le parole d’amore del povero contadinello che, in tal modo, era diventato per lei una memoria uggiosa e persino odiosa.

Prima di partire, la duchessina si era fatta promettere da Sandro che questi manderebbe una sua lettera, ogni settimana, alla Nena; la Nena, che non sapeva leggere lo scritto, si sarebbe rivolta alla padroncina, la quale, in tal modo, avrebbe avuto notizie del giovinotto e avrebbe potuto leggere fra le righe ciò che riguardava lei solamente. E allo stesso modo senza compromettersi, cioè sempre col mezzo e col nome della Nena, essa gli avrebbe anche risposto. E gli rispose infatti, una volta nei primissimi giorni, ma volle che la Nena firmasse la lettera:

– Tant’e tanto, il tuo nome lo sai tirar giù!

La Nena, senza un sospetto al mondo, si prestava di buon animo alla gherminella, e cominciava anzi a sperare che il filodrammatico avesse del tenero per lei: cosa che le dava una grande smania, e le metteva il diavolo addosso, perchè quel giovanotto le era sempre piaciuto, e piaciuto assai.

L’ultima lettera del Frascolini era capitata col timbro di Venezia. Sandro s’era messo con suo cugino; ma per il commercio, scriveva, non si sentiva inclinato. – Aveva troppa poesia nella mente e nel cuore; no, non poteva stentar la vita chiuso tutto il santo giorno in uno stambugio oscuro, senz’aria e senza luce. Oh! come il mondo era diverso da quello ch’egli si foggiava passeggiando sulle verdi praterie di Santo Fiore! Quanti ostacoli da rimuovere; quante angoscie, fino allora ignorate! A quel modo si sarebbe intisichito sul libro mastro prima di raggiungere il suo scopo, prima di dar corpo al suo sogno. No, no; voleva respirare all’aperto, voleva farsi un nome; era un poeta, non era un mercante; era nato per l’arte e non per l’aritmetica! No, no; avrebbe lottato a corpo a corpo con la fortuna, a costo di morir sulla breccia, ma con la sua donna nel cuore, e il sole in faccia!

A queste parole, la Nena, povera innocente, pianse dalla commozione; ma Lalla invece, con molta calma e con molta ragionevolezza, rispose a Sandro (s’intende a nome della Nena), che …egli doveva pensare soltanto al proprio avvenire; che pur troppo il mondo, come diceva benissimo lui nella sua lettera, era molto diverso da quello vagheggiato a Santo Fiore, e ch’egli non doveva correre in cerca di una chimerica felicità, mentre avrebbe potuto ottenere, a Santo Fiore stesso e senza abbandonare la propria famiglia, uno stato sicuro e decoroso.

– Non capisco bene che cosa, infine, gli raccomando? – s’arrischiò di domandare la Nena alla padroncina prima di firmare la lettera.

– Gli raccomandi di metter giudizio, e gli dimostri il tuo sincero attaccamento.

– Ma se il signor Alessandro se n’avesse a male?

– Tu non capisci nulla; sei scema e testarda! Va, va, mettici sotto il tuo nome ben chiaro, e porta la lettera alla posta.

Com’è facile supporre, la Nera ricevette a volta di corriere un’altra lettera del Frascolini, nella quale egli dichiarava recisamente che, – per quanto se lo aspettasse quel colpo, tuttavia non lo aspettava così subito, e avrebbe sempre creduto che almeno dovessero avere per lui un po’ di carità; che del resto non dovevano sperare di poter liberarsi così facilmente di un uomo che avevano reso pazzo d’amore, che avevano deriso e tradito. Sì – concludeva Sandrino, – sarebbe stato molto meglio per me se mi avessero lasciato tranquillo a casa mia, senza darmi le vertigini dell’amore e dell’ambizione; giacchè hanno voluto trascinarmi sulla loro strada, giuro per tutti i santi che sulla loro strada mi troveranno sempre, – e si ricordino bene quello che sto per dire: se ho amato, se amo, se amerò eternamente, non sono disposto per questo a rinunciare ai miei diritti, e tanto meno a lasciarmi sacrificare, vittima inerte e rassegnata, da un capriccio assassino.

Chissà come sarebbe rimasta la povera Nena se la signorina le avesse letta tutta intera la lettera, ma Lalla, invece, prima la scorse con una rapida occhiata, e ne spiegò poi il contenuto rifacendolo a suo modo. Lalla, adesso, voleva farla finita: disse alla Nena che era tempo di troncare quell’amicizia; se il Frascolini le avesse scritto nuovamente, doveva consegnare subito a lei, le lettere ancora chiuse e non rispondergli più. Aveva capito, continuava la duchessina, che il Frascolini era un poco di buono, senza religione, senza carattere, e che avrebbe finito certo, se la Nena continuava in quella corrispondenza, col farla capitar male.

Sandrino scrisse tre altre lettere piene d’ira, di dolore, di minacce, ma a Lalla non fecero nè caldo nè freddo.

– Ho fatto bene – pensava – a non fidarmi di quel matto, a non lasciargli nulla tra le mani che mi potesse compromettere. Alla fine poi, perchè tante smanie? Gli ho forse mai lasciato sperare che sarei diventata madama Frascolini? – No! No! No! – E dunque? – Quali diritti può vantare?… – Sono stata troppo buona con lui; ecco il mio torto! Se io lo avessi trattato d’alto in basso come gli altri suoi pari, adesso non mi scriverebbe insolenze, il villano!

E il conte Della Valle?… Il conte Della Valle da qualche tempo si sentiva intorno quel certo malumore, quel certo malessere che precede una malattia, o è il presentimento di una disgrazia. E la sua malattia, la sua disgrazia… era l’amore.

La prima volta ch’egli rivide Lalla, non ne era rimasto molto colpito. Notò ch’essa era piuttosto piccolina, che aveva la figuretta fine, elegante, e gli occhi bellissimi. Nient’altro. Ma, dopo qualche giorno, egli si era messo a guardarla più sovente e con piacere. Quel suo fare modesto, senza essere troppo timido, quell’aria composta e nello stesso tempo cortese e vivace, fin anche l’ascetismo, il clericalismo aristocratico dell’esile duchessina formavano un tutt’insieme che gli riusciva molto interessante. Più di tutto erano gli occhi… quegli occhi maravigliosi che gli avevano fatta impressione!… No, non era bella, ma quegli occhi la rendevano irresistibile!… Essa, la fanciulla modesta, li teneva quasi sempre abbassati, ma si sentivano, si vedevano quasi anche di sotto alle palpebre, e quando li rialzava lentamente, parevano ingrandirsi, diventavano lucenti, perdevano la loro soave timidità per esprimere un sentimento più caro e dolcissimo. E fu in tal modo che Giorgio si accorse di essere guardato e… a sua volta cominciò a cercare, a chiedere con uno sguardo insistente, desideroso, lo sguardo tenerissimo della fanciulla.