Soldato, Fratello, Stregone

Tekst
0
Recenzje
Przeczytaj fragment
Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

“Tutti gli altri vengano con me al castello.”

Indicò il punto in cui la fortezza si ergeva sulla città.

“Per troppo tempo è stato lì come simbolo del potere che hanno su di noi. Oggi lo prenderemo.”

Si guardò attorno osservando la folla, cercando di calibrare la loro reazione.

“Se non avete un’arma, procuratevene una. Se siete troppo feriti, o se non volete farlo, non c’è nessuna vergogna nel rimanere, ma se venite potrete dire che c’eravate il giorno in cui Delo ha avuto la sua libertà!”

Fece una pausa.

“Gente di Delo!” gridò, la voce tonante. “Siete con me!?”

Il ruggito di risposta della folla fu assordante.

CAPITOLO TRE

Stefania si teneva stretta al parapetto della barca, le nocche bianche come la schiuma dell’oceano. Il viaggio in mare non le stava piacendo. Solo il pensiero della vendetta a cui avrebbe potuto portare le rendeva il tutto sopportabile.

Lei era una delle nobili dell’Impero. Quando prima di allora aveva intrapreso lunghi viaggi, era stato nelle stanze reali di grandiose galee, o in carrozze imbottite di cuscini nel mezzo di convogli ben sorvegliati, non certo condividendo con qualcun altro una barca che sembrava così minuscola in mezzo alla vastità dell’oceano.

Non era solo la comodità a rendere il tutto difficile. Stefania era orgogliosa di sé per essere più dura di quanto la gente pensasse. Non aveva intenzione di lamentarsi solo perché quella tinozza galleggiante che imbarcava acqua dondolava a ogni onda, o perché era costretta a seguire una noiosa e infinita dieta a base di pesce e carne salata. Non si sarebbe neanche lamentata del puzzo. In circostanze normali, Stefania avrebbe mostrato il suo migliore sorriso e sarebbe andata avanti senza battere ciglio.

La gravidanza rendeva le cose più ardue. A Stefania sembrava di poter sentire il bambino crescere dentro di lei adesso. La sua perfetta arma contro di lui. Era qualcosa che non le era quasi sembrato reale quando l’aveva sentito la prima volta. Ora, con la gravidanza che esasperava ogni accenno di nausea e rendeva il sapore del cibo addirittura peggiore di quello che era, tutto le appariva fin troppo reale.

Stefania guardò Felene che lavorava verso la prua della barca insieme alla sua damigella Elethe. Le due apparivano in tale contrasto tra loro. La marinaia, ladra e qualsiasi altra cosa fosse con i suoi pantaloni grezzi, la camicia e i capelli legati dietro che le scendevano lungo la schiena. La damigella con il suo abito di seta coperto da un mantello, i capelli più corti che incorniciavano i tratti leggermente scuri con un eleganza che altre donne non potevano neanche sperare. Felene sembrava godersela, intonando un canto marinaresco di tale fantasiosa volgarità che Stefania fu sicura che l’altra donna lo stesse facendo deliberatamente per stuzzicarla. Oppure quella era l’idea che Felene aveva di corteggiamento. Aveva visto alcune delle occhiate che la ladra aveva lanciato alla sua damigella.

E a lei, ma almeno erano sempre meglio che occhiate sospettose. Quelle erano state piuttosto rare all’inizio, ma ora si stavano facendo frequenti e Stefania poteva immaginare perché. Il messaggio che aveva inviato per adescare Tano diceva che lei aveva preso la pozione di Lucio. In quel momento le era sembrato il modo migliore per ferirlo, ma ora significava che doveva nascondere i segni della gravidanza che adesso parevano determinati a farsi vedere. Anche se non ci fosse stata la costante nausea da prendere in considerazione, Stefania era certa di potersi sentire gonfiare come una balena e il suo vestito era sempre più stretto.

Non avrebbe potuto nasconderla per sempre, il che significava che avrebbe dovuto probabilmente uccidere la marinaia di Tano prima o poi. Forse poteva farlo adesso, semplicemente avvicinandosi all’altra donna per spingerla oltre il parapetto della barca. Oppure poteva offrirle una borraccia piena d’acqua. Anche considerata la fretta con cui era partita, Stefania aveva con sé veleni a sufficienza da poter gestire una legione di potenziali nemici.

Poteva persino farlo fare alla sua damigella. Elethe era brava con i coltelli dopotutto, anche se, dato che era stata prigioniera della marinaia quando Stefania l’aveva trovata al molo, probabilmente non era poi così in gamba.

Quell’incertezza bastò a far fermare Stefania. Quello non era il genere di cose che lei poteva permettersi di sbagliare. Ci sarebbe stata solo una possibilità di fare le cose nel modo giusto. Al di fuori di altre risorse, un fallimento non sarebbe coinciso con una quieta ritirata. Sarebbe potuto significare morte certa.

Ad ogni modo erano ancora troppo distanti dalla terraferma. Stefania non era in grado di governare la barca, e anche se la sua damigella sarebbe stata probabilmente un’utile guida fino alle terre di Cadipolvere, c’era la possibilità che non fosse però in grado di condurle dall’altra parte dell’oceano. Avevano bisogno delle abilità di una persona di mare, sia per trovare con sicurezza la terraferma e soprattutto per arrivare al giusto pezzo di terra. C’erano cose che Stefania aveva bisogno di trovare, e non poteva farlo se non riusciva neanche ad arrivare alla terra che era da generazioni alleata dell’Impero.

Stefania si avvicinò alle altre e per un momento considerò di spingere Felene ad ogni modo, semplicemente perché le pareva sorprendentemente leale a Tano. Non era una caratteristica che Stefania si sarebbe aspettata in una ladra rea confessa, e significava che probabilmente la corruzione non era un’opzione contemplabile. Il che le lasciava solo dei mezzi violenti a disposizione.

Quindi, voltandosi verso di lei, Stefania finse un sorriso.

“Quanto manca ancora?” chiese.

Felene alzò le mani come un mercante che soppesa la merce. “Un giorno o due forse. Dipende dal vento. Stai già soffrendo la mia compagnia, principessa?”

“Beh,” disse Stefania,” sei sboccata, sdegnosa, arbitraria e quasi felice del fatto che sei una criminale.”

“E questo è solo l’inizio dei punti a mio favore,” disse Felene ridendo. “Eppure vi porterò con facilità a Cadipolvere. Hai pensato a cosa farai poi? Hai amici a corte, magari, che ti aiutino a trovare questo tuo stregone? Sai dove trovarlo?”

“Dove il sole al tramonto incontra i teschi del morto di pietra,” disse Stefania, ricordando le indicazioni che la Vecchia Hara la strega le aveva dato. Stefania aveva pagato per quelle indicazioni con la vita di una delle sue altre damigelle. Erano molto diverse.

“È sempre così,” disse Felene sospirando. “Fidati di me, ho rubato cose piuttosto degne di nota nella mia vita, e non sono mai riuscita ad ottenere direzioni precise. Mai il nome di una via o qualcuno che mi dicesse di prendere la terza porta a sinistra. Stregoni, streghe: sono i peggiori. Mi sorprende che una nobildonna come te voglia invischiarsi in cose del genere.”

Questo perché la marinaia non sapeva nulla di Stefania. Non che aveva trascorso la sua vita ad imparare, in modo da essere ben più di un semplice volto come tanti nello sfondo delle occasioni di corte. Certamente non i limiti che era disposta a superare quando si trattava di vendetta.

“Farò quello che servirà,” disse Stefania. “Il problema è se posso fidarmi di te.”

Felene mostrò il suo migliore sorriso. “Fintanto che mi chiedi soprattutto cose come bere, combattere e di tanto in tanto magari rubare.” La sua espressione si fece più seria. “Lo devo a Tano, e gli ho dato la mia parola che ti avrei tratta in salvo. E io mantengo la parola.”

Senza quella parte sarebbe stata perfetta per i piani di Stefania. Oh, se almeno fosse stata così adatta alla corruzione come il resto di quelli come lei. O magari anche alla seduzione. Stefania le avrebbe concesso Elethe facilmente come aveva dato l’altra damigella alla vecchia strega Hara.

“E quando arriviamo a Cadipolvere?” chiese Felene. “Come la mettiamo per trovare questo posto dove il sole al tramonto incontra il morto di pietra?”

“I teschi del morto di pietra sono una cosa di cui ho sentito parlare,” si intromise Elethe. “Si trovano tra le montagne.

Stefania avrebbe preferito discutere privatamente quella questione, ma la verità era che non c’era privacy sulla piccola barca. Dovevano parlane, e questo significava farlo davanti a Felene.

“Questo significa che dovremo andare fino alle montagne,” disse Stefania. “Sarai in grado di organizzare la cosa?”

Elethe annuì. “Un amico della mia famiglia conduce delle carovane che passano in mezzo alle montagne. Dovrebbe essere facile da organizzare.”

“Senza attirare troppe attenzioni?” chiese Stefania.

“Un gestore di carovane che attira troppe attenzioni è uno che si fa derubare,” assicurò Elethe. “E poi troveremo più informazioni quando arriveremo alla città. Cadipolvere è casa mia, mia signora.”

“Sono certa che sarai di grande aiuto,” disse Stefania in un modo che sembrava un’espressione di gratitudine. Un tempo questo avrebbe fatto saltare di gioia la sua damigella, ma ora non fece che sorridere. Probabilmente aveva a che fare con le attenzioni che stava ricevendo da parte di Felene.

Un sottile filo di rabbia allora crebbe in Stefania. Non gelosia nel senso convenzionale del termine, perché lei non provava quei sentimenti per la ragazza. Per nessuno, ora che Tano se n’era andato dalla sua vita. No, questo era semplicemente perché la sua damigella era sua. Una volta la ragazza si sarebbe gettata alla rovina al comando di Stefania. Ora Stefania non poteva esserne così certa, e questo le bruciava. Avrebbe dovuto trovate un modo per metterla alla prova prima che tutto prendesse il via.

 

Avrebbe dovuto fare un sacco di cose prima di finire tutto a Cadipolvere. Avrebbe dovuto trovare questo stregone, e anche se la sua damigella conosceva un modo per arrivare al posto giusto, ci sarebbero comunque voluti tempo e fatica. Avrebbe dovuto farlo in un terra straniera, dove la politica e la gente sarebbero stati diversi, anche se le loro debolezze erano generalmente le stesse in tutto il mondo.

Anche una volta trovato lo stregone, avrebbe dovuto cercare un modo per apprendere ciò che lui sapeva o per ottenere il suo aiuto. Forse ci sarebbero voluti solo soldi, o un po’ di fascino, ma Stefania ne dubitava. Qualsiasi stregone abbastanza potente da fermare uno degli Antichi sarebbe stato in grado di prendere ciò che voleva dal mondo.

No, Stefania avrebbe dovuto essere più creativa, ma avrebbe trovato un modo per farlo funzionare. Tutti volevano qualcosa, che fosse il potere, la fama, la conoscenza o semplicemente la salvezza. Stefania aveva sempre avuto il dono di scoprire ciò che la gente voleva: molto spesso era la leva che li portava a fare ciò che Stefania aveva bisogno da loro.

“Dimmi, Elethe,” disse di slancio. “Cos’è che vuoi?”

“Servire voi, mia signora,” disse immediatamente la ragazza. Era la risposta giusta ovviamente, ma in essa c’era una nota di sincerità che a Stefania piaceva particolarmente. Avrebbe scoperto la vera risposta a tempo debito.

“E tu, Felene?” le chiese.

Vide la ladra scrollare le spalle. “Qualsiasi cosa il mondo abbia da offrire. Probabilmente con un sacco di tesori, bevute, amici e divertimento. Non necessariamente in questo ordine.”

Stefania rise sommessamente, fingendo di non aver colto il tono bugiardo. “Certo. Cos’altro si potrebbe desiderare.”

“Perché non lo dici tu?” ribatté Felene. “Cos’è che vorresti, principessa? Perché attraversare tutto questo?”

“Voglio essere al sicuro,” disse Stefania. “E voglio vendetta contro coloro che mi hanno portato via Tano.”

“Vendetta sull’Impero?” chiese Felene. “Immagino di poter stare dalla tua parte. Mi hanno gettata su quelle loro isola dopotutto.”

Se voleva credere che la vendetta contro l’Impero era ciò che Stefania voleva, allora che lo credesse pure. Gli oggetti della rabbia di Stefania erano più semplicemente definibili: Ceres, poi Tano e tutti coloro che li avevano aiutati.

Silenziosamente Stefania ripeté il giuramento che aveva pronunciato a Delo. Avrebbe cresciuto suo figlio facendolo diventare l’arma perfetta contro suo padre. Lo avrebbe cresciuto con amore: di certo non era un mostro. Ma avrebbe avuto anche uno scopo. Avrebbe saputo ciò che suo padre aveva fatto.

E cose come quelle non si potevano perdonare.

CAPITOLO QUATTRO

Lucio aveva trascorso la maggior parte del viaggio verso Cadipolvere con l’impulso di voler pugnalare qualcuno. Ora che vi si stava avvicinando, il sentimento si faceva solo più intenso. Se ne stava lì con gli abiti luridi, il sole che gli cuoceva la pelle, fuggendo da un impero che avrebbe dovuto accorrere per obbedirgli.

“Guarda dove vai, ragazzo,” disse uno dei marinai passandogli vicino per andare a fissare una fune. Lucio non si era curato di ricordare il nome dell’uomo, ma in quel momento desiderò di averlo fatto, se in quel modo avesse potuto lamentarsi con il capitano di quella bagnarola riguardo alla sua ciurma.

“Ragazzo? Sai chi sono e osi chiamarmi ragazzo?” chiese Lucio. “Dovrei andare dal capitano Arvan e farti frustare.”

“Fallo,” disse il marinaio con il tono annoiato di qualcuno che sapeva di essere del tutto al sicuro, “e vedrai come va a finire.”

Lucio agitò i pugni. La parte peggiore era la sensazione di futilità. Il capitano Arvan si trovava al comando sul ponte con il timone della sua barca in mano e la stazza di quell’uomo ondeggiava a ogni onda che colpiva l’imbarcazione. Aveva fatto perfettamente capire a Lucio che lui aveva importanza solo fintanto che il suo denaro fosse stato sufficiente.

Come sempre da quando era partito, la rabbia portò con sé immagini di sangue e pietra. Il sangue di suo padre che macchiava la pietra della statua del suo antenato.

Quello con cui mi hai ucciso.

Lucio lo fissò, anche se la voce era stata lì, chiara come il cielo di mattina, profonda come la colpa fin da quando aveva dato il primo colpo. Lucio non credeva nei fantasmi, ma il ricordo della voce di suo padre era ancora lì e gli rispondeva ogni volta che cercava di pensare. Sì, era solo la sua mente che gli giocava degli scherzi, ma la cosa non era per niente migliorata. Significava che addirittura i suoi stessi pensieri non facevano come lui desiderava.

Niente pareva farlo al momento. Il capitano della barca su cui aveva trovato un passaggio lo aveva accolto borbottando, come se non fosse un onore avere Lucio a bordo con sé per quel viaggio. I suoi uomini trattavano Lucio con disprezzo, come un comune criminale che fuggiva dalla giustizia, piuttosto che come un corretto governatore dell’Impero, usurpato del suo trono.

Del trono di Tano.

“Non il trono di Tano,” disse Lucio parlando con l’aria. “Il mio.”

“Hai detto qualcosa…?” chiese il marinaio senza neanche curarsi di girarsi.

Lucio si allontanò e diede un pugno pieno di risentimento al legno dell’albero maestro, ma questo non fece che procurargli un forte dolore alle nocche che rimasero spellate. Se avesse potuto fare come era solito, avrebbe fatto scuoiare vivi anche uno o due uomini della ciurma.

Eppure Lucio teneva le distanze da loro, mantenendosi nella parte vuota del ponte dove gli era stato detto che poteva andare, come se fosse un uomo comune a cui dover dire dove andare. Come se non potesse lui stesso reclamare la proprietà di ogni singolo vascello dell’Impero se avesse voluto.

Ma il capitano della barca aveva fatto proprio così. Aveva lasciato Lucio con chiare istruzioni di stare lontano dalla ciurma mentre lavoravano, e di non causare guai.

“Altrimenti ti troverai dall’altra parte del parapetto e ci dovrai andare a nuoto a Cadipolvere,” aveva detto l’uomo.

Forse avresti dovuto ucciderlo come hai fatto con me.

“Non sono matto,” disse Lucio a se stesso. “Non sono matto.”

Non lo avrebbe permesso, come non avrebbe permesso agli uomini di continuare a parlargli come se non contasse nulla. Poteva ancora ricordare il freddo stato di rabbia in cui si era trovato quando aveva colpito suo padre, sentendo il peso della statua in mano, scagliandola perché era l’unico modo di mantenere il possesso di ciò che era suo.

“Sei stato tu a farmelo fare,” mormorò Lucio. “Non mi hai lasciato scelta.”

Proprio come sono certo che nessuna delle tue vittime ti abbia lasciato scelta, rispose la sua voce interna. Quanti ne hai uccisi fino ad ora?

“Cosa importa?” chiese Lucio. Andò a grandi passi fino al parapetto e gridò contro le onde ruggenti. “Non importa!”

“Stai zitto, moccioso, stiamo cercando di lavorare qui!” gridò il capitano della nave da dove si trovava il timone.

Non riesci a fare la cosa giusta neanche in mezzo all’oceano, disse la voce dentro di sé.

“Taci,” disse Lucio seccamente. “Taci!”

“Come osi parlarmi così, ragazzo?” chiese il capitano, scendendo sul ponte per confrontarsi con lui. L’uomo era più robusto di Lucio, e in condizioni normali la paura sarebbe scorsa in lui. Ma adesso non c’era spazio, perché i ricordi la spingevano fuori! Ricordi di violenze. Ricordi di sangue. “Io sono il capitano di questo vascello!”

“E io sono un re!” ribatté Lucio tirando un pugno inteso a colpire la mascella dell’altro uomo per spingerlo indietro. Non aveva mai creduto nel combattimento corretto.

Il capitano invece si fece indietro e schivò il colpo con facilità. Lucio scivolò sul ponte umido e in quel momento un altro uomo gli diede un ceffone.

Gli diede un ceffone! Come se fosse una qualsiasi sgualdrina che aveva parlato a sproposito, non un guerriero con cui valesse la pena parlare. Non un principe!

Ma il colpo bastò comunque per farlo crollare a terra e Lucio emise un piccolo grido di rabbia.

Meglio che tu stia giù, ragazzo, gli sussurrò la voce di suo padre.

“Taci!”

Portò la mano sotto alla camicia, alla ricerca del coltello che teneva nascosto lì. Fu in quel momento che il capitano Arvan gli diede un calcio.

Il primo colpo lo prese allo stomaco, abbastanza forte da farlo rotolare dalle ginocchia alla schiena. Il secondo colpì la testa, e bastò a fargli vedere le stelle. Non fece nulla per mettere a tacere la voce di suo padre.

Chiamati guerriero. So che sai fare di meglio.

Facile a dirsi quando non era lui ad essere picchiato a morte sul ponte di una nave.

“Pensi di potermi accoltellare, ragazzo?” chiese il capitano Arvan. “Venderei la tua carcassa se pensassi che qualcuno pagherebbe per averla. Ma dati i fatti, ti getteremo in mare e vedremo se anche gli squali arricceranno il naso!” Ci fu una pausa, inframmezzata da un altro calcio. “Voi due, prendetelo. Stiamo a vedere come galleggia bene la gente di corte.”

“Io sono un re!” si lamentò Lucio mentre delle forti mani iniziavano a tirarlo su. “Un re!”

E presto sarai un ex-re, continuò la voce di suo padre.

Lucio si sentì privo di peso mentre gli uomini lo sollevavano abbastanza in alto da fargli vedere l’acqua infinita attorno a loro, nella quale presto sarebbe stato gettato per annegare. Eccetto il fatto che non era infinita, giusto? Poteva vedere…

“Terra a dritta!” gridò la vedetta.

Per un momento la tensione tenne, e Lucio fu certo che l’avrebbero comunque gettato in mare.

La voce del capitano Arvan tuonò sopra a tutto il fragore.

“Lasciate andare quel regale spreco di fiato. Abbiamo tutti dei compiti da eseguire, e molto presto ci sbarazzeremo di lui.”

I marinai non discussero. Gettarono invece Lucio sul ponte, lasciandolo per andare a sistemare le funi con il resto dell’equipaggio.

Dovresti essere riconoscente, sussurrò la voce di suo padre.

Lucio era tutt’altro che riconoscente però. Invece aggiunse mentalmente quella nave e la sua ciurma alla lista di coloro che l’avrebbero pagata non appena lui avesse riavuto indietro il suo trono. Li avrebbe visti bruciare.

Li avrebbe visti bruciare tutti.

CAPITOLO CINQUE

Tano stava seduto nella sua gabbia e aspettava la morte. Ruotava e si girava sotto al sole di Delo, cucinandosi lentamente mentre dall’altra parte del cortile le guardie lavoravano per costruire le forche sulle quali sarebbe morto. Tano non si era mai sentito così inerme.

Né così assetato. Lo avevano ignorato e non gli avevano dato niente da mangiare né da bere, dirigendo verso di lui la loro attenzione solo quando volevano far vibrare le spade contro le sbarre della gogna, importunandolo.

I servitori si affrettavano avanti e indietro nel cortile, con un senso di urgenza nelle loro faccende che suggeriva che nel castello stesse accadendo qualcosa. Tano non sapeva di cosa si trattasse. O forse era solo il modo in cui le cose accadevano come conseguenza della morte del re. Forse tutta quella frenesia era semplicemente dovuta alla regina Atena che faceva andare Delo nel modo che meglio gradiva.

Tano poteva immaginarsi la regina farlo. Mentre qualcun altro sarebbe rimasto chiuso nel suo dolore, quasi incapace di agire, Tano poteva immaginare la donna che vedeva la morte di suo marito come un’opportunità.

Le mani di Tano si strinsero attorno alle sbarre della gogna. C’era una buona probabilità che lui fosse l’unico a piangere la morte di suo padre in quel preciso istante. I servitori e la gente di Delo avevano tutti i motivi per odiare il loro re. Atena era probabilmente troppo presa dai suoi progetti per curarsene. Per quanto riguardava Lucio…

“Ti troverò,” promise Tano. “Ci sarà giustizia per questo. Per tutto…”

“Oh, ci sarà giustizia, proprio vero,” disse una delle guardie. “Proprio quando ti sgozzeremo per quello che hai fatto.”

Tirò un colpo contro le sbarre, prendendo le dita di Tano così forte da farlo sibilare per il dolore. Tano fece per acciuffarlo, ma la guardia rise saltellando fuori portata e andando ad aiutare gli altri con la costruzione del palco sul quale Tano sarebbe stato ucciso alla fine.

Era un palcoscenico. Tutta quella faccenda era uno spettacolo. In un istante di violenza Atena avrebbe preso il controllo dell’Impero, sia rimuovendo il più grosso pericolo dal suo potere che mostrando che lei restava in carica, al posto di suo figlio, salendo alla corona.

 

Magari credeva davvero che fosse così. Se era così, Tano le augurava fortuna. Atena era malvagia e avida, ma suo figlio era un folle senza limiti. Aveva già ucciso suo padre e se sua madre pensava di poterlo controllare, allora avrebbe avuto bisogno di tutto l’aiuto che poteva trovare.

E come lei, tutti coloro che stavano a Delo, dall’ultimo dei contadini fino a Stefania, intrappolata e alla mercé della gente di corte che di misericordia proprio non ne aveva.

Il pensiero di sua moglie fece sussultare Tano. Era venuto lì per salvarla, e invece era arrivato a questo. Se non fosse stato lì, forse le cose sarebbero andate meglio. Forse le guardie si sarebbero rese conto che era stato Lucio a uccidere il re. Forse avrebbero agito, piuttosto che cercare di spazzare via tutto.

“O forse avrebbero dato la colpa alla ribellione,” disse Tano, “dando a Lucio un’altra scusante.”

Poteva immaginarlo. Non contava quanto male tutto andasse: Lucio avrebbe sempre trovato il modo di far ricadere la colpa sugli altri. E se alla fine non fosse stato lì, non avrebbe potuto sentire suo padre che riconosceva la sua identità. Non avrebbe saputo che c’erano prove di essa a Cadipolvere.

Non avrebbe avuto la possibilità di dire addio, o tenere tra le braccia suo padre mentre moriva. Ora i suoi rimorsi erano tutti legati al fatto che non sarebbe riuscito a vedere Stefania prima che lo giustiziassero, né avrebbe potuto sapere se era al sicuro. Anche considerato tutto quello che aveva fatto, non avrebbe dovuto abbandonarla al molo. Era stata una mossa egoista, indotta solo dalla sua rabbia e disgusto personali. Era stata una mossa che gli era costata sua moglie, e la vita del loro bambino.

Era stata una mossa che probabilmente sarebbe costata a Tano la sua stessa vita, dato che si trovava lì solo perché Stefania era in trappola. Se l’avesse portata con sé e l’avesse lasciata in salvo ad Haylon, niente di tutto ciò sarebbe successo.

Tano allora capì che c’era una cosa che doveva fare prima che lo uccidessero. Non poteva fuggire, non poteva sperare di evitare ciò che lo stava attendendo, ma poteva pur sempre provare a mettere le cose a posto.

Aspettò che un altro dei servitori attraversasse il cortile e gli si avvicinasse. Al primo che vide fece segno ma quello continuò a camminare.

“Per favore,” chiamò il secondo, che si guardò attorno prima di scuotere la testa e continuare per la sua strada.

Il terzo, una giovane donna, si fermò.

“Non dovremmo parlare con te,” gli disse. “Ci hanno vietato di portarti cibo e acqua. La regina vuole che soffri per aver ucciso il re.”

“Non l’ho ucciso io,” disse Tano. Allungò una mano mentre lei iniziava a voltarsi. “Non mi aspetto che tu mi creda, e non ho intenzione di chiederti dell’acqua. Potresti portarmi carboncino e carta? La regina non può aver vietato anche questo.”

“Hai in mente di scrivere un messaggio alla ribellione?” chiese la servitrice.

Tano scosse la testa. “Niente del genere. Puoi leggere quello che scriverò se vuoi.”

“Io… ci proverò.” Sembrò voler dire di più, ma Tano vide una delle guardie guardare dalla loro parte e la donna si allontanò di corsa.

L’attesa era dura. Come poteva guardare le guardie che costruivano la forca cui sarebbe stato appeso fino quasi a morire, o la grande ruota su cui lo avrebbero poi distrutto? Era una piccola crudeltà sostenere che anche se la regina Atena fosse riuscita a fare presa su suo figlio, l’Impero sarebbe stato ben lungi dall’essere perfetto.

Stava ancora pensando a tutte le crudeltà che Lucio e sua madre potevano infliggere sulla terra quando la servitrice arrivò con qualcosa sotto al braccio. Era solo un pezzo di pergamena e un piccolissimo carboncino, ma glieli passò furtivamente come se fossero la chiave per la libertà.

Tano li prese con attenzione. Non aveva dubbio che le guardie glieli avrebbero portati via, anche solo per avere un’altra piccola opportunità di fargli più male. Anche se ce n’erano alcuni non completamente corrotti dalla crudeltà dell’Impero, credevano che lui fosse il peggiore dei traditori e che si meritasse tutto quello che gli era capitato.

Si chinò sul pezzo di pergamena, sussurrando le parole mentre tentava di scrivere, cercando di mettere le cose esattamente come dovevano essere. Scrisse in piccole lettere, sapendo che c’era un sacco nel suo cuore da dover trasformare in parole:

Alla mia cara moglie Stefania. Per quando leggerai questo, io sarò stato giustiziato. Forse sentirai che me lo merito, dopo il modo in cui ti ho abbandonata. Forse proverai un po’ del dolore che io provo sapendo che sei stata costretta a fare tante cose che non volevi.

Tano cercò di pensare alle parole per tutto quello che sentiva. Era difficile trascrivere tutto, o trovare il senso nella caotica confusione di sentimenti che gli vorticavano dentro:

Io… ti ho amata e sono venuto a Delo per tentare di salvarti. Mi spiace non esserci riuscito, anche se non sono certo che saremmo mai riusciti a stare insieme di nuovo. So… quanto felice eri di sapere del nostro bambino, e ne ero pieno di gioia pure io. Anche in queste condizioni, il mio più grande rimpianto e che non vedremo mai il figlio o figlia che sarebbe potuto diventare.

Solo il pensiero portò altro dolore, più acuto di qualsiasi colpo inflitto dalle guardie. Sarebbe dovuto tornare prima per liberare Stefania. Non avrebbe mai dovuto abbandonarla.

“Mi spiace,” sussurrò, sapendo che non ci sarebbe stato abbastanza spazio per scrivere tutto quello che voleva dire. Certo non poteva mettere tutti i suoi sentimenti su un pezzo di carta che poi avrebbe dato da consegnare a una sconosciuta. Sperava solo che questo fosse sufficiente.

Avrebbe potuto scrivere molto di più, ma quello era il succo del discorso. Il suo dolore perché le cose erano andate nel verso sbagliato. Il fatto che c’era stato dell’amore. Sperava bastasse.

Tano aspettò che la donna si avvicinasse di nuovo, fermandola con un braccio teso.

“Puoi portare questo alla signora Stefania?” le chiese.

La servitrice scosse la testa. “Mi spiace, ma non posso.”

“So che è molto chiederlo,” disse Tano. Capiva il rischio che stava chiedendo alla donna di correre. “Ma se qualcuno potesse portarglielo mentre è ancora rinchiusa…”

“Non è questo,” disse la donna. “Stefania non è qui. Se n’è andata.”

“Andata?” ripeté Tano. “Quando?”

La servitrice allargò le braccia. “Non lo so. Ho sentito una delle damigelle che ne parlava. È andata in città e non è mai tornata.”

Era scappata? Era riuscita ad andarsene fuori di lì senza il suo aiuto? La sua damigella aveva detto che era impossibile, ma forse Stefania aveva lo stesso trovato un modo? Poteva sperare che fosse così, no?

Tano ci stava ancora pensando quando si rese conto che l’attività attorno ai patiboli si era interrotta. Guardando bene, era anche facile capire perché. Avevano finito. Le guardie stavano in attesa accanto alla forca, in ovvia ammirazione del loro lavoro. Pendeva un cappio, nero, stagliato contro il cielo. Lì vicino c’erano una carrucola e un braciere. Torreggiante su tutto quanto c’era una ruota con delle catene fissate e un grosso martello sul pavimento accanto ad essa.

Ora poté vedere la gente che si riuniva. C’erano guardie in cerchio attorno ai lati del cortile che sembravano essere lì per evitare che altri interferissero, ma anche per assistere loro stessi alla morte di Tano.

In alto, affacciati alle finestre, Tano poté vedere servitori e nobili, alcuni che guardavano in basso con quella che pareva pietà, altri con i volti impassibili o con vero e proprio odio. Ne vide alcuni addirittura seduti sui tetti, intenti a guardare da lì dato che non erano riusciti a trovare un altro posto. Stavano trattando quella situazione come se fosse un evento sociale piuttosto che un’esecuzione, e un filo di rabbia crebbe in lui.