Za darmo

Arena Uno: Mercanti Di Schiavi

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Scuoto la testa, provando a ripulirla dalle ragnatele. Quel sogno sembrava così reale, è difficile credere che non sia accaduto. Avevo sognato papà prima di adesso, parecchie volte, ma mai niente di tanto realistico. Mi viene difficile concepire che adesso non è più nella stanza con me; controllo di nuovo la stanza, giusto per essere sicura.

Bree mi tira il braccio, inconsolabile. Non l’ho davvero mai vista stare così.

Mi metto in ginocchio e le do un abbraccio. Lei si avvinghia a me.

“Ho sognato che questi uomini cattivi venivano e mi portavano via! E non c’eri tu a salvarmi!” piange Bree sulla mia spalla. “Non andare!” implora sconvolta. “Ti prego, non andare. Non lasciarmi!”.

“Non vado da nessuna parte”, le dico, abbracciandola stretta. “Sshh… È tutto OK… Non c’è niente di cui preoccuparsi. È tutto a posto”.

Ma nel profondo, non posso fare a meno di sentire che non c’è niente a posto. È proprio il contrario. Il sogno che ho fatto mi sta proprio disturbando, e il fatto che anche Bree ha avuto un brutto sogno – e sulla stessa cosa – non mi conforta. Non sono credo particolarmente nei presagi, ma non posso fare a meno di chiedermi se non sia tutto un segno. Non sento però nessun tipo di rumore né altro, e se ci fosse qualcuno nel raggio di un chilometro, lo saprei sicuramente.

Sollevo il mento a Bree e le asciugo le lacrime. “Fa’ un respiro profondo”, le dico.

Bree mi ascolta, e riprende lentamente fiato. Mi sforzo di sorridere. “Guarda”, le dico. “Sono proprio qua. Non c’è niente che non va. È stato solo un brutto sogno. Okay?”.

Lentamente, Bree annuisce.

“Sei solo stanca”, le dico. “E hai la febbre. Per questo hai fatto brutti sogni. Si sistemerà tutto”.

Mentre sto in ginocchio ad abbracciare Bree, mi rendo conto che devo iniziare a muovermi: devo andare a scalare la montagna, a esplorare la nuova casa e a procurarci del cibo. Mi preparo a dirlo a Bree, e sto male al pensiero di come la prenderà. Chiaramente, il mio tempismo non potrebbe essere peggiore. Come faccio adesso a dirle che sto per lasciarla qua? Anche se soltanto per un’ora o due? Una parte di me vuole rimanere qui, tenerla d'occhio tutto il giorno; ma so anche che devo andare, e prima mi sbrigo, più saremo al sicuro. Non posso semplicemente starmene qua tutto il giorno a non fare niente, e aspettare che venga sera. E non posso rischiare di cambiare piano e spostarci durante il giorno solo per via dei nostri brutti sogni.

Scosto un po’ Bree da me, le sposto i capelli dalla faccia, e le sorrido più dolcemente che posso. Cerco la voce più forte e adulta che ho.

“Bree, ho bisogno che tu mi ascolti”, le dico. “Io ora devo uscire, solo per un po’—”

“NO!” esplode Bree con tono lamentoso. “Lo SAPEVO! È proprio come nel mio sogno! Mi stai abbandonando! E non ritornerai”.

Le tengo strette le spalle, provando a consolarla.

“Non è così” le dico con fermezza. “Ho solo bisogno di andare per un’ora o due. Devo assicurarmi che casa nuova sia sicura per poterci trasferire lì stanotte. E devo cacciare, ci serve del cibo. Ti prego, Bree, cerca di capire. Ti porterei con me, ma per il momento sei troppo malata, e hai bisogno di riposare. Sarò di ritorno in poche ore. Promesso. E poi stanotte, ci andremo insieme. E sai qual’è la parte migliore?”.

Ancora piangendo, si volta lentamente verso di me, e infine scuote la testa.

“A partire da stanotte, saremo lassù assieme, sane e salve, e avremo il fuoco ogni notte, e tutto il cibo che vuoi. E posso cacciare e pescare e fare tutto quello che ci serve proprio là, davanti al cottage. Non dovrò lasciarti mai più sola di nuovo.

“E può venire anche Sasha?” chiede tra le lacrime.

“Anche Sasha” le rispondo. Promesso. Ti prego, fidati di me. Tornerò per te. Non ti abbandonerei mai”.

“Lo giuri?” domanda.

Faccio appello a tutta la solennità che ho e la guardo dritto negli occhi.

“Lo giuro”, rispondo.

Il pianto di Bree diminuisce fino a cessare del tutto; sembra soddisfatta.

Mi piange il cuore, ma mi chino alla svelta, le stampo un bacio sulla fronte, poi mi alzo, attraverso la stanza, ed esco dalla porta. So che se rimango un solo secondo in più, non mi deciderò mai ad andarmene.

La porta sbatte dietro di me, e io non riesco a scrollarmi di dosso la nauseante impressione che non rivedrò più mia sorella.

TRE

Salgo per la montagna, immersa nell’intensa luce mattutina che riflette sulla neve. È tutto completamente bianco. Il sole splende forte, e la luce è così abbagliate che ci vedo a stento. Farei qualsiasi cosa per un paio di occhiali da sole o un berretto da baseball.

Oggi il vento è clemente, più tiepido di ieri, e mentre salgo, sento la neve sciogliersi attorno a me, sgocciolare in piccoli ruscelli e cadere in massa dai rami di pino. La neve è anche più soffice, e camminare è più facile.

Mi volto nuovamente per controllare, ispeziono la vallata che si estende sotto di me, e noto che con il sole della mattina le strade sono tornate a essere parzialmente visibili. Mi preoccupa, ma subito mi rimprovero: non devo lasciarmi disturbare dai presagi. Devo essere più forte. Più razionale, come papà.

Ho il cappuccio addosso, ma mentre abbasso la testa al vento, che più salgo e più soffia forte, penso che avrei dovuto mettermi la sciarpa nuova. Chiudo le mani, le sfrego – quanto vorrei anche i guanti – e raddoppio la velocità. Sono decisa ad arrivare lì in fretta, perlustrare il cottage, cercare il cervo, e tornare di corsa giù da Bree. Forse recupererò anche qualche altro barattolo di marmellata; il che tirerà Bree su di morale.

Seguo le mie tracce di ieri, ancora visibili nella neve che si scioglie, e questa volta l’escursione è più semplice. Nel giro di circa venti minuti, ho aggirato l’altopiano e sono di nuovo dove mi trovavo il giorno prima.

Sono sicura di essere nello stesso posto di ieri, ma come cerco il cottage e non riesco a trovarlo. È così ben nascosto che, pur sapendo dove guardare, non riesco comunque a vederlo. Inizio a chiedermi se sono nel posto giusto. Proseguo, seguendo le mie impronte, fino a quando arrivo nel punto esatto in cui mi trovavo il giorno prima. Allungo il collo, e finalmente, la vedo. Sono stupita di quanto sia ben nascosta, e ancora più stimolata a vivere qua.

Rimango ferma e mi metto in ascolto. Tutto tace. Si sente solo la neve che gocciola. Esamino con attenzione la neve, alla ricerca di un qualsiasi segno di impronte in entrata o in uscita (a parte le mie) lasciate ieri. Non trovo niente.

Cammino fino alla porta, resto davanti alla casa e faccio un giro a 360: scruto il bosco in tutte le direzioni, controllo gli alberi, cerco anche un minimo segnale di qualcosa che non va, qualsiasi cosa riveli che c'è stato qualcun altro. Rimango ferma per almeno un minuto, in ascolto. Non c’è niente. Assolutamente niente.

Alla fine, sono soddisfatta, sollevata dal fatto che questo posto è per davvero nostro, e solo nostro.

Tiro la pesante porta, piena zeppa di neve, e un’intensa luce inonda l’interno. Abbasso la testa ed entro, e mi sembra di vederla per la prima volta alla luce. È piccola e confortevole come la ricordavo. Noto che ha una pavimentazione in grandi assi di vero legno, che sembra avere almeno cent’anni. È tranquillo qua dentro. E le piccole finestre aperte su ciascun lato lasciano entrare un bel po’ di luce.

Osservo la stanza alla luce, cercando qualsiasi cosa possa essermi sfuggita – ma non trovo niente. Guardo in giù e trovo la maniglia della botola; mi metto in ginocchio e tiro forte per aprirla. Si solleva in un vortice di polvere che fluttua nella luce del sole.

Scendo la scala, e stavolta, con tutta la luce che viene riflessa, vedo molto meglio quello che c’è qua sotto. Ci saranno centinaia di barattoli. Riconosco molti altri barattoli di marmellata di lamponi, ne afferro due, e me ne metto uno in ogni tasca. Bree impazzirà. E anche Sasha.

Faccio una veloce scansione degli altri barattoli, e scorgo ogni sorta di provviste: sottaceti, pomodori, olive, crauti. Vedo anche un sacco di marmellate diverse, almeno una dozzina di barattoli per ciascuna. Ce ne sono ancora di più, dietro, ma non ho tempo di guardare con attenzione. Il pensiero di Bree si sta facendo sempre più invadente.

Risalgo la scala, chiudo la porta della botola ed esco dal cottage, chiudendo bene la porta d’ingresso dietro di me. Resto ferma e controllo nuovamente l’ambiente circostante, tenendomi pronta nell'eventualità che qualcuno possa avermi visto. Temo ancora che sia tutto troppo bello per essere vero. Ma ancora una volta, non c’è niente. Forse sono diventata troppo apprensiva.

Procedo verso il posto in cui avevo visto il cervo, una trentina di metri da qui. Come lo raggiungo, tiro fuori il coltello da caccia di papà e me lo tengo di lato. So che è difficile rivederlo, ma forse quest’animale, come me, è un essere abitudinario. Non posso mai essere abbastanza veloce da inseguirlo, né abbastanza svelta per saltargli addosso – e non ho una pistola o qualche vera arma da caccia. Ma una possibilità ce l'ho, ed è il mio coltello. Sono sempre andata orgogliosa della mia abilità di centrare il bersaglio da trenta metri. Tirare il coltello era l’unica delle mie capacità che sembrava impressionare papà – o almeno l'impressionava abbastanza da non provare mai a correggermi o migliorarmi. Al contrario, se ne prendeva merito, dicendo che il talento mi veniva da lui. Anche se in realtà non lanciava un coltello bene neanche la metà di quanto facevo io.

Mi metto in ginocchio nel punto in cui ero prima. Mi nascondo dietro un albero, con lo sguardo verso l’altipiano e il coltello in mano, e aspetto. Intanto prego. Sento solo il suono della neve.

In testa ripasso quello che farò se vedo il cervo: mi alzo lentamente, prendo la mira e lancio il coltello. Prima penso di puntare l’occhio, ma poi decido di mirare alla gola: se lo manco di pochi pollici, ci sarà la possibilità di colpirlo da qualche altra parte. Se le mie mani non sono troppo gelate, e se sono precisa, immagino che forse, forse, riesco a ferirlo. Ma mi rendo conto che sono tutti dei grossi “se”.

 

I minuti passano. Dieci, venti, trenta…. Il vento va morendo, poi riappare a raffiche, e mentre lo fa, sento leggeri fiocchi di neve dagli alberi soffiano sulla mia faccia. Più il tempo passa, e il freddo aumenta, più m’intirizzisco, e inizio a pensare se non sia stata una cattiva idea. Ma sento un’altra tagliente fitta per la fame, e so che devo provarci. Avrò bisogno di tutte le proteine possibili se voglio cambiare casa – soprattutto se devo spingere la motocicletta in salita.

Dopo quasi un’ora di attesa, sono completamente congelata. Non so se arrendermi o dirigermi giù per la montagna. Magari dovrei ritentare con la pesca.

Decido di alzarmi e fare un giro per riattivare la circolazione degli arti e recuperare sensibilità alle mani; se avessi bisogno di usarle adesso, probabilmente sarebbero inutili. Come mi alzo in piedi, sento ginocchia e schiena rigide farmi male. Mi metto a camminare nelle neve, iniziando con piccoli passi. Sollevo e piego le mie ginocchia, torco la schiena a destra e a sinistra. Rinfilo il coltello nella cintura, poi mi sfrego le mani e ci soffio sopra ripetutamente, tentando di ritrovare sensibilità.

All’improvviso, mi blocco. In lontananza, un ramoscello si spezza di colpo, e percepisco il movimento.

Mi giro lentamente. In cima alla salita appare un cervo. Cammina lentamente, passo passo, nella neve, sollevando e poggiando gli zoccoli delicatamente. Abbassa la testa, mastica una foglia, poi con attenzione fa un altro passo in avanti.

Il cuore mi batte elettrizzato. Raramente mi capita di sentire che papà è con me, ma oggi, lo sento. Riesco a sentire la sua voce in testa in questo momento: Piano. Respira lentamente. Non fargli sapere che sei qui. Stai concentrata. Se riesco ad abbattere quest’animale, avremo cibo – cibo vero – per Bree, Sasha e me per almeno una settimana. Ci serve.

Fa un altro paio di passi verso la radura e io ottengo una migliore visuale: è un grosso cervo, e si trova a una trentina di metri. Mi sentirei molto più sicura se fosse stato a dieci metri, o anche venti. Non so se riesco a colpirlo a questa distanza. Se ci fosse stato più caldo, e lui non si stava muovendo, allora sì. Ma ho le mani intorpidite, il cervo si sta muovendo ed è pieno di alberi da quella parte. Non lo so. Quello che so è che se lo manco, non tornerà mai più qui.

Aspetto, lo studio, ho paura di spaventarlo. Vorrei che si avvicinasse di più. Ma non sembra volerlo fare.

Rifletto su cosa fare. Posso attaccarlo, avvicinandomi il più possibile, e poi lanciare. Ma sarebbe stupido: dopo neanche un metro, scapperebbe di sicuro. Forse dovrei provare ad avvicinarmici furtivamente. Ma dubito che anche questo funzionerebbe. Il minimo rumore, ed è andato.

E allora rimango qua, a riflettere. Faccio un piccolo passo in avanti, mettendomi in posizione per lanciare il coltello, nel caso dovessi farlo. E quel piccolo passo è il mio errore.

Un ramoscello si spezza sotto i miei piedi, il cervo solleva immediatamente la testa e si gira verso di me. I nostri sguardi si incrociano. So che mi vede e che è sul punto di scappare via. Il cuore martella, so che è la mia sola possibilità. La mente è in blocco.

Poi agisco fulminea. Allungo il braccio, afferro il coltello, faccio un gran passo in avanti, e con tutta la mia bravura, tendo indietro il braccio e lo lancio, mirando alla gola.

Il pesante coltello del Corpo dei Marine di papà gira su sé stesso nell’aria, e prego che non colpisca un albero. Guardarlo roteare, con la luce che riflette, è un momento di vera bellezza. Nello stesso istante, vedo il cervo voltarsi e iniziare a correre.

Sono troppo lontana per vedere esattamente cosa succede, ma un attimo dopo, sono sicura di sentire il suono del coltello che entra nella carne. Il cervo scappa però, e non so dire se è ferito.

Gli corro dietro. Raggiungo il punto in cui si trovava, e mi sorprende notare una chiara macchia di sangue sulla neve. Sento il cuore battere di speranza.

Seguo la traccia di sangue e corro a più non posso, saltando sulle rocce. Dopo una cinquantina di metri, lo vedo: eccolo qua, crollato sulla neve, steso sul fianco, con le gambe contratte. Vedo il coltello conficcato nella gola. Esattamente il punto a cui stavo mirando.

Il cervo è ancora vivo, e non so come porre fine alle sue sofferenze. Lo sento soffrire, e mi sento un mostro. Vorrei dargli una morte veloce ed indolore, ma non so come.

Mi metto in ginocchio ed estraggo il coltello, poi mi piego, e con un movimento rapido, faccio un taglio profondo lungo la gola, sperando che funzioni. Dopo pochi istanti, sgorga fuori il sangue, e alla fine le gambe del cervo smettono di muoversi. Anche i suoi occhi smettono di agitarsi: finalmente so che è morto.

Mi alzo, con gli occhi fissi in basso e il coltello in mano, e mi sento assalire dal senso di colpa. Mi sento crudele nell’avere ucciso una creatura così bella e indifesa. In questo momento, non riesco a pensare a quanto bisogno avevamo di questo cibo, a quanto sono fortunata ad averlo cacciato. Tutto quello che riesco a pensare è che, soltanto pochi minuti prima, respirava, vivo, davanti a me. E che adesso, è morto. Guardo giù verso il cervo, ancora perfettamente steso sulla neve, e nonostante tutto, mi vergogno.

È questo il momento in cui lo sento per la prima volta. All'inizio lo respingo, presumendo che devo essermelo sognata, perché non è proprio possibile. Ma subito dopo, torna un po’ più forte, più distinto, e so che è reale. Il mio cuore si mette a battere all’impazzata , considerato che riconosco quel rumore. È un rumore che quassù prima ho sentito solo una volta. È il sibilo di un motore. Un motore di automobile.

Rimango lì attonita, troppo gelata anche per muovermi. Il motore si fa più forte, più distinto, e so che può voler dire una cosa sola. Mercanti di schiavi. Nessun altro oserebbe arrivare fin quassù, né avrebbe motivo di farlo.

Parto di scatto, lascio il cervo e mi lancio attraverso gli alberi, oltre il cottage, giù per la discesa. Non sono abbastanza veloce. Penso a Bree, sola a casa, mentre il rumore dei motori si fa sempre più forte. Provo ad aumentare la velocità, scendo di corsa per il pendio nevoso, incespicando, col cuore che mi batte in gola.

Corro così veloce che cado, di faccia, sbucciandomi ginocchio e gomito, e restando senza fiato. Mi rimetto in piedi, e noto il sangue sul ginocchio e sul braccio, ma non m’importa. Mi sforzo e mi rimetto in moto, quindi riprendo a correre.

Scivolando di continuo, raggiungo finalmente l’altopiano: da qui posso vedere tutta la montagna giù fino a casa nostra. Il cuore mi balza in gola: sulla neve ci sono chiare tracce di macchina che portano dritto a casa nostra. La porta d’ingresso è aperta. E, cosa più inquietante di tutte, non sento Sasha abbaiare.

Scendo di corsa, sempre più giù, e nel farlo do una bella occhiata ai due veicoli parcheggiati fuori casa: le auto dei mercanti di schiavi. Tutte nere, a poca altezza da terra, sembrano muscle car alla potenza, con enormi gomme e sbarre ai finestrini. Impresso sui loro cappucci c’è lo stemma dell’Arena Uno, inconfondibile perfino da qui – un diamante con uno sciacallo in mezzo. Sono qui per rifornire l’arena.

Scatto nuovamente giù per la collina. Mi devo alleggerire. Infilo le mani nelle tasche, tiro fuori i barattoli di marmellata e li getto a terra. Sento il vetro rompersi dietro di me, ma non m’importa. Niente importa adesso.

Sono lontana quasi cento metri quando vedo i veicoli partire e iniziare a lasciare casa mia. Ritornano giù per la tortuosa strada di campagna. Voglio scoppiare a piangere appena realizzo quello che è successo.

In trenta secondi raggiungo la casa, la supero, e corro dritta per la strada, sperando di raggiungerli. So già che la casa è vuota.

Sono arrivata troppo tardi. Le tracce dell’auto parlano chiaro. Se guardo giù la montagna, riesco a vederli, lontani già mezzo chilometro, e sempre più veloci. È impossibile raggiungerli a piedi.

Ritorno in casa, giusto nel caso in cui, per qualche remota possibilità, Bree fosse riuscita a nascondersi, o l’avessero lasciata. Irrompo dalla porta d’ingresso aperta, e rimango atterrita dalla vista che ho davanti: c’è sangue ovunque. Sul pavimento giace un mercante di schiavi morto, con addosso l’uniforme nera, e il sangue che gli esce dalla gola. Accanto a lui giace Sasha, su un lato, morta. Il sangue le cola di lato da quella che sembra essere una ferita di pallottola. I suoi denti sono ancora conficcati nella gola del cadavere. È chiaro cos'è successo: Sasha deve avere provato a proteggere Bree, scagliandosi contro l’uomo non appena questo è entrato e azzannandolo alla gola. Gli altri devono averle sparato. Ma ancora non mollava.

Corro per tutta la casa, stanza per stanza, urlo il nome di Bree e sento la disperazione della mia voce. È una voce che non riconosco più: è la voce di una pazza.

Ma tutte le porte sono spalancate e non c’è niente di vuoto.

I mercanti di schiavi hanno preso mia sorella.

QUATTRO

Mi trovo nel soggiorno di mio papà, in stato di shock. Avevo sempre temuto che questo giorno arrivasse; ma anche adesso che è successo, stento a crederci. Sono sopraffatta dalla colpa. Ci ha tradito il fuoco della scorsa notte? Hanno visto il fumo? Perché non sono stata più prudente?

Ce l'ho con me stessa anche per aver lasciato Bree sola stamattina – soprattutto dopo che entrambe avevamo fatto dei sogni così brutti. Rivedo la sua faccia, in lacrime, che mi supplica di non lasciarla. Perché non l’ho ascoltata? E ho seguito il mio istinto? Ripensandoci, non posso fare a meno di ricordare che papà mi aveva messo bene in guardia. Perché non ci ho dato peso?

Niente di tutto questo ha importanza adesso: mi fermo giusto un attimo. Sono in modalità da combattimento, e non ho alcuna intenzione di arrendermi e lasciarla andare. Sto già correndo per la casa così non perdo tempo prezioso per inseguire i mercanti di schiavi e salvare Bree.

Corro verso il corpo del mercante di schiavi e lo esamino rapidamente: indossa la tipica uniforme militare, anfibi neri, tenuta da corvée, e camicia nera a maniche lunghe coperta da un bomber nero attillato. Ha ancora addosso la maschera nera con le insegne dell’Arena Uno – il marchio di riconoscimento di un mercante di schiavi – e indossa pure un piccolo casco nero. Non gli è stato di grande aiuto: Sasha ha trovato lo stesso il modo di conficcargli i denti in gola. Butto gli occhi verso Sasha e sento mancarmi il respiro. Le sono davvero riconoscente per la difesa che ha opposto. Mi sento in colpa per aver lasciato da sola anche lei. Lancio uno sguardo al suo corpo, e giuro a me stessa che dopo aver recuperato Bree, tornerò e le darò una degna sepoltura.

Spoglio velocemente il cadavere del mercante di schiavi in caso ci fossero oggetti di valore. Inizio prendendogli la cintura di armi e avvolgendomela alla vita, allacciata stretta. Contiene una fondina e una pistola. La tiro fuori e la controllo al volo: è carica, sembra in perfetto stato. Questo è oro – e adesso è mio. E sulla cintura ci sono diverse munizioni di riserva.

Gli tolgo il casco e lo guardo in faccia: sono sorpresa nel vedere che è molto più giovane di quanto pensassi. Non avrà più di 18 anni. Non tutti i mercanti di schiavi sono spietati cacciatori di taglie; alcuni di loro sono stati arruolati a forza, e si trovano nelle grinfie dei padroni dell’Arena, che sono i veri detentori del potere. Nonostante ciò, non provo nessuna compassione per lui. Dopotutto, reclutato a forza o no, è venuto quassù per prendersi la vita di mia sorella – e anche la mia.

Voglio solo correre fuori ad acciuffarli, ma mi controllo, mi fermo e recupero prima quello che posso. So che ne avrò bisogno là fuori, e che un altro minuto o due spesi qui possono finire col fare la differenza. Quindi mi abbasso e provo il suo casco: mi rincuora vedere che mi va. La sua visiera nera sarà d’aiuto per bloccare la luce accecante che viene dalla neve. Passo ai suoi vestiti, di cui ho disperatamente bisogno. Gli sfilo i guanti, fatti di un materiale imbottito ultraleggero, e sono rincuorata nel vedere che calzano perfettamente sulle mie mani. I miei amici mi prendevano sempre in giro per le mie mani e i miei piedi grandi e la cosa mi ha sempre imbarazzato – ma adesso, per una volta, ne sono contenta. Poi gli tolgo la giacca e mi sta anche quella, forse giusto un filino grande. Abbasso lo sguardo e noto quanto fosse piccolo di corporatura. Mi rendo conto di essere fortunata: siamo quasi della stessa misura. La giacca è spessa e imbottita, rivestita con qualche tipo di piume. Non ho mai indossato qualcosa tanto caldo e lussuoso nella mia vita, e me ne rallegro. Adesso, posso finalmente affrontare il freddo.

 

Guardo in giù e so che dovrei togliergli anche la camicia – ma sono io che non voglio indossarla. In qualche modo, è troppo personale.

Metto i miei piedi sui suoi, e sono lieta di vedere che abbiamo la stessa misura. Non perdo tempo e mi tolgo i vecchi stivali consumati, una misura più piccoli; quindi gli tolgo i suoi e me li metto ai piedi. Mi alzo. Sono della misura perfetta e li sento perfetti. Sono anfibi neri con le punte in acciaio, rivestito internamente di pelliccia, e mi arrivano fino allo stinco. Sono mille volte più caldi – e più comodi – dei miei stivali.

Con addosso i miei nuovi anfibi, il giubbotto, i guanti, e con la cintura di armi ben stretta, fornita di pistola e munizioni, mi sento una persona nuova, pronta per la battaglia. Lancio un’occhiata al corpo di Sasha, poi guardo attorno e vedo lì vicino sul pavimento l’orsacchiotto nuovo di Bree ricoperto di sangue. Trattengo le lacrime. Una parte di me vuole sputare sulla faccia di questo mercante di schiavi prima di uscire dalla porta, ma mi volto ed esco semplicemente di casa.

Mi sono mossa rapidamente, riuscendo a spogliarlo e a vestirmi in meno di un minuto. Adesso corro fuori casa a folle velocità, cercando di recuperare il tempo perso. Mentre schizzo dalla porta d’ingresso, riesco ancora a sentire il sibilo lontano dei loro motori. Non possono essere a più di un miglio da me, e sono determinata a colmare il divario. Tutto quello che mi serve è un piccolo colpo di fortuna – per esempio che rimangano bloccati in un banco di neve o gli succeda qualche imprevisto – e forse, forse, riesco a prenderli. E con questa pistola e le munizioni, potrei perfino riuscire a dar loro quello che si meritano. Altrimenti, morirò lottando. Neanche esiste la possibilità di ritornare senza Bree accanto a me.

Faccio di corsa la salita, dentro il bosco, più veloce che posso, lanciandomi verso la motocicletta di papà. Do un’occhiata e vedo le porte del garage aperte dal vento. I mercanti di schiavi devono averlo perlustrato cercando il veicolo. Sono davvero contenta di aver avuto la lungimiranza di nascondere la moto tempo fa.

Mi inerpico su per la collina, fra la neve che si scioglie, e corro verso i cespugli che nascondono la moto. I guanti nuovi, ben imbottiti, vengono in soccorso: stacco i rami spinosi e li allontano. In pochi secondi, mi libero un sentiero per la moto. Sono lieta di trovarla ancora qua, al riparo dalle intemperie. Senza perdere un istante, mi stringo il casco nuovo, prendo la chiave nascosta sul raggio, e salto sulla moto. Giro la chiave e metto in moto col pedale.

Il motore gira, ma non parte. Il mio cuore va a fondo. Non l’accendo da anni. Che sia morta? Provo a rimetterla in moto, dando ripetutamente gas e colpi di pedale. Fa sempre più rumore, ma ancora niente. Mi sento sempre più angosciata. Se non riesco a farla partire, non ho alcuna possibilità di prenderli. Bree sarà andata per sempre.

“Dai, DAI!“ Grido, col corpo tremante.

Do un colpo di pedale dietro l'altro. Ogni volta fa sempre più rumore, e mi sembra di essere più vicina.

Alzo la testa al cielo.

“PAPÀ!“ Grido. “TI PREGO!“

Do un altro colpo di pedale, e stavolta, prende. Mi sento così sollevata. Do gas più volte, facendo sempre più rumore, e dal tubo di scappamento escono piccole nuvole nere di fumo.

Ora, almeno, ho la possibilità di andarli a combattere.

*

Giro il pesante manubrio e sposto indietro la moto di pochi passi; è così pesante che quasi non riesco a manovrarla. Giro di nuovo il manubrio e accelero un po’. La moto inizia a scendere giù per la ripida montagna, ancora coperta di neve e rami.

La strada asfaltata si trova a una cinquantina di metri di fronte a me, e scendere per la montagna, attraverso questo bosco, è pericoloso. La moto pattina di continuo, e anche usando i freni, non riesco proprio a controllarla. È più una discesa libera. Scivolo attraverso gli alberi, mancandoli di un pelo, e sobbalzo ogni volta che passo sopra un grande buco per terra o che sbatto contro qualche roccia. Spero che non si buchi una gomma.

Dopo circa trenta secondi della pista più irregolare e ineguale che potessi immaginare, con un colpo la moto lascia finalmente la terra per la strada asfaltata. Giro e do gas, e lei risponde: vola giù per la ripida strada di montagna asfaltata. Ora, sto andando.

Prendo buona velocità, il motore romba, il vento mi corre sopra il casco. Si gela, fa più freddo che mai, e sono contenta di aver preso i guanti e il giubbotto. Non so come avrei fatto senza.

Non riesco però ancora ad andare troppo veloce. Questa strada di montagna è tortuosa e non ci sono argini; una curva azzardata e volo via, cadendo per decine di metri giù per il precipizio. Vado più veloce che posso, ma rallento sempre prima di ogni curva.

È fantastico guidare di nuovo; mi ero scordata cosa significava sentirsi davvero liberi. Il mio giubbotto nuovo sventola all’impazzata. Abbasso la visiera scura e il bianco luminoso del paesaggio innevato cambia in un grigio attenuato.

Se ho un vantaggio rispetto ai mercanti di schiavi, è che conosco queste strade meglio di chiunque altro. Salivo quassù fin da quando ero bambina, e so dove la strada gira, quanto è ripida, e conosco scorciatoie delle quali loro non potrebbero mai essere a conoscenza. Sono loro nel mio territorio adesso. E anche se mi trovo probabilmente a un chilometro o più dietro di loro, mi sento ottimista sulla possibilità di prenderli. Questa moto, per quanto vecchia, deve essere veloce almeno quanto le loro muscle car.

Mi sento tranquilla, penso di sapere dove stanno andando. Se vogliono tornare sull’autostrada – cosa che certamente vogliono fare – allora c’è solo una strada che possono prendere per uscire da queste montagne, ed è la Route 23, direzione est. E se si dirigono verso la città, poi non c’è altro modo che attraversare l’Hudson per il ponte Rip Van Winkle. È la loro sola via d’uscita. E sono determinata ad arrivarci prima di loro.

Mi sto abituando alla moto e prendo sempre più velocità, abbastanza da sentire il sibilo del loro motore diventare più forte. Incoraggiata, sparo la motocicletta più veloce di quanto dovrei: Abbasso un attimo lo sguardo e vedo che sto facendo i 100. So che non è prudente, visto che questi tornanti mi costringono a rallentare fino a 15 chilometri all’ora, se voglio provare a non sfracellarmi sulla neve. Quindi accelero e decelero, curva dopo curva. Alla fine guadagno abbastanza terreno da potere praticamente vedere, a un chilometro di distanza, il paraurti di una delle loro auto che scompare dietro a una curva. Mi sento incoraggiata. Prenderò questi tizi – o morirò provandoci.

Faccio un’altra curva, rallento fino a circa 15 chilometri orari e mi preparo ad accelerare di nuovo, quando all’improvviso, per poco non investo una persona che in mezzo alla strada, dritto di fronte a me. È apparsa dal nulla, ed è troppo tardi per qualsiasi reazione.

Sto quasi per colpirla, e non ho altra scelta che piantare freni. Per fortuna non sto andando veloce, ma la mia moto ancora pattina sulla neve, senza riuscire ad avere aderenza. Faccio un 360, ruotando due volte, e alla fine mi fermo come la moto sbatte contro la parete di granito della montagna.

“Sono fortunata”. Se avessi ruotato nell’altra direzione, sarei finita dritta sullo strapiombo.

È successo tutto così velocemente, che sono sotto shock. Sono seduta sulla moto, col manubrio stretto tra le mani; mi giro e guardo la strada. La mia prima sensazione è che quell’uomo è un mercante di schiavi, piazzatosi lì per buttarmi fuori strada. Con una mossa rapida, spengo il motore e impugno la pistola, mirando dritto all’uomo, che sta ancora di fronte a me, a circa sei metri. Tolgo la sicura e tiro indietro il percussore, come mi ha insegnato tante volte papà al poligono di tiro. Miro dritto al cuore, invece che alla testa, così se lo manco, lo colpisco comunque da qualche parte.