Riflessioni Ironiche Di Un Moderno Migrante Italiano

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Capitolo secondo

“Le tre fasi delle strutture del comune”

Anche lo sport era fra i nostri passatempi preferiti. Lotta, motocross con il motorino, tennis, un po’ di salti su muri e staccionate, adesso lo chiamano con un nome fico, parkour, insomma tutto quello da evitare con le nostre schiene. Infatti, oltre tutto, condividevamo anche il pessimo stato delle nostre colonne vertebrali, ma “Holyfield insegna” spingere avanti. Le nostre passioni erano fiorenti non come il nostro stato finanziario, insomma eravamo spiantati e senza una lira, e si! Era tempo delle lire ancora. Il tennis era una delle passioni passeggere e, viste le nostre finanze, non ci saremmo mai potuti permettere il costo del campo, figurarsi un maestro, poi a cosa serviva? Ci mettevamo noi quello che mancava. Utilizzavamo un sistema molto in voga ai nostri tempi “allargo e scavalco”. Allargo la rete e scavalco il muretto. Voglio precisare, non eravamo vandali, avevamo grande rispetto dei posti in cui entravamo, non distruggevamo niente, utilizzavamo solamente le strutture comunali nei quartieri dei dintorni, le quali, per motivi inspiegabili, erano abbandonate ma in buone condizioni. Ad esclusione di quella notte, in cui utilizzammo le reti a molla a pagamento di un privato. Durante il giorno bazzicavamo proprio nei dintorni delle reti e a volte in momenti di fortuna riuscivamo ad accumulare abbastanza soldi per fare un giro, e intendo numero 1 giro. Era frustrante, appena iniziavi a prenderci gusto, vedevi l'omone di guardia farti cenno di uscire, era già finito il tuo turno, nacque allora il piano notturno. Le reti si trovavano sotto un bellissimo castagno secolare isolato e quella sera le luci erano stranamente spente, così, con un commando di altri ragazzi, ci avvicinammo. Mentre alcuni facevano la guardia, a turno ci infilavamo sotto la recinsione, per saltare sulle reti sino a sfinirci. Fortunatamente andò bene, visto che non distruggemmo niente e non ci rompemmo niente.

Per capire perché utilizzavamo queste strutture abbandonate ho bisogno di spiegarvi alcune cose. Nel posto da cui provengo i comuni sperperavano (sperperano) i soldi per costruire strutture “utili per i giovani” solo nelle solenni occasioni pubbliche in cui le annunciano. Purtroppo, in verità servono solamente ad ingrassare i costruttori legati a chi è al potere nel Comune in quel momento. Un fatto lo rende evidente, queste strutture passano tutte per le stesse fasi, che constano in tre, prima le costruiscono, poi le inaugurano e per ultimo, terza fase, le abbandonano al degrado, non permettendo un ingresso regolare con un custode. Finita la terza fase, iniziano a progettare una nuova struttura, il tutto per ricominciare dalla prima fase. La più eclatante l'ho scoperta durante un mio rientro vacanziero dal nord. Invitato da Settimo a casa della sua famiglia per un pranzo (nonostante da ragazzo gli devastassi casa mi hanno sempre voluto bene), fui accompagnato fuori in balcone ad ammirare la nuova costruzione del Comune, non potevo credere ai miei occhi, una struttura enorme in calcestruzzo aveva consumato parte del bellissimo giardino di limoni antistante la sua casa. Era uno spettacolare campo da hockey, devo dire molto bello se non fosse già alla terza fase, cioè all’abbandono. Settimo dovette faticare non poco per farmi comprendere cosa fosse, pensavo mi stesse cogl…ando, prendendo in giro. Non potevo credere alle mie orecchie, un campo da hockey in una terra dove le pietre si crepano al sole, dove ci sono i problemi più svariati, la mancanza dell’acqua, la disoccupazione. La maggior parte dei miei compaesani sconoscevano persino l’esistenza di questo sport. L'hockey? Se avessi chiesto a qualcuno cosa fosse l'hockey avrebbe fatto segno con il pollice in alto e mi avrebbe risposto “okey”. Quale motivo poteva averli spinti a costruire uno stadio da hockey in un posto dove nelle abitazioni nessuno conosce il termosifone? Nelle costruzioni delle case non erano proprio previsti, soprattutto nelle case popolari. Mentre in alcuni paesi del centro della Sicilia l’acqua è disponibile una, due volte alla settimana? Cosa scandalosa, da riempire i telegiornali in un Paese civile. Come mi sembrano ancora attuali oggi quelle parole della meravigliosa canzone di Rino Gaetano "L’acqua che vale più del vino", naturalmente senza l’intenzione di favorire le autobotti di aziende poco trasparenti…

Non mi permetterei mai di dire che molti Comuni della Sicilia fanno di tutto per evitare che l'acqua arrivi nelle case in modo continuativo, costringendo le persone a costruire vasche e autoclavi!

Eppure, il Comune era riuscito a finanziare un campo da hockey senza nessun controllo dello Stato centrale: “Evviva l’autonomia degli enti locali”.

Ci sarebbe da discutere su quale utilità questa autonomia abbia portato negli anni al nostro Paese.

Tutto questo sembrava un record sino a quandoooo, rulli di tamburi, dopo aver costruito un ospedale completamente nuovo e all'avanguardia e averci trasferito il vecchio lo abbandonarono appena qualche anno dopo alla fase tre, lasciando la popolazione in balia di un X-FILE a cui nemmeno Skally e Murder avrebbero potuto dare una spiegazione.

Mia moglie, leggendo la parola avanguardia, mi ha fatto notare che forse proprio all'avanguardia l'ospedale non era, visto che mia cognata ci raccontò questo agghiacciante avvenimento: la malcapitata, dopo aver partorito la sua seconda figlia, piena di punti per il parto cesareo, veniva trasportata sulla barella per i corridoi dell’ospedale, portandola dalla sala operatoria a destinazione, la camera. Improvvisamente arrivarono ad un punto cieco, davanti a loro solamente un grande finestrone. Ancora stordita dall’anestesia non riusciva a capire perché gli infermieri si affaccendassero attorno all'enorme finestrone, quando lo capì fu troppo tardi, si vide trasferire da una barella ad un'altra attraverso quel grande foro nel muro.

Gli infermieri, alla richiesta di spiegazioni, la informarono di come il progetto della costruzione fosse sbagliato e mancasse un passaggio dalla sala operatoria alle camere dei pazienti.

Nessuna delle istituzioni centrali si interessò a questi sprechi finendo così come normalità nella fossa del "così vanno le cose", nonostante un servizio del telegiornale satirico più famoso lo dichiarò tra i Comuni con più opere incompiute d'Italia

Strano come qualcuno ancora si domandi dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse.

Il fastidio è irritante, nel sentire certe frasi di alcuni politici, che quando gli vengono poste queste questioni, come le pensioni d’oro, il costo al km dell’autostrada, il costo dei vitalizi, le costruzioni inutili o abbandonate ecc. ecc. si esprimono in questo modo:

“Sì, ma vede, questi sono fatti etici, di principio, le dico onestamente, portano pochi soldi alle casse dello Stato, non fanno la differenza. Dalle pensioni d’oro, per farle un esempio, si ricaverebbero solamente 200 milioni di euro”.

“SOLAMENTE!”

Proverò ad improvvisare un dialogo teorico, tra l’uomo della strada e padre di famiglia che deve far quadrare i conti e il politico di turno. Il primo risponderebbe:

“Intanto 200 milioni di euro non sono pochi, paragoniamoli solo al budget con cui lo Stato finanzia le disabilità e poi 200 di qua, 300 da là e via così, si volatilizzano i miliardi e comunque anche fossero 2 euro andrebbero tagliati prima delle pensioni o dell’assistenza ai disabili, partiamo da là poi, se non bastano, saremo tutti felici di fare qualche sacrificio”.

È però pronta la risposta: “Si, ma per fare le leggi ci vuole troppo tempo, ci sono le lungaggini parlamentari ecc. ecc.”

Contro risposta:

“Saranno lunghe ma la riforma Fornero della pensione l’avete fatta in due settimane”.

Lasciamo perdere questo dialogo che nella vita reale finirebbe con la lapidazione del secondo e torniamo a cose più frivole.

Torniamo al tennis, noi riuscivamo a trasformare i normali sport, in sport estremi. Ad esempio, avevamo aggiunto al tennis i piegamenti, infatti, in un momento di impasse, ci balenò in mente un'idea. Chi avesse rotto il palleggio, avrebbe dovuto fare, per penitenza, dieci piegamenti a terra, trasformando la partita in un massacro dove alla fine non si beccava una palla. Non che all’inizio si scambiasse alla "meckie in ro"(l'ho scritto così come l'ho sempre sentito).

Oppure, per citarne un altro, fare fuoristrada, sì, ma con il motorino Ciao.

Comunque, senza soldi e telefonini, ci si divertiva un sacco.

Capitolo terzo

“Erano finiti i bei tempi”

Erano finiti i bei tempi, le giornate in cui nel quartiere da ragazzino mi bastava scendere le scale di casa, dopo che il mio caro compagno di infanzia Giovanni aveva suonato il campanello, e con un semplice bastone di legno andavamo a lottare come Jedi contro i fiori spinosi con la cresta viola, che dalle nostre parti diventano altissimi, mozzandogli le teste. O le infinite partite sotto il sole cocente, con le scarpine buone eleganti da scuola, che distruggevo in un attimo per la disperazione di mia madre.

Oppure alle bellissime calie (da noi si chiama così quando marini la scuola) in cui andavamo direttamente al mare a fare il bagno in pieno giugno tuffandoci sotto le onde.

La prima calia al mare, causa la mia inesperienza, non andò bene. Mia madre appena misi il primo piede in casa mi chiese se fossi andato a scuola: “Certo torno dà la proprio adesso”, le risposi.

Con voce suadente e tenebrosa mi disse:

” Va bene, vieni, vieni, avvicinati”.

Mi avvicinai, lei con la dolcezza ineguagliabile di una mamma mi baciò su una guancia.

 

In verità, mi leccò leggermente la faccia.

Il suo viso si scurì, indubbiamente sapevo di sale.

Mi puntò il dito contro e sentenziò:

“Sei andato al mare!”

Io negai ma non potei sottrarmi a qualche cinghiata.

Qua tutti i perbenisti diranno: ”La violenza, le cinghiate, gli schiaffi, o no, orrore” invece io non lo ricordo assolutamente come un trauma e non ho nessun risentimento nei confronti di mia madre. Penso, mettendomi nei suoi panni, quale problema fosse mettere un limite alle mie monellerie valutando il fatto che ero già più grosso di lei. Difficile sculacciarmi, così un rimedio doveva trovarlo, penso senza esagerare che “quannu ci volunu su megghiu du pani” tradotto “quando ci vogliono sono meglio del pane”.

Questo non mi convinse a non fare più calie al mare, solamente a farmi più furbo. Infatti, prima di tornare a casa, ci fermavamo alla fontanella del paese e, tolta la maglietta, ci lavavamo dal bacino in su.

Effettivamente ero una peste, qualche giorno prima mi stavo arrampicando sulla cima di un albero alto venti metri quando sentii la sua voce chiamarmi:

” MASSIMO, SCENDI! “

Mi girai e la vidi gridare dal balcone facendo tutti i segni possibili:

“SCENDI, TI AMMAZZERAI!”.

Scesi senza ammazzarmi. Senza dargli tregua nei giorni seguenti, trascinai anche la mia sorellina nella calia che anche quella volta scoprì.

Mi stupisco ancora a pensarci come in soli trent’anni possa essere cambiato radicalmente il modo di divertirsi dei bambini e dei ragazzi, non che uno sia migliore di un altro, ma come siano completamente differenti.

Non sono di quelli convinti che le nuove generazioni siano pessime e quelle vecchie rincoglionite. Non mi lascerò trascinare da tanti miei coetanei e colleghi in questa giostra stupida. Ogni generazione è fatta di idioti e gente sveglia, anzi io ho molta speranza nei giovani, magari sono un po’ rimbambiti fisicamente e nella scaltrezza, ma hanno una

marcia in più, una mente più flessibile e immediata.

Niente a che vedere con certi miei amici che da un momento all’altro dicevano “Salto! Ci riesco” e saltando da una duna di sabbia solida alta quattro metri si andavano a schiantare sulla sabbia a testa in giù come da disegno descrittivo.

Va bene buttarsi giù dai muretti o direttamente in mare dal pontile del porto con le bici ma a tutto c'è un limite.

Certo di cose stupide ne facevamo, come quella volta in cui rimanemmo soli in casa in spiaggia da un amico.

Arrivati a sera la fame cominciava a farsi sentire, così Pietro, mio amico di infanzia, mi offrì la cena preparata da lui.

Orrore culinario, aveva versato un pacco di biscotti dentro una ciotola in cui aveva tagliato a fette un'anguria e li aveva lasciati a macerare per un paio d’ore. Non li mangiammo naturalmente. Fortunatamente,

arrivò una luce, proveniente dal giardino in comune con i vicini, che ci abbagliò. Facevano festa e quando ci videro da soli ci invitarono a mangiare con loro.

In compenso ho un bellissimo ricordo della mattina seguente. Andammo, alle cinque o alle sei, a fare il bagno nudi sugli scogli in riva al mare. Fu una sfida, toglierci il costume e incastrarlo in immersione da qualche parte in fondo a quel tratto di mare per poi recuperarlo in una seconda immersione.

Abbiamo smesso solamente quando avvicinandosi l’orario di arrivo dei bagnanti, una signora ci scorse mentre passeggiava sugli scogli, ci vollero due sguardi per capire, con il primo pensò si stesse sbagliando, poi però non credendo ai suoi occhi, sconvolta scappò via.

Altre follie affollavano le nostre giornate, come quella con Pollicino, il soprannome era dovuto ai suoi pollici non proprio della misura giusta. Girovagavamo con la sua vespa, mentre degli amici ci inseguivano con i motorini. Giravamo per le viuzze nei dintorni dei paesi, quando, ad un tratto, ci trovammo davanti ad una rampa naturale in terra battuta.

Pensavamo portasse ad una via adiacente così, senza pensarci troppo, decidemmo di saltare, senza prevedere che dall’altro lato della rampa ci fosse il vuoto. Fortunatamente per noi, dava sulla spiaggia dove precipitammo infossando le ruote, il pianale della vespa miracolosamente ci tenne in piedi. I bagnanti, al rumore del nostro arrivo, si spaventarono e ci guardarono basiti. Noi ridevamo a crepapelle e facendo finta di niente, come se fosse stata nostra intenzione arrivare in spiaggia in quel modo, ci sdraiammo a prendere il sole e ad aspettare. Quando gli amici ci trovarono, ci volle un’ora per trascinare il vespino fuori dalla sabbia.

Quando ero ragazzo, dal balcone di casa mia, oltre a poter ammirare il vulcano e la costa sino al piccolo rilievo di Castelmola dove si inserisce Taormina e il suo splendido mare, potevo godere dei profumi di un bellissimo frutteto, pieno di limoni e alberi da pesca.

Ricordo il profumo delle pesche bagnate dal sole e il loro sapore legnoso, dovuto al fatto che le mangiavamo ancora un po’ verdi, prima che la raccolta ce le portasse via.

Spesso mi ero messo a osservarlo dall’alto, ma non avevo mai notato un raro albero di ciliegie. Doveva essere nascosto in qualche angolo, perché lo trovammo per caso in uno di quei pomeriggi durante i quali andavamo a zonzo senza meta. Girovagando ci trovammo, di fronte al bellissimo albero, così, senza esitare, salimmo sui rami più alti e ci sedemmo a godere il sapore dei frutti.

Improvvisamente sentimmo i passi di due uomini proprio nelle vicinane, ci nascondemmo al meglio dietro le foglie e fortunatamente non ci videro. Ma fu un cattivo presagio, perché non ci salvammo quando fummo invitati a mangiare da delle amiche che abitavano a S. Alfio, un paese in alto sul vulcano.

Ricordo ancora lo schifo, fecero la pasta con la salsa in brik dolciastra, una novità a quei tempi, e ci offrirono del vino in brik, altra delizia, in più aggiunsero alla pasta lo zucchero al posto del sale. Finito il pranzetto le abbandonammo, la noia ci stava uccidendo, ancora le femminucce non erano il nostro primo pensiero. Invece di aspettare che la madre delle nostre ospiti tornasse e ci riaccompagnasse a casa, decidemmo di correre giù in discesa per i 16,5 km di tornanti. Arrivati sfiniti a tre quarti di strada ci imbattemmo in una piantagione di ciliegie affacciata sulla strada. Le potevano cogliere senza entrarci e noi non ci facemmo sfuggire l’occasione. Seduti sul muretto circostante iniziammo a mangiarne qualcuna, tutta quella scarpinata ci aveva fatto venire fame. Ad un certo momento, si accostò a noi una macchina, da cui scese un panzone con aria sorridente che si avvicinò al mio amico. Sembrava volesse dirgli qualcosa, invece era una strategia per non farci fuggire, arrivato a tiro, partì da quella sua manona un muffittuni (in dialetto uno schiaffo a mano piena), di cui sento ancora l’eco a pensarci, e poi si lanciò invano su di me. Vista la scena mi tuffai all’indietro dal muretto stile parkour dentro il giardino e scappai.

Questa volta era andata male “non può mica andare sempre bene” comunque non ho capito perché per due ciliegie se la sia presa tanto, sicuramente non era il caso di rimanere e chiederglielo e con il mio amico riprendemmo la strada di casa.

Altra reazione esagerata mi accadde sempre in sua compagnia. Stavamo aspettando Settimo quando sorse un'urgenza impellente. Per fare presto saltammo una recinzione in una vecchia costruzione abbandonata e andammo a fare pipì proprio a ridosso di un muro scorticato. Al che sentimmo una voce gridare:

“ALTOLA!”

Ci girammo e ci trovammo di fronte un tizio con le gambe larghe che ci puntava la pistola tipo Starsky & Hutch nella favolosa serie.

Penso lo avesse sognato una vita, lui, una guardia giurata, incastrare due criminali con l’oggetto in mano. Aveva un’aria soddisfatta e ridicola allo stesso tempo. A certe persone non si dovrebbe affidare una pistola. Fortunatamente lo lasciammo andare dopo che la mise via (si perché in verità volevamo picchiarlo per avercela puntata contro). Era la guardia dello stabile.

Capitolo quarto

“Mi sono perso, ritorno a Esperto in tutti i tipi di saldature”

Ma torniamo a "esperto in tutti i tipi di saldature". Quel giorno preparavo il curriculum da portarmi dietro cercando qualche esperienza valida da inserire. Trascinai Settimo nel suo garage dove suo padre, una sorta di inventore di aggeggi per la casa e la campagna, teneva la piccola saldatrice, per farmi insegnare a saldare qualcosa. Fu lì che dopo una serie di fallimenti e qualche piccolo successo, mi scappò la frase che tuttora fa ridere Settimo da scompisciarsi: "adesso posso inserire nel curriculum che sono esperto in tutti i tipi di saldature".

In verità, questa mia positività sull’inserimento di dati non reali, “bugie”, nel curriculum derivava dalla mia seconda esperienza di lavoro. In estate, anno 1986, anni 12, finita la scuola, per raggranellare qualche soldo dovevo cercarmi un lavoretto. Per ottenere il risultato mi affidai ad un altro amico di infanzia, veramente un genio, lui, a differenza di me, era espansivo e non si preoccupava delle domande che le sue parole potevano suscitare e così, non mi ricordo come, finimmo in un'officina a chiedere se avessero bisogno di aiuto.

Io non dissi niente perché il mio manager mi vendette, come al mercato degli schiavi, a quest’uomo somigliante a un cinese, dico somigliante, ai tempi di cinesi non ne avevamo in paese, con testuali parole “lui sa fare tutto” e gli imbrogliò una sfilza di bugie.

Pensai subito “l’omino non può credere a tutte queste sciocchezze mi scarterà per evidenza delle prove” ed invece per mia grande sorpresa sentii:

“Va bene puoi cominciare anche domani.”

Da quell’esperienza capii come nel lavoro, a volte, vendersi un po’ meglio, se poi ci si mette tutta la buona volontà, AIUTA.

Così il giorno dopo mi presentai e mi fu affidato il mio primo lavoretto, per poco non soffocavo dentro il progetto dell’omino cinese, "la barca di metallo". Non so perché, ma il cinese progettava e costruiva questa barca completamente in metallo e un po' più grande del normale, non sono mai riuscito a capire, nonostante ho lavorato con lui parecchi anni, a cosa gli servisse quella strana barca, forse voleva invadere le Eolie, forse doveva pescare il grande squalo bianco, mistero… Mi diede in mano pennello e vernice e mi ordinò di dipingerne l’interno. Per me erano le prime esperienze e non mi rendevo conto che smettere prima di soffocare era una cosa che non avrebbe scalfito la mia immagine o ferito il mio orgoglio. Fortunatamente forse il cinese si accorse in tempo del mio stato e mi consigliò di uscire dal natante e andarmi a sciacquare il viso. Io, uscito dal fondo della barca barcollante, esclamai: “Sto bene! Sto bene! Tutto ok”.

Nei giorni seguenti continuai la mia opera, il cinese comunque non mi fornì alcuna mascherina, boooooH. Adesso mi chiedo, capisco la mia poca esperienza a dodici anni, “ma il Cinese, dormiva? “

Per anni ricordo che veniva a prendermi sotto casa e mi portava con sé anche per ore, senza fare niente, penso in realtà fossi per lui il figlio maschio mai avuto. Io però ero un ragazzetto e come tutti i miei coetanei non lo capii fino in fondo, volevo solo la mia paga settimanale. D’altra parte, lo aiutavo a saldare i trattori e tenevo lucida l'officina, non mi rigiravo mica le dita. Ricordo poi, in un suo momento di follia, forse l'eccitazione per aver preso uno o due lavori in più del solito, assunse un altro operaio, "il trialista drogato" il quale, oltre a non fare quasi niente, si bucava in officina e ogni tanto ci mostrava le evoluzioni che compiva con il suo vecchio Trial portato a lavoro. L'ultimo passaggio di questa seconda esperienza lavorativa accadde durante uno stato di megalomania del Cinese, il trasferimento in un capannone più grande. Sul tetto di questo enorme edificio era appeso un grande paranco così, qualche volta, quando mi lasciava da solo e finivo di fare i miei lavori, mi sedevo su una sedia da scuola in ferro e melamminico trovata in officina e imbracatola con il paranco e le fasce mi sollevavo fino al tetto per passare il tempo, fino al giorno in cui mi trovò su. Devo dire non si arrabbiò, mi intimò solo di scendere e di non rifarlo. Qualche mese dopo, all’insistenza da parte mia di pagarmi gli arretrati, il Cinese, adesso mi pento per essermi comportato in quel modo e per non aver capito che più di aver bisogno di me e delle mie mansioni lo faceva per affetto, smise di venirmi a prendere.

 

Ma torniamo un attimo indietro al mio primo lavoro. Correva l’anno 1985 (wow volevo scriverla, MITICA!), avevo undici anni, mia madre, finita la scuola mi trovò il mio primo lavoro come "aiuto pasticcere." Era normale dalle nostre parti, soprattutto per alcune famiglie delle case popolari. I miei fratelli più grandi avevano iniziato a lavorare uno a dieci anni e uno a nove anni. Quest'ultimo, mi raccontavano, lavorava al tornio salendo su una pedana perché era troppo basso e non ci arrivava ancora.

Il mio primo lavoro lo ricordo con dolcezza, anche perché guadagnavo pochissimo, ancora lo rammento, ventimila lire alla settimana, cioè 10 euro, e una favolosa guantiera di paste per la domenica, in cambio di un orario terribile per un ragazzetto. Andavo, se non ricordo male, dalle sette del mattino fino alle diciotto/diciannove della sera, in base alla magnanimità del proprietario, non proprio un uomo gentile, inutile dirvi che lavoravo in nero.

La dolcezza di questo ricordo deriva dal fatto che in quel locale, per la prima volta in vita mia, potevo abbuffarmi fino allo sfinimento di dolci. Nella nostra famiglia si vedevano con il lanternino, giusto qualcuno quando uscivamo con papà. Non era come oggi, i miei figli aprono il congelatore e dentro si ritrovano a scegliere tra tre, quattro confezioni di gelati dai gusti più svariati. Per procurarci i gelati alcune estati andavamo in giro a raccogliere le “cabbiette” (cassette di legno della frutta) stando attenti a non prendere quelle dei commercianti di frutta a cui, ho scoperto mio malgrado, servono. Ho ancora l’immagine di questa colonna di cabbiette a piramide nel cortile della casa in affitto che, date in reso a un commerciante, procuravano un po’ di soldi a mia madre che al pagamento regolarmente ci comprava il gelato. Mi torna in mente il sapore dei gelati a forma di pipa di plastica da cui all’interno potevi succhiare il gelato alla vaniglia o il mitico piedone alla fragola, "magia".

Alla pasticceria, intanto, durante i miei lavori, appena il buzzurro si allontanava, aprivo di nascosto quella magnifica porta del frigo, sbrilluccicante e metallizzata, afferravo le fragole e immergendole nella vaschetta della panna ne facevo man bassa, man bassa di quel misterioso frutto rosso avvistato una volta l’anno sulla tavola di casa nostra in una striminzita vaschetta blu contenente ben sette fragole (in famiglia eravamo in sette). Per non parlare dei pistacchi non salati mangiati a manciate e i bignè di tutti i tipi. Non era un furto, vorrei chiarire, solo un recupero salariale, non indifferente se valutiamo che a quell’età la fame di dolci sembrava non finire mai.

Con i primi soldi, ricordo, comprai il mio primo videogioco, una scarsa imitazione di Donkey Kong. Lo guardavo in vetrina come un miraggio ed acquistarlo fu un piacere notevolmente più grande di giocarci, anche perché in un paio di settimane saltarono via tutti i tasti.

Io lavoravo, al contrario di come si possa pensare, come una persona adulta, non scherzo, tipo estrarre con la pala il gelato dalla macchina, facendo attenzione a non farmi trascinare dalla lama rotante in acciaio, cucinare la crema nel pentolone gigante e versarla nel tavolone di marmo, riempire bignè ecc. ecc.

In un’unica occasione fui maldestro, mentre versavo la crema sul tavolo da lavoro, dal pentolone gigante, ne schizzò una palla bollente che mi si piantò sul braccio. Per chi non lo sapesse, quando provi a toglierla, la crema calda prima si appiccica sulla mano con cui provi a spazzarla via, poi si espande ustionandoti su una superficie maggiore, ma fortunatamente l’acqua era vicina e il dolore passò subito. Nonostante tutto, invece di apprezzare ed essere comprensivo, il capo era un po', come si può dire, a ecco, una merda. Come si può trattare male un ragazzino di undici anni? Così la mia avventura finì in malo modo, un giorno a causa del mio carattere non proprio buono, all’ennesima alzata di voce del titolare, andai a posare i dolci sul bancone del bar e me ne scappai letteralmente a casa. Mi ricordo che per la vergogna e per non vedere quel brutto muso, non passai davanti al locale fino al suo fallimento.

In seguito, mi sbizzarrii, passando da un lavoro ad un altro fino all’età adulta, in ordine:

aiuto pasticcere 11 anni;

magazziniere supermercato 12 anni;

aiutante officina trattori 13-15 anni;

aiutante negozio Buffetti stesso inverno;

montatore tende da sole 16 anni;

aiuto commesso ferramenta stessa estate;

barista e aiuto pasticcere dai 16-18 anni;

sergente motorista di marina 19-20anni;

aiuto cuoco in una rosticceria;

fabbro ferraio;

gestore di un pub;

raccoglitore di nocciole;

Fincantieri;

Miralanza;

e infine, contro tutti i pronostici, al mio attuale lavoro, disegnatore meccanico Cad su pc.

Una dedica particolare, prima di chiudere l’argomento “lavori da piccolo”, la vorrei fare al più gran cornutazzo e tirchio dei tirchi dei capi che io abbia mai avuto. Grazie all'intermediazione di Settimo, che lavorava presso il padre, un cartolaio al centro del paese, aiutavo il figlio possidente di un altro negozio anche lui rivenditore importante di articoli per uffici, una delle famiglie più ricche del paese.

“Pensierone numero due, ricchi con e senza meriti". La mia teoria da uomo della strada mi ha sempre portato a pensare che se alcuni senza una dote particolare sono così ricchi sfacciati ci sarà un perché ed il mio perché è proprio questo: non guardano in faccia niente e nessuno. Al contrario della storia di Dickens, queste persone a Natale, periodo in cui incassano di più, sentendo la vicinanza ai soldi diventano ancora più avari.

Ed alla domanda, che mette in difficoltà molti credenti, come mai queste persone così lontane dal Vangelo vivono così a lungo, da cui il detto Siciliano "l'erba tinta non mori mai", io riflettendoci mi sono dato una risposta semplice, ed è semplice la risposta: “fottendosene degli altri". E chi meglio di queste persone se ne fotte degli altri? Difficilmente se ne preoccupano, familiari compresi, e questo solleva il corpo da tutto quello stress che normalmente si ha per i propri cari.

Di conseguenza, niente arrabbiature per la felicità del fegato e dello stomaco, nessun pensiero che affanni il cervello ecc. ecc.

Il che comporta un ottimo stato di salute che li porta a vivere a lungo. Ora con questo non voglio auguragli mica la morte a questo tipo di personaggi, ma per contrappasso almeno un attacco di emorroidi?!!

Era il mio tredicesimo Natale, siccome avevo bisogno di qualche soldino in più, chiesi al mio sfruttatore di minorenni senza nessun contratto, di farmi lavorare nei giorni di Natale e di festa. Il mio errore più grande fu non accordarmi sull’extra con il mio serissimo padrone e così, finito il periodo Natalizio, ritirai la paga. A raccontarlo non ci si può credere, fu capace di erogarmi la stessa paga degli altri mesi, come se non avessi lavorato la Vigilia di Natale e la Vigilia di Capodanno, io ero giovane e invece di sputargli in un occhio come si sarebbe meritato, scomparvi nel nulla non presentandomi più al lavoro.

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