Za darmo

L’ascesa dei Draghi

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Z serii: Re e Stregoni #1
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CAPITOLO VENTITRÉ

Alec si sentì svegliare rudemente da un calcio nelle costole e aprì gli occhi, esausto, disorientato, cercando di orientarsi. Si tolse il fieno dalla bocca e vide che era sdraiato a faccia in giù a terra. Quindi ricordò: le baracche. Era stato sveglio per la maggior parte della notte, guardandosi alle spalle e sorvegliando anche Marco mentre la notte veniva riempita dalle grida di ragazzi che lottavano, strisciavano nell’ombra, si chiamavano minacciosamente. Aveva visto più di un ragazzo trascinato fuori per i piedi, morto, non prima che gli altri balzassero sul suo corpo e lo derubassero di ogni cosa potessero trovare.

Alec ricevette un altro calcio e questa volta, in guardia, rotolò da parte pronto a ogni cosa. Sollevò lo sguardo, sbattendo le palpebre nel buio, e fu sorpreso di vedere non un altro ragazzo ma due soldati pandesiani. Stavano prendendo a calci i ragazzi lungo le file, afferrandoli e tirandoli in piedi. Alec sentì delle mani ruvide sulle proprie braccia, si sentì sollevare e spingere fuori dalla baracca.

“Cosa sta succedendo? Cosa c’è?” bofonchiò ancora insicuro se sentirsi sveglio o meno.

“È ora di entrare in servizio,” rispose seccamente il soldato. “Non sei qui per piacere, ragazzo.”

Alec si era chiesto quando sarebbe stato mandato in pattuglia a Le Fiamme, ma non avrebbe mai pensato che sarebbe stato nel mezzo della notte, e così presto dopo un viaggio così lungo. Barcollò in avanti, ubriaco di stanchezza, chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a tutto questo. Non avevano dato loro nulla da mangiare da quando erano arrivati e si sentiva ancora debole per il lungo tragitto.

Davanti a lui un ragazzo collassò, forse per la fame o per la stanchezza: non aveva importanza, i soldati lo spinsero, calciandolo con ferocia fino a che smise di muoversi del tutto. Lo lasciarono sul terreno ghiacciato, morto, e continuarono a camminare.

Rendendosi conto che non voleva finire come quel ragazzo, Alec rafforzò la propria determinazione e si sforzò di stare bello sveglio. Marco gli si avvicinò.

“Dormito abbastanza?” gli chiese con sorriso sarcastico.

Alec scosse la testa cupamente.

“Non preoccuparti,” gli disse Marco. “Dormiremo quando saremo morti, e credo lo saremo piuttosto presto.”

Svoltarono un angolo e Alec venne momentaneamente accecato da Le Fiamme: erano a neppure cinquanta metri e il loro tremendo calore si sentiva anche da lì.

“Se dei troll passano, uccideteli,” disse un soldato pandesiano. “E vedete di non ammazzarvi. Almeno fino a mattino. Vogliamo questa zona ben sorvegliata.”

Alec ricevette un’ultima spinta e lui ed il gruppo di ragazzi vennero lasciati vicino a Le Fiamme mentre i soldati si voltavano e se ne andavano. Si chiese perché si fidassero che loro rimanessero di guardia, sicuri che non sarebbero scappati, ma poi si voltò e vide torrette di sorveglianza ovunque, pattugliate da soldati con balestre, le dita pronte sul grilletto, tutti in desiderosa attesa di un ragazzo che iniziasse a correre.

Alec rimase lì, senza armatura e senza armi, e si chiese come potessero aspettarsi che lui fosse una vera guardia. Si guardò attorno e vide che alcuni altri ragazzi avevano delle spade.

“Dove l’hai presa?” chiese a un ragazzo vicino.

“Quando un ragazzo muore, prendigliela,” gli rispose. “Se qualcun altro non ti batte sul tempo.”

Marco si accigliò.

“Come possono pensare che stiamo di guardia senza armi?” chiese.

Uno degli altri ragazzi, con la faccia nera di fuliggine, ridacchiò.

“Ai novellini non vengono date le armi,” disse. “Tanto si aspettano che muori comunque. Se sei ancora qui dopo un poche di notti, troverai un modo di averne una.”

Alec fissò Le Fiamme che crepitavano così intensamente, il calore che gli bruciava il viso. Cercò di non pensare a ciò che si trovava dall’altra parte, pronto a fare irruzione attraverso di esse.

“Cosa facciamo nel frattempo?” chiese. “Se un troll entra?”

Un ragazzo rise.

“Lo uccidi a mani nude!” gridò. “Potrai anche sopravvivere, ma anche no. Sarà incendiato e probabilmente brucerai insieme a lui.”

Gli altri ragazzi voltarono la schiena e si sparpagliarono, ognuno verso la propria stazione. Alec, disarmato, si voltò a guardare Le Fiamme con una sensazione di disperazione.

“Siamo stati messi qui per morire,” disse a Marco.

Marco, a circa sei o sette metri da lui, fissava Le Fiamme con espressione disincantata.

“Sorvegliare Le Fiamme un tempo era un compito nobile,” disse con voce triste. “Prima che Pandesia ci invadesse. I Guardiani erano onorati, ben armati ed equipaggiati. È per questo che mi sono offerto volontario. Ma ora… sembra completamente diverso. I Pandesiani non vogliono che i troll passino attraverso il fuoco, ma non usano i loro uomini. Vogliono che noi stiamo di guardia e ci lasciano morire qui.”

“Forse dovremmo lasciarli passare allora,” disse Alec. “Lasciare che li uccidano tutti.”

“Potremmo,” disse Marco. “Ma razzierebbero Escalon e ucciderebbero anche le nostre famiglie.”

Fecero silenzio, entrambi in piedi a guardare Le Fiamme. Alec non sapeva quanto tempo fosse passato mentre guardava e pensava. Non poteva evitare di sentirsi come se stesse fissando la sua stessa morte. Cosa stava facendo la sua famiglia in quel momento? Stavano pensando a lui? Gli interessava di lui?

Alec si trovò a perdersi in pensieri depressivi e sapeva di dover cambiare il proprio umore. Si sforzò di distogliere lo sguardo, di guardare da un’altra parte, dietro le spalle per studiare la scura sagoma del bosco. La foresta era completamente buia, inquietante, le sentinelle sulle torrette non si preoccupavano neppure di sorvegliarla. Tenevano invece gli occhi fissi sulle reclute, su Le Fiamme.

“Hanno paura loro stessi a stare di guardia,” osservò Alec guardando verso i soldati. “Ma non vogliono che noi ce ne andiamo. Codardi.”

Alec aveva appena pronunciato quelle parole quando improvvisamente sentì un terribile dolore alla schiena che lo fece barcollare in avanti. Prima di capire cosa stesse accadendo, sentì una mazza nelle costole e si trovò a faccia in giù nella terra.

Udì una voce sinistra nell’orecchio, una voce che riconobbe.

“Ti avevo detto che ti avrei trovato, ragazzo.”

Prima di poter reagire Alec sentì delle mani ruvide che lo afferravano da dietro e lo spingevano in avanti, verso Le Fiamme. Erano in due – il ragazzo del carro e il suo amico – e Alec cercò di resistere, ma inutilmente. La loro stretta era troppo forte e lo portarono sempre più vicino fino a sentire sul viso l’intenso calore di Le Fiamme.

Alec udì rumori di combattimento e guardando oltre fu sorpreso di vedere Marco legato con catene mentre due altri ragazzi lo tenevano fermo al suo posto. Avevano progettato tutto molto bene. Li volevano veramente morti.

Alec lottò, ma non riuscì ad ottenere alcun vantaggio. Lo trascinarono ancora più vicino a Le Fiamme, appena tre metri, il calore così forte da poter già sentire il dolore, sentirsi colare il viso. Sapeva che mancavano ancora poche decine di centimetri e lui sarebbe stato sfigurato a vita, se non addirittura morto.

Alec scalciò, ma lo tenevano molto stretto e non poteva liberarsi.

“NO!” gridò.

“È ora della vendetta,” sibilò una voce nel suo orecchio.

Si udì improvvisamente un terribile grido e Alec fu scioccato di realizzare che non era il suo. La stretta si sciolse attorno alle sue braccia e lui si ritrasse immediatamente da Le Fiamme. Nello stesso momento vide un lampo di luce e guardò, impressionato, una creatura venire fuori dal fuoco, incendiata, atterrando di colpo sul ragazzo accanto a lui, schiacciandolo a terra.

Il troll, ancora infuocato, rotolò con il ragazzo a terra, affondandogli le zanne nella gola. Il ragazzo gridò e morì all’istante.

Il troll si voltò e si guardò attorno, delirante. I suoi occhi, grandi e rossi, incrociarono quelli di Alec. Alec era terrorizzato. Ancora infuocato il troll sbuffò, le lunghe zanne ricoperte di sangue, e lo guardò desideroso di uccidere, come una bestia selvaggia.

Alec rimase fermo, pietrificato dalla paura, incapace di muoversi anche se avesse voluto.

L’altro ragazzo fuggì e il troll, notando del movimento, si voltò e, con sollievo di Alec, decise di scagliarsi contro quello. Con un balzo lo bloccò a terra, ancora in fiamme, e affondò i denti nel suo collo. Il ragazzo gridò mentre veniva ucciso.

Marco si scrollò di dosso i ragazzi stupefatti, afferrò le loro catene e le fece roteare colpendo uno di loro i volto e l’altro in mezzo alle gambe. Li atterrò entrambi.

Iniziarono a suonare delle campane e scoppiò il caos. Ragazzi sopraggiunsero correndo da ogni parte di Le Fiamme per combattere contro il troll. Lo colpivano con le lance ma la maggior parte di loro, inesperti, avevano paura di avvicinarsi troppo. Il troll si allungò, afferrò una lancia e tirò un ragazzo vicino a sé, stringendolo con forza e, mentre quello gridava, dandogli fuoco.

“Ora tocca a noi,” sibilò una voce con urgenza.

Alec si voltò e vide Marco corrergli accanto.

“Sono tutti distratti. Potrebbe essere la nostra unica possibilità.”

Marcò si voltò e Alec seguì il suo sguardo: stava guardando il bosco. Intendeva scappare.

Nera e minacciosa, la sagome del bosco era inquietante. Alec sapeva che pericoli anche più grandi si celavano probabilmente là dentro, ma sapeva che Marco aveva ragione: questa era la loro opportunità. E nient’altro che morte li attendeva lì.

Alec annuì e senza dire una parola di più scattarono insieme, correndo sempre più lontani da Le Fiamme, verso il bosco.

Il cuore di Alec gli martellava nel petto mentre si aspettava di essere colpito alla schiena in ogni momento da una balestra. Correva per trarsi in salvo. Ma guardandosi alle spalle vide che tutti stavano circondando il troll, impegnati.

 

Un attimo dopo entravano nel bosco, venivano avvolti dall’oscurità, entrando – lo sapeva bene – in un mondo di pericoli più grandi di quanto potesse immaginare. Sarebbe probabilmente morto lì, lo sapeva. Ma almeno alla fine era libero.

CAPITOLO VENTIQUATTRO

Kyra si trovava fuori dai grandi cancelli di Volis e scrutava il paesaggio invernale mentre la neve cadeva, il cielo striato di scarlatto come se il sole stesse lottando per fare capolino. Si chinò in avanti appoggiandosi alla parete, respirando affannosamente mentre lasciava cadere un’altra pietra. Si era unita agli altri nella raccolta di quei grossi massi dal fiume per innalzare un altro muro attorno al perimetro di Volis. Mentre il muratore accanto a lei spalmava la malta lei posava una pietra dopo l’altra. Ora, con le braccia che tremavano, aveva bisogno di una pausa.

Insieme a Kyra c’erano centinaia di persone, allineate lungo la parete, tutti intenti a costruire sempre più in alto, sempre più in profondità, aggiungendo anelli ai terrapieni. Altri, dall’altra parte del muro, lavoravano con delle vanghe, scavando nuovi fossati; altri ancora erano ancora impegnati nello scavare le tombe per i morti. Kyra sapeva che tutto questo era inutile, che non sarebbe bastato a trattenere il grandioso esercito pandesiano quando fosse arrivato, che non contava cosa avessero fatto: sarebbero tutti morti lì. Lo sapevano tutti. Ma costruivano comunque. Dava loro qualcosa da fare, un qualche senso di controllo mentre guardavano la morte in faccia.

Mentre Kyra faceva una pausa, si appoggiò al muro e guardò il panorama, pensierosa. Ora era tutto così quieto, la neve attutiva ogni rumore, come se il mondo non contenesse altro che pace. Ma sapeva che le cose erano diverse, sapeva che i Pandesiani erano là fuori da qualche parte, a prepararsi. Sapeva che sarebbero tornati, con un rombo assordante, e avrebbero distrutto tutto ciò che per lei era prezioso. Ciò che vedeva davanti a sé era un’illusione: era la calma prima del temporale. Era dura capire come il mondo potesse essere così silenzioso, così perfetto in un momento, e riempirsi poi di distruzione e caos l’attimo dopo.

Kyra si guardò dietro le spalle e vide il suo popolo che portava a compimento il proprio lavoro per la giornata, posando cazzuole e vanghe mentre la notte iniziava a calare e loro tornavano verso le loro case. Il fumo si levava dai camini, le candele venivano accese sulle finestre e Volis sembrava così accogliente, così protetta, come se non potesse essere toccata da nulla al mondo. Si meravigliò di quell’illusione.

Mentre stava lì non poteva fare a meno di risentire le parole di suo padre che le risuonavano nelle orecchie, la sua richiesta di partire all’istante. Pensò a suo zio, che non aveva mai incontrato, al viaggio che avrebbe dovuto fare, attraversando Escalon, il Boscobianco, percorrendo tutta la strada fino a Ur. Pensò a sua madre, al segreto che le stavano tenendo nascosto. Pensò a suo zio che l’avrebbe allenata per diventare più potente, e la cosa la emozionava.

Eppure mentre si voltava a guardare la sua gente, sapeva che non poteva abbandonarli e basta proprio nel momento del conflitto, anche se ciò significava salvare la propria vita. Non era fatta così.

Improvvisamente risuonò un corno basso e dolce, che segnalava la fine del lavoro quotidiano.

“Si fa notte,” disse il muratore accanto a lei posando la sua cazzuola. “C’è poco che possiamo fare al buio. La nostra gente torna a casa per mangiare. Vai ora,” disse, mentre file di persone si voltavano e si dirigevano al di là del ponte e attraverso i cancelli.

“Vengo subito,” disse Kyra, non ancora pronta, desiderando altro tempo per godere della pace e del silenzio. Era sempre più contenta da sola, fuori.

Leo piagnucolò e si leccò le labbra.

“Porta Leo con te: ha fame.”

Leo probabilmente aveva capito, perché era già balzato dietro al muratore mentre lei ancora stava parlando. L’uomo rise e tornò con lui verso il forte.

Kyra rimase fuori dal forte, chiudendo gli occhi contro il rumore e perdendosi nei suoi pensieri. Finalmente il rumore dei martelli era cessato. Finalmente c’era vera pace.

Guardò il panorama e scrutò l’orizzonte, il contorno del bosco che si oscurava, le nuvole grigie che coprivano il rosso del cielo. Meditò. Quando sarebbero arrivati? Che genere di esercito avrebbero portato? Come sarebbe stato il loro esercito?

Mentre guardava in lontananza, fu sorpresa di scorgere del movimento. Qualcosa le colse l’occhio e mentre osservava vide materializzarsi un cavaliere solitario che emergeva dal bosco e prendeva la strada principale in direzione del forte. Kyra inconsciamente afferrò il proprio arco, preparandosi e chiedendosi se fosse una recluta o se stesse guidando un esercito.

Ma mentre il cavaliere si avvicinava Kyra rilassò la presa riconoscendolo: era uno degli uomini di suo padre, Maltren. Galoppava conducendo un cavallo senza cavaliere accanto a sé, tenendolo per le redini. Era una scena piuttosto curiosa.

Maltren si fermò improvvisamente davanti a lei e la guardò con urgenza, apparentemente spaventato: Kyra non capiva cosa stesse accadendo.

“Cosa c’è?” gli chiese allarmata. “Pandesia sta arrivando?”

Lui rimase lì respirando affannosamente, scuotendo la testa.

“Si tratta di tuo fratello,” disse. “Aidan.”

Il cuore di Kyra le balzò in gola udendo il nome del fratello, la persona che amava di più al mondo. Fu subito all’erta.

“Cosa c’è?” gli chiese. “Cosa gli è successo?”

Maltren trattenne il fiato.

“È stato ferito gravemente,” disse. “Ha bisogno di aiuto.”

Il cuore di Kyra smise di battere. Aidan? Ferito? Nella mente le vorticavano visioni orribili, ma soprattutto confusione.

“Come?” chiese. “Cosa ci faceva nel bosco? Pensavo fosse nel forte, a preparare la festa.”

Maltren scosse la testa.

“È uscito con i tuoi fratelli,” disse. “A caccia. È caduto malamente da cavallo e si è rotto una gamba.”

Kyra provò un lampo di determinazione scorrerle dentro. Piena di adrenalina, senza neanche fermarsi a pensare più attentamente, corse e balzò sull’altro cavallo.

Se si fosse presa solo un minuto per voltarsi e controllare il forte, avrebbe trovato Aidan, dentro al sicuro. Ma spinta dall’urgenza non si fermò a mettere in questione ciò che diceva Maltren.

“Portami da lui,” disse.

I due – un’accoppiata alquanto improbabile – galopparono insieme allontanandosi da Volis, al calar della notte, verso il bosco sempre più buio.

*

Kyra e Maltren galoppavano lungo la via, sulle colline ondeggianti, verso il Bosco. Kyra respirava affannosamente mentre piantava i talloni nei fianchi del suo cavallo, ansiosa di salvare Aidan. Un milione di incubi le vorticavano in testa. Come aveva potuto Aidan rompersi una gamba? Cosa ci faceva suo fratello a caccia là fuori quando tutto il popolo di suo padre aveva ricevuto il divieto di lasciare il forte? Niente aveva alcun senso.

Raggiunsero il limitare del bosco e mentre Kyra si preparava ad entrarvi fu stupita di vedere che Maltren improvvisamente fermava il suo cavallo. Si fermò di scatto accanto a lui e lo guardò smontare. Scese di sella anche lei, entrambi i cavalli con il fiato lungo, e lo seguì stupita, vedendolo fermarsi al limitare della foresta.

“Perché ti fermi?” gli chiese respirando affannosamente. “Pensavo Aidan fosse nel bosco.”

Kyra si guardò attorno e subito ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava per niente. Improvvisamente dal bosco emerse, con suo orrore, il Lord governatore in persona affiancato da due decine di uomini. Sentì la neve che scricchiolava dietro di lei e voltandosi vide un'altra decina di uomini che la circondavano, tutti con gli archi puntati contro di lei mentre uno prendeva le redini del suo cavallo. Le si gelò il sangue rendendosi conto che era caduta in una trappola.

Guardò Maltren furiosa, rendendosi contro che l’aveva tradita.

“Perché?” gli chiese disgustata solo di vederlo. “Sei un uomo di mio padre. Perché hai fatto una cosa del genere?”

Il Lord governatore si avvicinò a Maltren e gli mise in mano un grosso sacco d’oro, mentre Maltren distoglieva lo sguardo con fare colpevole.

“Per una buona somma,” rispose il Lord governatore voltandosi verso di lei con un sorriso in faccia, “scoprirai che gli uomini possono fare tutto quello che desideri. Il nostro Maltren qui sarà ricco per sempre, più ricco di tuo padre, e gli verrà risparmiata la morte che incombe sul vostro forte.”

Kyra si accigliò contro Maltren, stentando a credere che fosse vero.

“Sei un traditore,” disse.

Lui la guardò accigliato.

“Sono il nostro salvatore,” rispose. “Avrebbero ucciso tutto il nostro popolo, grazie a te. Grazie a me Volis verrà risparmiata. Ho fatto un patto. Puoi ringraziarmi per le loro vite.” Sorrise soddisfatto. “E a pensarci, tutto quello che doveva fare era cederti.”

Kyra sentì improvvisamente delle mani rudi che la afferravano da dietro e la sollevavano in aria. Si dimenò cercando di divincolarsi, ma non riuscì a levarseli di dosso mentre le legavano polsi e caviglie e la gettavano nel retro di un carro.

Un attimo dopo le sbarre di ferro sbatterono e si chiusero su di lei e il carro partì tra gli scossoni, in mezzo alla campagna. Sapeva che ovunque la stessero portando nessuno avrebbe mai più sentito o visto nulla di lei. E mentre entravano nel bosco che bloccava ogni veduta della notte che calava, capì che la sua vita, per come l’aveva sempre intesa, era finita.

CAPITOLO VENTICINQUE

Il gigante giaceva ai piedi di Vesuvio, legato da mille funi e tenuto a terra da cento troll. Vesuvio stava al di sopra di lui, vicinissimo alle sue fauci, e lo contemplava con ammirazione. La bestia allungò il collo, ringhiando e cercando di raggiungerlo e ucciderlo, ma non aveva la possibilità di muoversi.

Vesuvio sorrise soddisfatto. Era orgoglioso di avere potere al di sopra di cose indifese, e più di ogni cosa amava vedere esseri in trappola che soffrivano.

Vedere lì quel gigante, ora nella sua caverna, nel suo territorio, gli dava un brivido di gioia. Poterci stare così vicino lo faceva sentire completamente potente, lo faceva sentire come se non ci fosse niente al mondo che lui non potesse conquistare. Finalmente, dopo tutti quegli anni, il suo sogno si era realizzato. Finalmente sarebbe stato capace di ottenere la sua agognata meta: creare la galleria che avrebbe condotto il suo popolo sotto Le Fiamme, fino all’occidente.

Vesuvio ghignò guardando la creatura.

“Come vedi non sei forte come me,” gli disse, standogli vicino. “Nessuno è forte come me.”

La bestia ringhiò, un suono orrendo, mentre combatteva invano. Nel frattempo i troll lo tenevano mentre si dimenava a destra e a sinistra, scuotendo le funi ma non riuscendo a liberarsi. Vesuvio sapeva che avevano poco tempo. Se dovevano fare questa cosa, il momento era ora.

Vesuvio si voltò e controllò la grotta: migliaia di operari avevano smesso di lavorare e guardavano il gigante. All’estremità si trovava la galleria incompleta e Vesuvio sapeva che quella sarebbe stata la parte più complicata. Avrebbe dovuto mettere il gigante al lavoro. In qualche modo avrebbe dovuto indurlo ad entrare nella galleria e colpire la roccia. Ma come?

Vesuvio si scervellò fino a che gli venne un’idea.

Si voltò verso il gigante e sguainò la spada, luccicante contro le fiamme della caverna.

“Taglierò le funi,” disse alla bestia, “perché non ho paura di te. Sarai libero e seguirai i miei ordini. Spaccherai quella roccia, nella galleria, e non ti fermerai fino a che non avrai scavato sotto Le Fiamme arrivando ad Escalon.”

Il gigante emise un ruggito di sfida.

Vesuvio si voltò a guardare il suo esercito di troll che attendevano un suo comando.

“Quando la mia spada si abbasserà,” gridò con voce tonante, “taglierete tutte queste funi all’istante. Poi lo spingerete con le vostre armi fino alla galleria.”

I troll lo guardarono nervosamente, tutti chiaramente terrorizzati dall’idea di liberare il gigante. Anche Vesuvio ne aveva paura, ma non l’avrebbe mai dato a vedere. Eppure sapeva che non c’era altro modo: quel momento doveva venire.

Vesuvio non sprecò tempo. Si fece avanti con decisione, sollevò la spada e tirò il primo colpo alle spesse funi che tenevano stretto il collo del gigante.

Immediatamente centinaia di soldati si fecero avanti, sollevarono le loro spade e tagliarono le funi: il rumore di corde che si spezzavano riempì l’aria.

Vesuvio si ritirò velocemente, arretrando, ma non troppo palesemente, non volendo che i suoi uomini scorgessero al sua paura. Scivolò dietro ai ranghi dei suoi uomini, all’ombra della roccia, fuori dalla portata della bestia che si era rimessa in piedi. Avrebbe aspettato di vedere prima cosa sarebbe successo.

 

Un ringhio orribile riempì il canyon mentre il gigante si alzava in piedi, infuriate, e senza aspettare un secondo cominciava a tirare colpi in ogni direzione con i suoi artigli. Raccolse quattro troll per mano, li sollevò sopra la propria testa e li scagliò. I troll volarono in aria, attraversando al grotta e andando a sbattere contro la parete opposta, afflosciandosi poi a terra morti.

Il gigante chiuse le mani a pugno, le sollevò e improvvisamente colpì il terreno, usandole come martelli con l’intento di colpire i troll che gli ronzavano attorno. I troll fuggivano per salvarsi, ma non in tempo. Li schiacciò come formiche e la grotta tremò per i colpi.

Mentre i troll cercavano di correre tra le sue gambe, il gigante sollevò i piedi e li pestò, schiacciandone diversi.

Infuriato uccideva troll da ogni parte. Nessuno sembrava capace di sfuggire alla sua ira.

Vesuvio osservava la scena con crescente timore. Fece cenno al suo comandante, che subito fece suonare un corno.

Subito centinaia dei suoi soldati marciarono in avanti emergendo dall’ombra con lunghe picche e fruste alla mano, tutti pronti a pungolarlo e spingerlo. Lo circondarono, correndo in avanti da ogni direzione, facendo del loro meglio per indurlo ad andare verso la galleria.

Ma Vesuvio fu inorridito vedendo che il suo piano stava collassando davanti ai suoi occhi. La bestia si raddrizzò e calciò una decina di soldati con un colpo solo. Poi fece ruotare il braccio attorno e ne schiacciò altri cinquanta, mandandoli a sbattere contro la parete insieme alle loro lance.ne pestò altri, quelli con le fruste, uccidendone così tanti e così rapidamente che nessuno poteva avvicinarsi a lui. Tutto era inutile contro quella creatura, anche così numerosi e con tutte quelle armi. L’esercito di Vesuvio si stava dissolvendo davanti ai suoi occhi.

Vesuvio rifletté rapidamente. Non poteva uccidere la bestia: gli serviva viva, doveva sfruttare la sua forza. E aveva bisogno di farla obbedire ai suoi comandi. Ma come? Come poteva indurlo ad andare nella galleria?

Improvvisamente ebbe un’idea: se non poteva spingercelo, allora forse poteva attirarcelo.

Si voltò e afferrò il troll accanto a sé.

“Tu,” gli ordinò. “Corri verso la galleria. Assicurati che il gigante ti veda.”

Il soldato lo guardò con gli occhi sgranati per la paura.

“Ma mio signore e re, e se mii segue?”

Vesuvio sorrise.

“È proprio quello che voglio.”

Il soldato rimase lì, terrorizzato, troppo spaventato per obbedire, e Vesuvio lo pugnalò al cuore. Poi si avvicinò al successivo e gli puntò il pugnale alla gola.

“Puoi morire qui adesso,” gli disse, “per mezzo della mia lama, oppure puoi correre nella galleria e avere una possibilità di vivere. A te la scelta.”

Vesuvio spinse con maggior forza la lama contro la gola del troll e quello, capendo che intendeva davvero farlo, si voltò e scattò via.

Vesuvio lo guardò attraversare la grotta di corsa, zigzagando nel mezzo del caos, tra tutti i soldati che morivano, sotto le gambe della bestia e poi verso l’ingresso della galleria.

Il gigante lo scorse e diede un colpo mancandolo. Infuriato e attratto da quell’unico soldato che correva scappandogli, il gigante – come Vesuvio aveva sperato –lo seguì immediatamente. Corse nella grotta facendo tremare il terreno e le pareti a ogni passo.

Il troll correva per salvarsi la vita fino a che entrò nell’enorme galleria. Sebbene ampia e alta, la galleria era poco profonda e terminava dopo appena cinquanta metri, nonostante gli anni di lavoro. Quando il troll vi entrò raggiunse subito il fondo, una parete di roccia.

Il gigante, infuriato, lo seguì senza neppure rallentare. Quando raggiunse il troll cercò di spazzarlo via con i suoi enormi artigli stretti a pugno. Il troll si abbassò e il gigante andò a colpire la terra. Il terreno tremò e seguì un grandioso rombo. Vesuvio guardò con ammirazione la parete che crollava e una valanga di rocce cadeva a terra sollevando un’enorme nuvola di polvere.

Il cuore di Vesuvio accelerò. Era fatta. Era esattamente ciò che aveva sempre sognato, proprio ciò di cui aveva bisogno, ciò che aveva visualizzato dal giorno in cui aveva pianificato di trovare quella bestia. Il gigante colpì ancora e prese un altro blocco di roccia eliminando una quindicina buona di metri con un unico colpo, più di quanto gli schiavi di Vesuvio fossero stati capaci di fare in un intero anno di scavi.

Vesuvio era felicissimo e si rendeva conto che la cosa funzionava.

Ma poi il gigante trovò il troll, lo afferrò e lo sollevò in aria, mangiandogli la testa.

“CHIUDETE LA GALLERIA!” ordinò Vesuvio correndo in avanti e dando direzioni ai soldati.

Centinaia di troll che erano fermi in attesa si lanciarono in avanti e iniziarono a spingere la lastra di roccia maltusiana che Vesuvio aveva fatto posizionare davanti all’ingresso della galleria. Era una roccia così spessa che nessuna bestia, nemmeno quella creatura, poteva spezzarla. Il rumore della roccia che grattava sulla pietra riempì l’aria mentre Vesuvio vedeva la galleria venire lentamente sigillata.

Il gigante, vedendo l’ingresso che veniva chiuso, si voltò e corse verso di esso.

Ma l’apertura si chiuse un attimo prima che il gigante la raggiungesse. L’intera caverna tremò mentre lui vi picchiava contro, ma per fortuna resistette.

Vesuvio sorrise: il gigante era in trappola. Era proprio dove lui lo voleva.

“Mandate dentro il prossimo!” ordinò Vesuvio.

Uno schiavo umano venne spinto avanti, frustato dai suo supervisori, verso la piccola apertura nella lasta di pietra. L’uomo, rendendosi conto di ciò che stava per accadere, si rifiutò di andare, scalciando e lottando. Ma loro lo picchiarono selvaggiamente fino a che riuscirono a farlo passare per l’apertura dandogli un’ultima spinta.

Dall’interno giunsero le grida soffuse dello schiavo che chiaramente cercava di scappare tentando si allontanarsi dal gigante. Vesuvio rimase in ascolto, con soddisfazione, sentendo i versi del gigante infuriato, intrappolato, che picchiava e colpiva la roccia scavando la galleria per lui.

Un colpo alla volta la sua galleria andava avanti: sapeva che a ogni colpo arrivava più vicino a Le Fiamme, ad Escalon. Avrebbe trasformato gli umani in una nazione di schiavi.

Alla fine la vittoria sarebbe stata sua.