Per Sempre È Tanto Tempo

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«Io … mi dispiace.»

«Di cosa ti dispiace?» vuole sapere mio padre, mentre Elena gli afferra il braccio come volendo chiudere la questione.

«Mi dispiace per ieri sera» chiarisco senza guardare nessuno dei due e senza molta convinzione nella voce. Mio padre mi osserva per un attimo.

«Va bene … per ora accetteremo le scuse, anche se so che in realtà non ti dispiace» inizia ad alzarsi in piedi «sbrigati, non voglio che arrivi tardi, buona giornata, ci vediamo a cena.»

Termino di fare colazione e ho appena il tempo per qualche respiro profondo e prendere il mio zaino, voglio davvero uscire da qui. Non saluto nemmeno Elena quando le passo accanto e corro in strada, ma mi fermo di colpo quando vedo Jake vicino casa mia. Mi sta aspettando?

Riesco quasi a sentire un sorriso che si affaccia sulle mie labbra, ma prima devo essere sicura che non è un sogno. I nostri occhi s'incrociano e lo vedo raddrizzare la postura. Si ravvia i capelli con un gesto nervoso della mano. Mi avvicino lentamente, non smette di osservarmi. Mi pento di non essermi truccata per nascondere le occhiaie e la mia faccia insonne. Avrei dovuto rubare il correttore a Elena, che sicuramente ne usa molto.

«Puoi fare con calma un altro giorno, perché credo che oggi siamo un po’ in ritardo» commenta serio, ma nascondendo un sorriso.

«Possiamo arrivare in tempo» lo sfido.

«Ah, sì? Come?»

«Propongo una corsa, a partire da adesso!» parto sparata mentre lui impiega un paio di secondi per capire cosa ho appena fatto.

Da bambini lo facevamo sempre quando eravamo in ritardo o quando semplicemente ci annoiavamo. Mi sento così viva di nuovo, ho di nuovo nove anni e la mia unica preoccupazione è prendere buoni voti a scuola e avere tempo per stare con il mio migliore amico.

Sento le sue lunghe gambe dietro di me, le sue scarpe contro il marciapiede quando mi raggiunge e alla fine mi sorpassa.

«Mi dispiace … forse un altro giorno ti lascerò vincere» ripete le parole che diceva sempre da bambino.

Per niente seccata di avere perso, voglio solo lanciarmi su di lui e abbracciarlo affinché tutto torni a essere come prima. Entrambi sorridiamo mentre riprendiamo fiato, quando vediamo avvicinarsi l’autobus giallo. Cerchiamo di respirare normalmente, ma ogni volta che ci guardiamo, sorridiamo come stupidi e in quel momento mi rendo conto di quanto mi è mancato tutto questo. Non so se lui prova le stesse cose, finché mi lascia salire per prima sul bus e quando gli passo accanto, mi sussurra: mi sei mancata molto.

«Se sapessi, quanto tu sei mancato a me» penso, e prego che il mio sorriso per lui rifletta meglio ciò che sento in questo momento.

CAPITOLO 3

«Vuoi stare un po’ a casa mia?» mi chiede appena scendiamo dall’autobus nel viaggio di ritorno.

È l’idea migliore che potesse venirgli in mente, ma sicuramente Elena spettegolerà con mio padre. Ma penso, dopotutto non ha detto che sono in castigo, quindi perché no.

«Va bene» rispondo timidamente. «Possiamo fermarci un attimo a casa mia? Lascio giù solo lo zaino e vedo se tutto è a posto.»

«Sì, certo.»

Posso andarmene senza dire nulla, ma so che mio padre ne farebbe un nuovo scandalo. Arriviamo a casa mia, o meglio, alla mia ex casa, e lo faccio entrare.

«Vado con Jake a casa sua, tornerò prima di cena» grido a Elena e mi sto dirigendo al piano di sopra per mettere giù il mio zaino quando lei m'interrompe.

«Jocelyn, non credo che tuo padre sia d’accordo, inoltre lui non so chi è.»

«Ah, scusa!» mi do un finto colpo in testa «Elena, lui è Jake, un mio compagno di scuola, inoltre è il nostro vicino. Jake, lei è Elena. Non preoccuparti per mio padre, lui conosce Jake da quando è nato.»

Non le do altre spiegazioni.

«Sì, mi sembra di averti visto da qualche parte» dice la mia matrigna.

«Piacere di conoscerla, signora» saluta Jake ed io sbuffo per la parola “signora”. «Sì, vivo a due isolati da qui, non si preoccupi per Jocelyn, io la riaccompagnerò a casa.»

La vedo dubbiosa e quando si rende conto che non può vincere, perché in ogni caso me ne andrò, desiste.

«Va bene, ma torna prima che arrivi tuo padre, per favore.»

Quasi mi scappa un “grazie”, ma poi ricordo che non ho nulla di cui ringraziarla e semplicemente la ignoro.

Mi affretto a lasciare giù le mie cose e prendo un’altra giacca dal mio armadio se per caso fa più freddo, che ovviamente lo farà, prendo il mio cellulare ed esco.

«Adesso possiamo andare» mi rivolgo solo a Jake mentre passo a fianco di Elena.

«Arrivederci?» lei vuole farsi notare, ma la guardo soltanto e proseguo per la mia strada.

«A presto» sento lui che la saluta.

Percorriamo un paio di metri in silenzio, mentre tento di tornare al buonumore che avevo prima. Davvero non abbiamo avuto un momento da soli, per poter parlare di tutto quello che abbiamo taciuto in questi anni e per questo sento una nervosa anticipazione impossessarsi del mio stomaco.

«Non ti avevo mai visto così maleducata» commenta Jake quasi divertito, «è … interessante.»

«Vuoi vederlo di nuovo?» lo sfido.

«Se è con me, no, per favore.»

«Sta zitto» lo provoco.

Passiamo oltre un altro paio di case, mentre io confronto i miei ricordi con la realtà davanti ai miei occhi. Alcune case hanno cambiato colore, altre sono semplicemente diverse. Forse ho idealizzato troppo questo luogo.

Jake cammina con le mani in tasca e lo sguardo a terra, mi ricorda me il primo giorno di scuola.

«Tua mamma è in casa?» chiedo solo per essere sicura. Se la mia non c’è, in questi anni potrebbe essere successa qualunque cosa.

«Deve essere da mia nonna, ma non tarderà ad arrivare.»

«E tuo padre continua a lavorare all’università?»

«Sì … e mio fratello ha iniziato l’università quest’anno, alla Columbia, quindi sono a casa da solo.»

«Questo è ottimo per Scott. Cosa ha deciso di studiare? E perché la Columbia?»

«Economia. Solo per sfidare mio padre. Suppongo che gli andrà bene, sai che non è solo intelligente, è anche popolare.»

«Sì, mi ricordo … E la casa sull’albero? È ancora in piedi?»

«In realtà era molto rovinata, ma Scott ed io l’abbiamo sistemata prima che andasse all’università, la vedrai.»

Arriviamo alla casa di mattoni rossi che vedevo nei miei sogni, così come la ricordavo. Potevo quasi vederci entrare per quella porta, da bambini e sederci nel piccolo giardino sul retro quando c’era il sole o fare pupazzi di neve sul marciapiede quando nevicava. Il tempo poteva quasi tornare indietro. Quasi, ma forse no.

Jake estrae la chiave dalla tasca destra mentre terminiamo di salire i pochi gradini fino al portico davanti.

«Benvenuta di nuovo in casa Johnson» recita prima di aprire la porta con aria drammatica.

«Grazie» entro e una sensazione calda s'impadronisce di tutto il mio corpo.

«Vuoi qualcosa da bere o da mangiare?» chiede mentre io osservo in giro con curiosità.

«No, sto bene così, grazie» rispondo mentre lo immagino crescere in questi anni tra queste pareti. «Posso vedere la casa sull’albero?»

«Certo» annuisce come se fosse ovvio.

Passiamo per la cucina ed eccola lì, a prendersi gioco del passare del tempo. La ricordavo molto più grande o forse è solo il fatto che io sono cresciuta. Ci avviciniamo alla piccola scala appesa che ci porta proprio all’ingresso.

«Prima le signore» dice reggendo un’estremità della scala e cedendomi il passo.

«Che cavaliere!» esclamo in tono giocoso e inizio a salire con le mani che mi sudano, rendendolo più difficile.

Raggiungo l’ingresso e mi sposto all’interno, ricordo perfettamente l’ultima volta che sono stata qui e no, l’ultima volta non fu quella del bacio, anche se la ricordo molto bene.

«Mamma cosa succede?!» chiesi appena entrai in casa, da fuori avevo sentito i miei genitori discutere.

«Figlia mia, fai le valigie, ce ne andiamo subito» rispose mia madre in fretta mentre mio padre ardeva di una furia silenziosa.

«Cosa?!!!» esclamai fuori di me «Dove? Papà, che succede?» mi rivolsi a mio padre che si passava le mani sulla faccia senza dire niente.

«Sì, Charles, dì a tua figlia cosa sta succedendo.»

Non capivo niente. Guardavo entrambi e nessuno dei due riusciva a darmi una spiegazione chiara per questo disastro.

«Jane, per favore … Non farlo» e iniziarono a ignorarmi, mentre io restavo nell’occhio del ciclone preparandomi al peggio.

«Non devo farlo?! Sei stato tu a farlo!» recriminò mia madre «Jocelyn, finisci di fare le valigie, ho già raccolto i tuoi vestiti, porta solo le cose assolutamente necessarie.»

«Ma mamma!» protestai.

«Ma niente … fai solo quello che ti dico» disse in un tono aspro che non avevo mai sentito nella sua voce, così obbedii.

Entrai, per quella che pensavo sarebbe stata l’ultima volta, nella mia camera da letto e mi buttai sul letto tra i singhiozzi, mentre elaboravo l’idea di andarmene e abbandonare tutto quello che conoscevo fino a quel momento. E all’improvviso mi venne in mente un nome. Jake.

No, no, no. Non potevo lasciare Jake. Anche se mi aveva appena baciata, lui era ancora il mio migliore amico. Non avrei potuto dirgli addio. Afferrai un foglio di carta pensando di scrivergli qualcosa, ma non sapevo nemmeno dove stavo andando.

Sentii mamma gridare il mio nome dal salotto e presi la borsa che era sopra il mio letto cominciando a riempirla con tutto quello che poteva starci.

Foto, i miei quaderni gialli di appunti, ricordi che non volevo perdere e all’improvviso in un angolo la vidi. La chitarra marca Taylor di mio nonno. Me l’aveva lasciata quando era mancato, lui era un po’ bohemienne e aveva sempre provato a insegnarmi, ma le mie dita erano semplicemente fatte per un’altra cosa. E inoltre ero una bambina, l’ultima cosa che volevo era suonare la chitarra.

 

Pochi giorni prima quando stavamo ascoltando musica nella casa sull’albero, Jake disse che gli sarebbe piaciuto imparare a suonare qualche strumento ed ebbi l’idea di regalargli la chitarra per il suo compleanno, ma ora che non sarei più stata qui quel giorno, non sapevo cosa fare.

«Papà? Perché mamma ed io ce ne andiamo? Non ci vuoi più qui?» chiesi singhiozzando appena arrivai in salotto. Mamma stava aspettando in auto.

Papà adesso sembrava molto più vecchio, più stanco del suo giorno peggiore al lavoro, e papà era medico e poteva operare per ore; aveva gli occhi così rossi che temevo sanguinassero. Sollevò la testa e mi osservò prima di ricomporsi, tentando di trovare le parole che mi facessero meno male. Ma non esistevano.

Si avvicinò e prese il mio viso tra le mani, asciugando le mie lacrime con le dita.

«Non dirlo mai più figlia mia … L’unica cosa che devi sapere è che ti voglio bene, non importa che io stia o meno con tua madre. Va bene?»

No. Non andava bene niente. E ancora non avevo idea di cosa stava succedendo.

«Allora … Non ami più mamma?» insistetti.

«Jocelyn, quando crescerai capirai tutto. Capirai che a volte è molto difficile cambiare io, con il noi. Che a volte l’amore si dà per scontato e quando pensiamo che sia eterno finiamo per perderlo.»

«Ma perché non parli con mamma? Anch’io posso parlare con lei.»

«No, tesoro. Tua madre ha già preso la sua decisione e dobbiamo rispettarla. Ricorda solo che io per te ci sarò sempre. Sai il mio numero, puoi chiamarmi a qualunque ora.» Annuii mentre all’esterno mia madre suonava il clacson perché facessi in fretta.

«Non voglio andarmene papà … Cosa farai tu da solo?» lo abbracciai mentre piangevamo entrambi.

«Non preoccuparti per me, starò bene, ora vai con tua madre.»

Mi accompagnò fino al portico e dopo un enorme abbraccio mi disse che mi amava. Mamma scese dall’auto per aiutarmi con il borsone, tutto il resto era già stato caricato in macchina.

«Possiamo fermarci un momento a casa di Jake?» avevo un’idea.

«Tesoro, non è un buon momento per le visite» mi rimproverò mentre si asciugava le lacrime con un Kleenex stropicciato.

«Solo cinque minuti per favore, voglio salutarlo» rimase incerta per un attimo, ma alla fine annuì.

L’auto iniziò a muoversi in retromarcia, mentre io dicevo addio a papà con la mano e con gli occhi annebbiati dalle lacrime. Lo vidi diventare sempre più piccolo in lontananza ed io mi sentivo più piccola e anche fragile.

«Cinque minuti» mi avvertì mamma fermando l’auto di fronte alla casa di Jake e mettendo in chiaro che avrebbe spettando lì.

Scesi con la chitarra tra le mani, attraversai la strada con le gambe che mi tremavano e invece di dirigermi alla porta principale costeggiai la casa. Quando arrivai in fondo mi accertai che lì intorno non ci fosse nessuno e salii rapidamente sulla casa sull’albero, lasciai la chitarra in un angolo e fui quasi grata che nessuno di noi avesse un cane. Scesi da lì tentando di non fare rumore e quando arrivai di nuovo al marciapiede mi misi a correre verso l’auto di mamma.

«E la chitarra? L’hai dimenticata?» chiese mamma un po’ stanca perché pensava che ora sarei dovuta andare a cercarla e avremmo perso altro tempo.

«No, l’ho lasciata a Jake. Lui se ne prenderà cura» sapevo di sorprenderla quando mi osservò troppo a lungo.

«Sei sicura? Era di tuo nonno.»

«Sono sicura» affermai osservando per l’ultima volta la facciata di mattoni rossi che non avrei più visto, fino a molto tempo dopo.

Non avrei mai potuto dire addio a Jake. Pensavo che se non lo facevo mi avrebbe fatto meno male, ma non fu così.

«Questo me lo ricordavo proprio più grande» penso a voce alta mentre entrambi ci sediamo sul pavimento in legno.

«La casa è la stessa, ma noi siamo cresciuti» ammette Jake e per come mi guarda so che non si riferisce soltanto alla crescita fisica.

Mi sento le parole in gola, e se non le dico soffocherò e moriranno senza arrivare alla loro destinazione.

«Mi dispiace» mi esce all’improvviso e ci osserviamo, vedo che lui apre la bocca per rispondere, ma non lo lascio parlare.

«Mi dispiace di essere andata via senza salutarti, in verità non sapevo che me ne sarei andata quella sera, mi dispiace non averti chiamato o scritto per tutto questo tempo, mi dispiace di non essere stata abbastanza coraggiosa da ascoltare la tua voce senza crollare, mi dispiace di non aver lottato per la nostra amicizia e mi dispiace di non essere tornata prima. Mi dispiace, Jake. Mi dispiace per tutto.»

Ho appena il tempo di finire quando mi avvolge tra le sue braccia mentre le lacrime traboccano dai miei occhi. Profuma di menta, ma il suo corpo è così caldo e confortante che potrei restare così per anni senza accorgermi del passare del tempo.

Questa volta sì mi dispiace davvero, non come quando l’ho detto questa mattina uscendo di casa.

«Non devi scusarti» dice alla fine quando le mie lacrime diminuiscono. «Nemmeno io avrei potuto dirti addio.»

«Mi sei mancato ogni giorno» ammetto.

«Sono sicuro che non così tanto quanto tu sei mancata a me» prova a scherzare.

«So che non ho il diritto di chiedertelo, ma mi piacerebbe che tornassimo a essere amici.»

«Non abbiamo mai smesso di esserlo» mi assicura seriamente senza lasciare spazio al dubbio.

Ci appoggiamo a una delle pareti della casa e metto la testa sulla sua spalla, noto il suo respiro un po’accelerato, sono sicura che anche il suo cuore sta battendo più forte. Riesco quasi a sentirlo. All’improvviso voglio condividere tutto con lui, come prima.

«Mia madre è morta …» è la prima volta che dico questa frase a voce alta. È una tale amarezza.

Lo vedo deglutire con difficoltà senza sapere cosa dire.

«È morta in un incidente d’auto insieme a mia nonna, più di due mesi fa.»

«So che è inutile dirlo, ma davvero, mi dispiace.»

«Lo so … grazie. Sai? Dovevo esserci anch’io in quell’auto. Ma mi sembrava più divertente andare alla casa al mare di mia zia che andare al supermercato. Volevo solo finire il mio romanzo.»

«Non pensarci» mi abbraccia più forte mentre io circondo il suo busto con le braccia e affondo il viso nello spazio tra il suo collo e la spalla.

«Ci penso ogni giorno, io dovevo andarmene con loro, non ho nulla da fare qui.»

«Solo perché ancora non sai il motivo perché sei qui, non significa che non hai un motivo per vivere. Sono sicuro che tua madre vuole che cerchi di essere felice.»

«Come posso essere felice, Jake? … Più di cinque anni fa la mia famiglia è stata distrutta perché mio padre preferì spassarsela con un'infermiera piuttosto che arrivare presto a casa per cenare con la sua famiglia. Dovetti trasferirmi a Tampa, in Florida, con mia nonna e mia zia per iniziare la scuola dove non mi conosceva nessuno. Persi il buon rapporto che avevo con mio padre, mi obbligarono ad abbandonare il mio migliore amico e ci siamo persi tanti anni che temo sia troppo tardi per ritrovarci. Mentre in Florida l’orizzonte si tingeva del colore più bello, il mio mondo veniva distrutto, stavolta per sempre. Mio padre mi obbligò a tornare con lui e la sua nuova moglie, che ho appena saputo essere incinta, e dovetti allontanarmi da mia zia e da mio cugino, che è la persona per me più vicina a mia madre e a mia nonna. Come faccio Jake? Come sarò felice di nuovo?» è una domanda retorica, ovviamente lui non può rispondere, ma ci prova.

«Non lo so … ma posso farti compagnia mentre lo scopriamo.»

E in quel preciso momento ho visto un raggio di luce, filtrare tra le nere nubi di tempesta. E so che così la sua luce illuminerà il mio cammino. Non merito la sua amicizia, ma mi aggrapperò ad essa come se fosse l’unico pezzo di legno dopo un naufragio.

«A proposito … grazie per la chitarra» dice e subito sollevo la testa, me ne ero dimenticata. «Non so se è stato un prestito o un regalo, ma ora non te la posso restituire.»

«Era un regalo» gli sorrido «Dovevo dartela per il tuo compleanno. Ti è servita a qualcosa?»

«A qualcosa, no. A molto. Aspettami qui.»

Va di corsa verso casa sua, suppongo in cerca della chitarra di mio nonno – o meglio – della sua chitarra.

Ancora non riesco a crederci, sono di nuovo nella casa sull’albero con Jake, a parlare, come prima. Siamo di nuovo amici e per la prima volta dopo settimane mi sento le spalle più leggere.

Sentire la chiusura della custodia nera che si apre, è già musica per me. Jake prende la chitarra con molta attenzione e si accomoda con le gambe incrociate e raccolte davanti a me. Osservo assorta mentre le sue dita accarezzano le corde.

«Sai suonarla?» chiedo senza riuscire a crederci.

«Certamente, non ho sprecato questo regalo» continuo a guardarlo imbambolata. «Qualche suggerimento?»

«Cosa?»

«Accetto richieste … di canzoni» mi chiarisce.

«Seriamente?» suona un paio di note per farsi valere. «Va bene, confido nel tuo gusto musicale, sorprendimi.»

Sorride mentre osservo nei suoi occhi come la sua mente si sforza di trovare la canzone giusta per questo momento, e quando suona i primi accordi di “Hey Jude” dei Beatles voglio buttarmi tra le sue braccia e non separarmi da lui mai più. Mamma mi cantava questa canzone quando mi vedeva triste, cambiava Jude con Joce e alla fine riusciva sempre a strapparmi un sorriso. Ascoltare Jake che canta la stessa cosa è magia che accade proprio qui, davanti ai miei occhi.

Davvero mi sarebbe piaciuto ascoltarlo quando stava imparando a suonarla, lo avrei preso in giro dicendogli che suonava male, ma adesso posso solo osservare e ascoltare come le sue dita danzano sulle corde e la cosa più allucinante di tutte è che Jake sa cantare. Non cantare come chiunque, lui canta davvero molto bene. Oltretutto.

«È stato … magico» ammetto mentre posso giurare che lui diventa rosso.

«Grazie» sussurra sorridendo e vedo di nuovo le fossette formarsi sulle sue guance. Sì, questo è Jake, il mio migliore amico. È di nuovo con me e non lo lascerò scappare.

CAPITOLO 4

Sono trascorsi alcuni giorni dalla canzone sull’albero. Ora Jake passa a prendermi tutti i giorni, camminiamo fino alla fermata dell’autobus e pranziamo insieme, o meglio, insieme a Bryan, il suo amico, e a Meryl; non posso lasciarla sola. Facciamo lo stesso tragitto per il ritorno e lo stesso il giorno seguente. Ma questa mattina quando sento l’auto di papà partire più presto del solito, ho l’idea di fare qualcosa di diverso.

«Buongiorno, Jocelyn» mi saluta Elena appena entro in cucina. Lei sta facendo colazione.

«Sì, anche a te» brontolo. Non le direi mai buongiorno.

«Tuo padre ha dovuto andare al lavoro prima del solito, aveva un’emergenza, ma possiamo fare colazione insieme.»

«Grazie per l’informazione e no grazie, me ne vado anch’io» annuncio e inizio a uscire.

«Devi fare colazione, inoltre il tuo amico non è a ancora arrivato.»

Non le rispondo, vado ad un pensile e prendo un paio di barrette di cereali. La guardo come per dire: contenta? Ed esco senza dire altro.

Ma ha ragione, è presto perché Jake sia qui e sorrido mentre mi incammino per fargli una sorpresa. Scarto una delle barrette di cereali e mi godo la mia colazione sotto un cielo splendente, oggi sarà una bella giornata.

Jake chiude la porta di casa e scende le scale in fretta, corre verso il marciapiede e si ferma di colpo vedendomi a un paio di metri di distanza. Vedo incredulità nei suoi occhi.

«Che cosa fai qui?» chiede mentre mi affianca. Sorride per tutto il tragitto.

«Ti stavo aspettando» rispondo facendo finta di niente. «Vieni o no?» inizio a camminare mentre lui mi segue, facendo segno di no con la testa.

«Ehi!» mi lamento quando lo vedo prendere un pezzo della mia barretta ai cereali. «È la mia colazione.»

«Cosa? Perché non hai fatto colazione a casa?»

«Mio padre non c’era e non volevo fare colazione da sola con Elena.»

«Prendi» mi restituisce il pezzo di barretta.

 

«Certo che no, lo hai già toccato» è solo uno scherzo, non sono schizzinosa.

«È la tua colazione, mangia» cerca di infilarmelo in bocca, mentre corro e ridiamo entrambi.

Mentre riprendiamo fiato dopo la corsa e aspettiamo l’autobus, finisco di fare colazione. Lui non sembra contento. Posso quasi sentirlo fare il discorso che la colazione è il pasto più importante della giornata, ma si astiene vedendo il mio sguardo di avvertimento.

«Perché non le dai una possibilità?»

«A chi?»

«A Elena» e mi si gela il sangue.

«Di cosa cavolo stai parlando?» chiedo sulla difensiva, non finirà bene se lui sta dalla sua parte.

«Dico … lei non è la donna con la quale tuo padre ha ingannato tua madre, lei ha conosciuto tuo padre molto dopo. Non sembra una cattiva persona, non ha colpa per quello che è successo con la tua famiglia e so che magari non sarete mai amiche, ma perlomeno potresti fare colazione in pace con lei. No?»

«NO» assicuro decisa. So che ciò che dice Jake è molto logico, ma semplicemente non posso, non ci riesco. «Lei non sarà mai mia madre.»

«Lo so …» sospira profondamente come se non sapesse come spiegarmi qualcosa di ovvio, ma fortunatamente arriva l’autobus e lì muore questa conversazione inutile.

«Fine della conversazione» sentenzio prima di salire.

«Okay» annuisce alzando le mani in segno di resa. «Ci ho provato.»

Sono in fila aspettando di ritirare il mio pranzo quando alcune ragazze dietro di me iniziano a ridere. Tutti i peli del mio corpo si rizzano anticipando un brutto momento.

«Sai?» commenta una di loro all’altra, «non avere la mamma deve essere orribile.»

«Per questo puoi capire perché le ragazze orfane si vestono in modo orrendo» risponde l’altra.

«Oh no, Lara. Non c’è nessuna scusa per vestirsi male, forse anche sua madre aveva lo stesso cattivo gusto.»

In questo momento ho due opzioni. Opzione a) fare finta di non avere udito nulla, che quelle ragazze non stanno parlando di mia madre e di me e che non sono crudeli di proposito. Opzione b) dimenticare completamente la mia natura non violenta e fare stare zitte le loro maledette bocche. Risultato: senza dubbio opzione B.

Non ha nemmeno il tempo di reagire quando mi lancio su Gina e inizio a tirare i suoi capelli perfetti e a colpirla mentre lei grida tentando di liberarsi di me.

«Devi chiudere la tua maledetta bocca se non hai niente di buono da dire!» le urlo fuori di me.

Gli altri si mettono in cerchio intorno a noi e incitano alla lite. Mi rendo conto che non sento più le grida di Lara che tenta di aiutare Gina, forse quella codarda è fuggita. Prima di riuscire a terminare con Gina sento delle braccia avvolgermi ai fianchi e sollevarmi da terra, mentre io scalcio in aria cercando di riprendere la lite. Gina prova ad alzarsi da terra con la faccia più rossa del drappo di un torero e i suoi capelli biondi sempre lucidi come sulla copertina di una maledetta rivista sembrano aver affrontato un branco di gatti furiosi. Sorrido davanti a questa immagine, ma il mio sorriso non dura molto. Sento le braccia di Jake cedere e appoggio i miei piedi a terra.

«Che cosa sta succedendo qui?» borbotta il preside come una sentenza e allora comprendo cosa ho fatto.

«Questa selvaggia si è buttata su di me!» grida Gina indicandomi.

«Proprio così signor preside, io ne sono testimone» la appoggia Lara.

«Avete dimenticato di dire perché. Avete cominciato voi» faccio notare difendendomi.

«Tutte e tre nel mio ufficio, adesso!» ordina il preside «Gli altri tornino al loro pranzo.»

Sento la mano di Jake stringere leggermente la mia, dandomi il suo appoggio. Lo ringrazio con gli occhi prima di allontanarmi lungo il corridoio. Vedo la faccia angosciata di Meryl e quella sorpresa di Bryan. Tutti gli altri sono divertiti per lo spettacolo. Non tutti i giorni una ragazza come me colpisce una ragazza così popolare e tanto meno davanti a tutti.

«Non posso crederci, Jocelyn!» grida papà appena saliamo in auto. Il preside lo ha chiamato. «Non avrei mai pensato di venire qui e trovare mia figlia in punizione per aver picchiato una delle sue compagne.»

«Non mi pento» affermo convinta.

«Cosa?! Dovrai scusarti con quella ragazza, qualunque cosa ti abbia detto non merita di essere picchiata, per Dio, a cosa stavi pensando?» dice furioso e non riesco più a trattenere le lacrime.

In presidenza mi ero rifiutata di scusarmi, per cui ero ufficialmente in punizione. Anche se, ancora una volta, il preside ha avuto pietà di me, la povera ragazza orfana.

«Forse quello che ha detto su di me non meritava uno pugno, ma non permetterò mai a nessuno di parlare male di mia madre» mio padre si zittisce per un attimo e vedo il suo volto rilassarsi solo un po’ senza sapere come ribattere alle mie parole.

«Andiamo a casa.»

Dopo la predica di mio padre durante la cena, faccio una doccia calda e prendo il mio quaderno giallo, scrivo fino a cadere addormentata. Negli anni scrivere è diventata la mia passione ed è l’unica cosa che mi distrae qualunque sia il momento della realtà che sto vivendo.

Jake: “Hai un buon destro ”, è un messaggio.

Non avevo più avuto sue notizie da quando avevo lasciato la mensa. C’erano delle chiamate perse, ma non avevo richiamato nessuno.

Il mio cellulare vibra di nuovo.

Jake: “Mi dispiace molto che tu sia in punizione.”

Io: “Come lo sai?” rispondo.

Jake: “Oh, scusa … Hai ricevuto un premio?” mi prende in giro.

Io: “Infatti. Il premio per la peggiore figlia del mondo. Sì, sono in punizione fino a data da destinarsi.”

Jake: “Gli passerà.”

Io: “Inoltre a scuola sono in punizione per una settimana perché è la prima volta. Mi sono salvata dalla sospensione perché suppongo che il preside ha avuto compassione di me.”

Jake: “Se ti fa sentire meglio ho sentito dire che anche i genitori di Gina l’hanno punita.”

Io: “Non mi fa sentire meglio, ma è bello saperlo.”

Jake: “Passo da te domani mattina, mi aspetti?”

Io: “Certo.”

Jake: “Buona notte, Joce.”

Io: “Buona notte, Jake.”

Il telefono resta in silenzio di nuovo, come la mia stanza. Mi avvolgo nelle coperte e appoggio il quaderno sul comodino, spengo la luce e sorrido ricordando la faccia di Gina quando l’ho colpita, sono sicura che non le era nemmeno passato per la mente di finire trascinata a terra. So che questo non sarebbe piaciuto a mamma, ma come ho già detto non mi pento.

«Sei la mia nuova eroina, Jocelyn» salta sulla sedia Meryl battendo le mani emozionata.

«Nuova? Chi era quella precedente?»

«In realtà non ne avevo una. Forse Sheena, la principessa guerriera, ma tu sei meglio. Perché sei reale!» sorrido, non riesco ad evitarlo, è adorabile.

«Va bene, devi sapere che sono contro la violenza, quello di ieri è stato solo un incidente isolato e ora devo fare un tema di 100.000 pagine sul perché la violenza non va bene e cose del genere.»

«100.000 pagine?!» sorrido di nuovo davanti ai suoi occhi da cerbiatta.

«Per modo di dire, Meryl. Però sono tante lo stesso.»

«Tranquilla, lo farai velocemente, brava come sei nei compiti scritti.» Poi continua incerta «Quelle ragazze ti hanno dato fastidio o qualcosa del genere?»

Io avevo raccontato a Jake esattamente cosa era successo e lui mi aveva appoggiato, così decisi di raccontarlo anche a Meryl. Con mia sorpresa fu tanto offesa quanto me, e persino si offrì, secondo le sue parole non le mie, di essere il mio Robin nei miei prossimi scontri. Ovviamente non accadrà più, ma mi è sembrato molto dolce da parte sua.