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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta

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Nel cortile era un brulicare di gente a piedi ed a cavallo, un rumore, un gridare che rimbombava per tutto il castello. Le donne partendo salivano in groppa agli uomini di loro compagnia, come s'usava in quel secolo, e così diminuendo sempre la folla e lo strepito, in poco tempo rimase affatto vuoto il cortile, se non che qualche servo lo traversava per suo ufficio: s'udivano aprire e chiuder porte, si vedean girar lumi sulle logge e per le finestre, ed alla fine quando l'orologio battè le sei ore, la guardia della porta alzò il ponte che dava sulla piazza, e, cessato il suono delle catene che lo reggevano, succedette un silenzio che non fu più interrotto pel rimanente della notte.

Vittoria intanto aveva attraversato le sale ove si attendeva a spegner i lumi e dar sesto al mobile; giunse alla camera ove già s'era ritirata Donna Elvira che cominciava a levarsi d'attorno gli ornamenti e le gale. La trovò in quest'occupazione ajutata da due cameriere, la cui opera, al modo dispettoso col quale le trattava, pareva non le fosse troppo gradita: era accaldata, rossa in viso, ed all'aspetto tutt'altro che soddisfatta della sua serata. Quando vide entrar Vittoria, un intimo senso prodotto forse da un nascosto rimorso le fece nascer il pensiero che la sua amica avesse a parlarle su un tuono che in quel momento le pareva duro di sopportare. Quest'idea fu cagione che l'accogliesse con un atto di sorpresa che non celava interamente l'impazienza. Vittoria se n'avvide, ma senza darne segno, le disse con tutta dolcezza, che la pregava ritardasse in suo servigio di andar a letto per un quarto d'ora, e venisse a quello di Ginevra che la domandava. Dovette per conseguenza spiegarle come si trovasse quivi costei; e la figlia di Consalvo, che, come tutti i capi sventati in genere, aveva in fondo buon cuore, fu contenta d'andarvi, tanto più che vide la cosa prender miglior piega che non s'aspettava.

Vennero dunque insieme alla camera di Ginevra, ed entrate s'avvicinarono al letto. La bellezza di Donna Elvira non avea tanto spiccato allorchè il suo vestire e la pettinatura era foggiata col maggiore studio, quanto ora appariva in quel disordine che lasciava ondeggiar liberi sul collo e sulle spalle i suoi lunghissimi capelli d'oro; Fra Mariano abbassò gli occhi, e la povera Ginevra nel mirarla sentì un fremito interno, e diede un sospiro, al quale il buon frate non potè negar compassione. Rimasero così le tre donne mute alcuni minuti, dopo i quali, alzandosi Ginevra sul gomito, disse:

– Signora! voi stupirete ch'io sia tanto ardita di disturbarvi, non conoscendovi, nè essendo conosciuta da voi; ma a chi si trova a questo passo si perdona tutto. Prima però di parlarvi più aperto debbo domandarvene licenza: posso dirvi due parole con libertà? Qualunque sia la vostra risposta, essa sarà chiusa fra poco nell'avello con me; ma posso parlare presente questa signora, o volete che siam sole?

– Oh! – disse Donna Elvira – questa è la più cara amica ch'io m'abbia, ed essa m'ama più assai che non merito, onde dite pur su, cara la mia signora, che son qui per ascoltarvi.

– Quand'è così, e giacchè me ne date licenza, ecco la sola interrogazione che vorrei farvi. —

Ma a questo punto, come per prender vigore, e preparar la frase che non sapeva come incominciare, si fermò un momento. Il proposito di perdonar a quella che le era cagione di così disperato dolore, era stato fermato con tutta la sincerità del cuore; ma chi vorrebbe esser tanto severo da far un delitto all'infelice se al momento di divenir certissima che i suoi occhi non l'avean ingannata e che il giovane veduto a' piedi di Donna Elvira era Ettore veramente, si sentisse una ripugnanza invincibile ad acquistar questa certezza? Chi avrebbe cuore di condannarla se nutrisse ancora un'indefinita speranza d'aver preso scambio, e di sapere che Ettore era ancora quello di una volta?

Comunque sia, dobbiam dire che crediamo questi sentimenti non fossero estinti interamente, e ne nascesse la breve dubitazione che produsse quel momento di silenzio.

Pure alla fine disse risolutamente, e con voce chiara e spiccata:

– Ditemi dunque, e perdonatemi se ardisco domandarvi tanto: non eravate voi stasera sulla loggia che guarda la marina, circa le tre ore, e non era a' vostri piedi Ettore Fieramosca? —

Quest'interrogazione egualmente inaspettata e diretta, scosse le due giovani quantunque per diverse cagioni; il viso di Donna Elvira divenne color di brace, ella rimase senza poter profferir sillaba. Ginevra che la guardava fissa in viso, capì tutto, si sentì agghiacciare il sangue, e riprese con voce mutata:

– Signora! son troppo ardita, lo conosco, ma vedete, io muojo, e vi domando pel perdono che tutti speriamo nell'altra vita, di non negarmi questa grazia; rispondetemi: eravate voi…? era esso…? —

Donna Elvira credeva di sognare; volgeva lo sguardo timido a Vittoria, la quale leggendole negli occhi che temeva la sua severità, e conoscendo non esser quello il momento di mostrarla, l'abbracciò, e senza profferir parole la rassicurava.

Ginevra si sentiva morire nell'incertezza: stese le palme aperte e tremanti alla donzella, e con voce che potè dirsi grido disperato replicò:

– Ebbene, dunque?..

Donna Elvira si strinse atterrita nella sua amica, abbassò gli occhi, e rispose:

– Sì… eravam noi… —

Il viso dell'infelicissima Ginevra fece una mutazione come se si fosse dimagrato tutto in un tratto; pure a stento si sollevò a sedere sul letto, prese per la mano Donna Elvira, se la fece accostare, le gettò le braccia al collo, e disse: – Dio dunque vi benedica e vi renda felici. —

Ma quest'ultima parola fu appena udita, e forse, prima d'essere stata articolata interamente, già l'anima sua riceveva in cielo il premio della vittoria più ardua che possa riportare una donna sopra sè stessa, del perdono più magnanimo che possa accordar un cuore umano.

Le sue braccia che erano intrecciate al collo della figlia di Consalvo, perdendo la forza ricaddero insieme col corpo che ritornò supino sul letto. Il suo volto prese in un momento l'atto e il colore della morte: la conobbero le due donzelle, mandarono un grido. Il frate rimase per alcuni momenti come senza respiro: alla fine disse, giugnendo le mani – Questa è sembianza di paradiso. – Poscia inginocchiatisi tutti e tre orarono pel riposo di quell'anima che tanto ne abbisognava, e l'avea saputo così ben meritare. Composero le sue mani sul petto, e Fra Mariano intrecciatale fra le dita la corona che aveva alla cintola, postole a' piedi un lume, disse: requiescat in pace; ed in cuor suo ora pregando per lei, ora volgendosi a domandar la sua intercessione come d'un'anima che gli pareva per fermo dover essere in luogo di salvamento, condusse le due donzelle fuori di quel luogo funesto, e, ritornato presso la defunta, vi passò in orazione le ore che mancavano al giorno.

Una delle mire principali di Consalvo nell'accordar il suo consenso alle disfide che si dovevan combattere fra Spagnuoli e Francesi, e fra Italiani e Francesi, era stato il guadagnar tempo onde potessero giungere gli ajuti che aspettava di Spagna per mare, privo dei quali essendo troppo inferiore di forze all'esercito nemico, gli era convenuto star chiuso in Barletta senza poter tentar fazione che fosse d'importanza. Nel corso però della giornata, in cui si trovava avere ospiti suoi i baroni francesi, gli erano state recate lettere[Pg 210] che gli annunciavano vicino l'arrivo delle navi cariche d'uomini, le quali, superata già la punta di Reggio, poco potevan tardare a comparire avanti a Barletta. Conoscendo perciò che non gli tornava il trarre le cose più in lungo, e che non avrebbe bisognato lasciar cader l'animo che veniva ad accrescersi fra' suoi per l'arrivo de' nuovi soldati, fece in modo, parlando di questi scontri col duca di Nemours e cogli altri Francesi, di persuaderli a prendere il giorno più vicino che si potesse. Così fu deciso che gli Spagnuoli combattessero l'indomani del ballo, in uno spazio lungo il mare, mezzo miglio fuor della porta che va a Bari, e gli Italiani il terzo giorno, in un luogo che già da Brancaleone e da Prospero Colonna era stato veduto e stimato a proposito, ed era posto presso la terra di Quarato, a mezza strada fra Barletta, ed il campo francese.

I cavalieri delle due parti, avvisati dai loro capi di quanto era stato deciso, pensarono tosto ai fatti loro: i Francesi, quelli che dovean combattere, lasciato il ballo, tornarono al campo prima degli altri per aver tempo di dar ordine a quanto occorreva per la battaglia, e gli Spagnuoli del pari, tornati ognuno al suo alloggiamento, attesero ad allestirsi, e fare in modo d'aver qualche ora di riposo prima della mattina. Ad Inigo ed a Brancaleone fu data la nuova quando, già allogata Ginevra nella camera d'onde non dovea uscir viva, erano andati pel frate, ed il primo, che era del numero de' combattenti, per dar ordine alle cose sue, dovette lasciar al compagno il pensiero di ritrovar Fieramosca ed ajutarlo in questi suoi casi. Si strinsero la mano lasciandosi e dicendo Inigo:

– Come potrà combattere domani l'altro, se stasera non poteva reggersi in piedi? —

Brancaleone per sola risposta scosse il capo mordendosi il labbro inferiore, e mostrando nell'aspetto che sentiva tutta la verità della riflessione dello Spagnuolo. Si tolse di quivi, e, sceso al porto, salì in un battello sollecitando d'esser presto al monastero per dire ad Ettore, come avevan promesso, qual fosse stato l'esito delle loro ricerche.

Prima però di narrare in che stato trovasse il suo amico, che avea lasciato tanto a mal termine, dobbiamo, prevenendo ciò che accadde la mattina seguente, narrar il fine dell'impresa degli Spagnuoli.

Quando le due compagnie di undici uomini d'arme per parte si trovarono sul campo, era già uscito il sole da un'ora. Fra gli Spagnuoli, Inigo, Azevedo, Correa, il vecchio Segredo, Don Garcia di Paredes erano i più rinomati; e gli altri, quantunque meno conosciuti, eran tutti buona gente d'arme e bene a cavallo: Pedro Navarro avea da Consalvo ricevuto l'incarico di servir di padrino. Dalla parte francese questo era dato a monsignor della Palissa, che fra' suoi guerrieri contava Bajardo l'onore della milizia d'allora. La battaglia si mantenne per molto tempo con pari fortuna dalle due parti. Segredo alla fine ebbe da un colpo di spada recise le redini, che teneva tirate; onde portato a furia dal cavallo, stava per uscir del campo. Questo caso, preveduto dai regolamenti dei duelli, si teneva per una sconfitta, e colui al quale accadeva dovea darsi prigione. Vedendo il buon Segredo che il cavallo stava per varcar i limiti ch'eran segnati intorno intorno da grossi pezzi di macigno, si buttò a terra, e quantunque per la difficoltà del salto, e forse perchè gli anni lo rendevano meno agile, cadesse in ginocchio, si difendea arditamente da due uomini che a cavallo lo combattevano. Ma la spada gli andò in pezzi, e non trovandosi altr'arme, ed essendogli riuscito vano il rifuggirsi fra' suoi che si trovavan distanti, dovette arrendersi e ritirarsi dal campo. La cosa era però andata tanto coll'onor suo, che da tutti fu lodato, e compianta la sua disgrazia. Dopo quest'accidente seguitandosi a combattere parve che la fortuna andasse inclinando alla parte spagnuola. A molti Francesi erano stati uccisi i cavalli: e qui è bene d'avvertire il lettore che, malgrado le antiche regole cavalleresche, si soleva spesso in queste disfide esser prima d'accordo di poterli ferire, onde fossero più vera immagine della guerra, ove non più o rarissimo s'usava questa cortesia, e per mostrare anche maggiormente la perizia de' combattenti. Dopo due ore di menar le mani i padrini fecero dar nelle trombe, e così divisa la zuffa accordarono un breve respiro.

 

Gli Spagnuoli erano tutti a cavallo, ed alla loro truppa non mancava che Segredo. De' Francesi un solo s'era dovuto dar prigione ed in ciò eran pari, ma giacevan sul campo sette de' lor cavalli uccisi. Bajardo però era ancora in sella. Dopo una mezz'ora di riposo fu ripreso il combattimento, e, malgrado gli sforzi degli Spagnuoli, i loro nemici si mantenevano quasi direi trincerati dietro i corpi de' cavalli, sui quali que' degli avversarj, benchè ammazzati di speronate, non vollero mai passare. Così dopo molto affannarsi e maneggiarsi inutilmente, venne dai Francesi la proposta di finir la battaglia e restarne con pari onore.

CAPITOLO DECIMOTTAVO.

L'ostinata difesa dei Francesi, e la difficoltà di vincerli del tutto, ristretti com'erano dietro i corpi de' loro cavalli, fece sì che la maggior parte degli Spagnuoli inclinassero a prestar orecchio alla loro proposta. Ma non vi si piegava Diego Garcia: gridava inferocito ai suoi compagni esser vergogna il ritirarsi avanti ad uomini mezzo vinti, e doversi finir l'impresa per mostrar che gli Spagnuoli a piedi come a cavallo valevano più di loro; e non trovandosi altr'arme fuorchè la spada, colla quale non poteva giugnerli, si chinava a terra infuriato, ed alzando que' gran sassi che fissavano i limiti del campo e che un uomo di forza ordinaria avrebbe mossi a stento, li scagliava in mezzo allo squadrone nemico. Ma non era difficile schivarne la percossa, e perciò non potè nè pur per questa via riuscire a danneggiarli. Non ostante si riaccese la zuffa, e durò finchè il sole già cadeva verso occidente, ed i Francesi bravissimamente seguitarono la loro difesa, tantochè convenne alla fine alle due parti di rimanersi: i giudici decretarono uguale l'onore della giornata, dando agli Spagnuoli vanto di più valenti, e quello di più costanti ai Francesi. I due prigioni furon barattati; e tutti[Pg 213] stanchi, affannati e pesti ripresero la via, gli uni del campo, gli altri della città.

Quando v'entrarono gli Spagnuoli, era quasi sera. Scavalcarono al castello, e, presentatisi a Consalvo, narrarono com'era passata la cosa. Si turbò forte il gran Capitano sgridandoli perchè, avendo così ben cominciato, non avesser saputo finire. In quest'occasione si mostrò in tutta la sua luce la nobil natura di Diego Garcia. Egli che in campo aveva anche con aspre parole rimproverato ai compagni che lasciassero la cosa imperfetta, ora alla presenza di Consalvo prese arditamente a difenderli, dicendo aver essi fatto il potere da uomini dabbene quali erano, e condotta a fine la loro impresa, che era far confessare ai Francesi valer essi al par di loro nella battaglia a cavallo. Ma Consalvo male accettando queste scuse, e, troncate le parole col rispondere Por mejores os embié yo al campo12, li licenziò.

Ripigliamo ora il filo di ciò che accadde la sera innanzi a Brancaleone dopo lasciato Inigo per tornar presso Fieramosca.

Quando approdò all'isola di Sant'Orsola, la premura di giugnervi presto che aveva provato nel tragitto, si calmò riflettendo al modo col quale doveva annunziare ad Ettore i casi di Ginevra, e lo stato in cui l'aveva lasciata. Salì lentamente la scala che conduceva sulla spianata del convento, e, ricomposte l'idee, si avviò alla foresteria. Ma il discorso che aveva preparato si trovò inutile. Entrando nella camera vide Zoraide seduta al capezzale che col dito gli accennò di non far romore, e Ettore che dormiva profondamente. Si ritirò indietro pian piano, mentre la giovane alzatasi e rimasta un momento a guardar Fieramosca, visto che riposava tranquillo, uscì in punta di piedi, e seguì Brancaleone in una delle camere vicine.

– Tutto va bene – disse Zoraide: – domani Ettore sarà come se non avesse avuto male. Ma, e Ginevra, dov'è? ne avete trovata la traccia?

A Brancaleone tornò il fiato in corpo sentendo le nuove di Fieramosca, e rispose:

– Ginevra è nella rocca in buone mani, e presto la potrete vedere; ma, ditemi: Ettore sarà poi guarito veramente? Dopo domani si dovrà combattere.

– Ebbene, combatterà. —

Una certa espressione misteriosa che accompagnava le parole di Zoraide stimolò la curiosità di Brancaleone, il quale volendo saper più precisamente di che sorta fosse il male del suo amico, udì che era stato ferito, ma leggermente, nel collo, senza però che Zoraide gli parlasse del pugnale avvelenato. Tuttavia non vedendo naturali le espressioni della giovane, seguitò ad interrogarla, ma non gli riuscì di cavarne spiegazioni più chiare:

– V'è una favola fra noi in Levante – dicea Zoraide, sorridendo mestamente – che racconta d'un leone del deserto, al quale un topo salvò la vita. Di più non vi voglio dire, e vi basti sapere che fra poche ore il braccio d'Ettore sarà forte come il collo d'un toro selvaggio. Ora però non v'è da far altro fuorchè lasciarlo in quiete; domani si sveglierà a tempo per potersi metter in ordine; io ritorno vicino a lui per esser pronta ad ogni bisogno; fidatevi di me: dell'arte di curar ferite ne son maestra, e ne ho saputo sanare di più pericolose. —

Brancaleone visto che non gli rimaneva altro a fare presso il ferito, raccomandò a Zoraide che quando Ettore si fosse svegliato lo racquetasse sul conto di Ginevra, gli annunziasse il combattimento pel giorno vegnente, gli dicesse che sarebbe venuto egli stesso sul mezzogiorno, ove non fosse comparso prima di quell'ora in città. Rimasti così d'accordo, se ne ritornò a Barletta, ove, prima d'andarsene a casa, volle passar dal castello per sapere che ne fosse di Ginevra. Ma trovò chiusa la porta e alzato il ponte; onde gli convenne differir di chiarirsi alla mattina vegnente.

Appena fatto giorno vi corse, e trovò ch'eran usciti allora gli undici guerrieri spagnuoli per andar al campo seguitati da tutti quelli che si trovaron liberi d'accompagnarli, onde pochissima gente v'era rimasta. Salì le scale senza trovar a chi domandare; venne sino all'uscio ove la sera prima aveva lasciata Ginevra, e bussò. Fra Mariano, che v'avea passata la notte, gli aperse, e venuti in una camera vicina, narrò a Brancaleone l'accaduto.

Tanto più rimase questi afflitto e travagliato dalla trista nuova, quanto che vedeva cadere una tanta sventura sul suo amico, nel momento in cui era meno preparato a sopportarla, e quando per l'imminente battaglia avea bisogno di tutte le sue forze; temeva che, accasciato sotto il peso del dolore si mostrasse inferiore a sè stesso in una prova tanto ardua ed importante. Pensato perciò al rimedio, stabilì col frate di celar questa morte per tutto quel giorno, e l'indomani soltanto assumesse quegli il carico di far portar la defunta al monastero, com'era stato suo volere, mentre Ettore fosse occupato a combattere co' suoi compagni. Credettero non difficile serbar il segreto per questo giorno in cui la rocca era quasi deserta, e stimarono di dirlo soltanto a Consalvo, onde accordasse gli ajuti che sarebbero occorsi per far il trasporto del corpo ed i funerali con un poco d'onore.

Per quel che spettava a Fieramosca, al quale bisognava pur dare qualche spiegazione, concertarono che Brancaleone gli dicesse: Ginevra star bene, non poterlo vedere per quel giorno, e che soltanto gli faceva sapere si ricordasse dell'onore italiano, combattesse con quella virtù che meritava una tanta cagione, e ch'essa pregherebbe per lui, e pei suoi compagni: le quali cose si potevan dir tutte senza bugia, ed erano tali da riconfortarlo, e farlo andar franco alla battaglia.

Dato sesto così a questa faccenda importantissima, scese Brancaleone in piazza, e venuto alla casa de' fratelli Colonna, li trovò ambedue nel cortile che, avendo radunati i tredici Italiani, ne rivedevan minutamente l'arme, le bardature, i cavalli, onde per l'indomani si trovassero in assetto, e non vi fosse parte dei loro arnesi che non fosse a prova.

Brancaleone, che aveva avuto avviso di questo ritrovo, vi avea mandato i suoi scudieri e quelli di Fieramosca coi cavalli e l'armi. Ma il loro padrone mancava, ed alle interrogazioni di tutti rispondevano dicendo che non s'era veduto e che di più non sapevano.

Prospero Colonna udì queste novelle con maraviglia, che si cambiò presto in ira; onde, quando comparve Brancaleone, domandò con volto severo:

– E dov'è Fieramosca, che non compare?

– Eccellenza! – rispose Brancaleone – sarà qui a momenti; il suo indugio non è volontario… un caso improvviso e d'importanza…

– Qual cosa vi può esser per lui più d'importanza che la faccenda di domani? Non avrei creduto che potesse avere adesso altro pensiero. —

Fanfulla che, ricordando i casi della sera scorsa, voleva trovar qualche verso d'avviare il discorso in modo da poterne parlare, disse ridendo:

– Eh! stanotte avrà ballato troppo, o avrà trovato qualche chiodo nuovo per cacciare quello vecchio, e allora si sa che alzarsi troppo presto rincresce…

– Avrà trovato il canchero che Dio ti dia, – riprese Brancaleone: – credi tutti pazzi come te? – Vi dico, eccellenza, che non dubitiate, e sull'onor mio sarà qui fra poco, anzi andrò io stesso a sollecitarlo. —

Pensò questo partito esser il più sicuro, poichè, per quanto si fidasse di Zoraide, dubitava che qualche nuovo ostacolo lo avesse potuto impedire. S'avviò al porto, per far un'altra volta il viaggio dell'isola; entrato in barca, al momento di staccarsi dalla riva, usciva di dietro al molo un battello nel quale con grandissima allegrezza scorse Ettore, che vedutolo venne a lui, e saltato a terra subito gli domandò:

– Dov'è Ginevra? è inferma? che le è accaduto? presto, presto, andiamo da lei.

– Presto, dai Colonna invece, non s'aspetta altri che te: Ginevra sta bene e la vedrai poi.

– Bene, l'ho caro; ma andiamo da lei.

– Ma non t'ha detto Zoraide che domani si combatte?

– Si combatterà, ma ora, in nome di Dio, conducimi da Ginevra…

– Ora non la puoi vedere, nè per tutt'oggi…

– Ed io ti dico…

– Ma se non mi dai retta e non mi lasci parlare, non la finiremo mai… Dunque devi sapere (e tutto questo è per parte sua: non che l'abbia veduta, ma me l'ha fatto dire, onde lo dicessi a te): essa dunque sta bene, la signora Vittoria l'ha accolta e ristorata, e prestatole quegli amorevoli uffici che richiedeva il sua caso, e non le manca nulla: ti prega di non aver per oggi altro pensiero, nè cercar di vederla; che ponga l'animo in quiete, combatta domani da par tuo, ti ricordi dell'onore italiano, di tutto quel che tante volte avete parlato insieme su tal proposito, e ch'essa prega Iddio per la nostra vittoria…

– Ma oh! perchè non l'ho io a poter vedere?.. qui c'è sotto qualche cosa.

 

– Ed io ti dico che non c'è sotto nulla: se ti volessi dire come andò tutto il precipizio di jeri, davvero non potrei, chè neppur io lo so: ma ti basti, in nome del Cielo! per ora di saperla salva, il di più lo vedremo dopo la battaglia; e ora non è tempo da pensare ad altro… Andiamo, che il signor Prospero e tutti gli altri aspettano ed hanno già domandato di te, e molto si maravigliano de' fatti tuoi, che vai attorno in questi momenti… Andiamo, un po' d'animo! Sei pur stato uomo sempre! ed è pure una vil cosa che ti metta sotto i piedi l'onore e 'l nome di quel gran soldato che sei!

– Andiamo; sì, andiamo – riprese Fieramosca mezzo in collera; – non son cavallo da tante spronate: ti domandavo di vederla un momento: casca il mondo per questo?

– Non casca il mondo… ma non capisci che son tutti là da un'ora a far la mostra, e tu solo manchi… che cos'hanno a pensare?

– Orsù dunque – disse Fieramosca affrettando il passo (chè tutto questo dialogo l'avea fatto camminando lentamente volendo l'uno andar verso la rocca, l'altro tirarlo verso la casa di Colonna), andiamo che non hai torto… il dovere e l'onore prima di tutto.

E mentre camminavano frettolosi gli domandava Brancaleone:

– E dunque, a proposito, come ti senti? e la ferita?..

– Oh! non è nulla… ma ti dirò poi… chè ora manca il tempo… quante diavolerie! e quella povera Zoraide! non m'ha voluto chiarir di nulla, ma ho capito bene… al male che mi sentivo… il pugnale doveva esser avvelenato… e non vorrei che m'avesse succhiata la ferita… e ci avesse a rimetter la salute, forse la vita… e pur troppo, temo che appunto la sia andata così. Ma ero tanto fuor di me che non posso distinguere se ciò sia una memoria od un sogno che abbia fatto.

– Ma in somma ti senti bene…

– Come non avessi mai avuto male. —

Ed in così dire eran entrati nel cortile, e si presentavano a Prospero Colonna, che, dopo qualche breve parola sul tardare di Fieramosca, seguitò la bisogna alla quale era occupato.

La diligenza minutissima che pose a questa rivista, la fece durare alcune ore. I cavalli furono provati, provati gli arnesi a colpi di lancia, d'azza e di spada. Del taglio dell'armi offensive ne fu fatta esperienza sul legno, sul ferro, e rifiutate le meno perfette. Verso mezzogiorno, tornato ognuno al suo alloggiamento, Ettore solo fu trattenuto sotto colore di stabilire varj particolari della disfida, ma in realtà per non lasciarlo andar attorno a suo modo. Brancaleone aveva tirato da parte il signor Prospero, ed avvisatolo di tutto, pregandolo facesse in guisa di tener Fieramosca occupato per il resto della giornata, la qual cosa venne da lui puntualmente eseguita. Fattosi sera, quando non rimanevano più pretesti ragionevoli per rattenerlo, fu lasciato andare, e Brancaleone accompagnandolo a casa entrò in ragionamenti sul mestier dell'arme, e sul modo che avean da tenere la mattina vegnente coi loro nemici, e riuscì a farsi tanto prestar attenzione, che non potè Ettore correr colla fantasia ove il cuore l'avrebbe chiamato. In quella che traversavan la piazza, giungeva il drappello de' campioni spagnuoli, ai quali accostatisi, domandando ed udendo le nuove della giornata, vennero spendendo il tempo, e soltanto a notte chiusa si ritirarono a casa.

– Han l'ossa dure questi diavoli di Francesi – disse Ettore separandosi dal suo amico – e gli Spagnuoli han trovato carne pe' loro denti.

– Tanto meglio – rispose Brancaleone – avremo a far con uomini; e non siam della bandiera Colonna per niente. Per me domani spero di far per due: pensa che cosa direbbero que' ribaldi degli Orsini se sentissero che ne abbiam toccate! Vorrebbe rider poco quel poltroncione del conte di Pitigliano… ma per questa volta spero non l'avrà il gusto.

– Oh! no – rispose Fieramosca: – e può essere che a qualcuno di questi Francesi gli dolga d'aver voluto assaggiar i fichi di Puglia. Oh! in somma, ora pensiamo a riposar queste poche ore, e domani a mostrare che se i poveri Italiani sono sempre assassinati, è perchè il maledetto destino vuol così; ma che del resto, uomo per uomo, non temiamo nè loro nè il mondo. Addio, Brancaleone; so che vuoi dire – seguiva sorridendo – non aver paura – fin a domani a sera non penso che a quel che s'ha a fare, e ti giuro che mi bolle il sangue ora più che il giorno in cui fu data la disfida; e spero di non far vergogna nè all'Italia nè a voi.

– Di questo son più che certo – rispose Brancaleone. – A domani.

– A domani – replicò Fieramosca stringendogli la mano, e si lasciarono.

Prima di salire in camera volle Fieramosca dar un'occhiata alla stalla; ed entratovi, si pose ad accarezzare il suo buon cavallo di battaglia, con quell'affetto, e quasi potrei dire amicizia che prova ogni soldato per il compagno delle sue fatiche e de' suoi pericoli. Gli passava la mano sul collo e sulle spalle battendolo leggermente, ed il cavallo, abbassate indietro le orecchie, scoteva il capo, e scherzando faceva l'atto di mordere il suo padrone.

– Povero Airone mio, mangia, e fa buona cera fin che puoi, che non sei sicuro di dormir domani sera su questa lettiera… A tutt'altro fatto condurrei Boccanera, e non arrischierei la tua pelle; ma domani ho proprio bisogno d'averti sotto, che non mi metterai un piede in fallo, son certo. E poi, – seguitò sorridendo e prendendogli il muso fra le mani, – sei italiano anche tu, anche tu devi portar la croce. —

Visto poi che tutto era in ordine, – Masuccio – disse volgendosi al suo scudiere, – alle quattro lo farai bere, e poi orzo quanto glien'entra in corpo: alle cinque mi verrai ad armare. —

Dati questi ordini salì, e dopo pochi minuti avea spento il lume, e si trovava in letto col fermo proposito di riposarsi e dormire. Sulle prime gli parve di poter prender sonno; ma poi cominciò un pensiero, e un altro, e un altro, ed era in letto già da più ore senza che gli fosse riuscito di chiuder gli occhi un momento. Tutto il fatto di Ginevra, del quale s'era dato pace in parte sulla fede di Brancaleone, gli si mostrò nuovamente pieno di ombre e di sospetti: mille timori incerti gli s'affollarono sul cuore: – Che cosa sarà – pensava – tutto questo mistero, e non l'ho da sapere nè pur domani! Che Brancaleone mi volesse ingannare? —

Un momento persino fu per maladire in cuor suo la disfida; ma il pensiero venne rispinto con isdegno prima che fosse interamente formato.

– Oh! vergogna, vergogna, – disse alzandosi a sedere sul letto, – come può cadermi nell'animo tanta viltà!.. Non son più quel d'una volta? Che direbbe Ginevra se mi vedesse tanto malamente mutato, e tanto freddo ai pensieri che un tempo mi facevan correr fuoco per le vene? —

E con queste riflessioni gli venne tant'ira di sè medesimo, che s'alzò infuriato, e rivestitosi, chè ad ogni modo non potendo dormire, il letto gli riusciva insoffribile, uscì sul terrazzo: sedutosi, come spesso soleva, sul muricciolo sotto la palma, dispose d'aspettar ivi l'alba, che non era molto lontana.

La luna pallida e scema si specchiava appena nel mare. Lontano forse cinquecento passi, a mano manca sorgeva la rocca, che a quell'ora poco potendosi distinguere ne' contorni, si mostrava come una gran massa bruna, e solo i merli posti in cima alle torri apparivano un po' distinti sul cielo. Ettore guardava sospirando quelle mura, pensando a chi v'era rinchiusa, ed ogni tanto gli sembrava sentire come un lontano mormorio di salmeggiare alternato. Ma era tanto discosto, che gli pareva e non gli pareva: ad una finestra, che per esser sul fianco del castello, egli non poteva veder che di scorcio, v'era lume e non fu spento mai tutta la notte; avrebbe dato il sangue per non veder più quel lume, e volgeva gli occhi altrove dicendo: Son pur pazzo a tormentarmi con tali fantasie; poi non poteva a meno di non rivolgervi gli occhi, e quel lume era sempre là.

Con quella specie di malafede che spesso adopera l'uomo con sè medesimo, quando è vessato da un dubbio importuno, si diede a volersi persuadere ciò che nell'intimo del cuore non credeva affatto, cioè che Ginevra era in buono stato, che non le era accaduto nulla di sinistro, e che tutto il mistero, che pure scorgeva in questa faccenda, era un'idea sua, una vana immaginazione. E se, per ingannar se medesimo, durava questa fatica, lo faceva conoscendo che a voler volger tutti i pensieri e tutte le virtù dell'anima alla battaglia, gli era indispensabile il rendersi, se non certo, almeno molto probabile, ciò che il raziocinio gli mostrava esser pura illusione.

12Come migliori vi mandai al campo.