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La gran rivale

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Aveva rinunziato ai sogni di vocazione artistica, perchè aveva dovuto piegare dinanzi alla verità crudele, ma come si è già detto altrove, qualche cosa protestava in lui: il suo ingegno, benchè impotente fino allora a manifestarsi, esisteva però, ed egli lo sentiva, e non era possibile che lungamente si rassegnasse alla condanna d’inazione dettatagli dal primo disinganno. Non si potrà dubitare ch’egli amasse Emilia, e che l’amasse profondamente, dopo quello che aveva fatto per lei, dopo di averle sagrificato le sue idee da lungo tempo fisse, la sua indipendenza. Doveva pure essere stato forte quel sentimento che aveva tutto vinto, che aveva annichiliti gli ostacoli insormontabili, in apparenza, e che lo aveva deciso, lui, figlio di questo secolo pieno d’irresoluzione e di dubbio, ad una forte e grave determinazione. Pure, malgrado tutto ciò, era forse esagerazione di scetticismo il dubitare che quell’amore potesse solo bastargli nella vita o anche che potesse durare fresco e roseo come il primo giorno? Il suo carattere era troppo vivace e vario, perchè l’amore solo gli potesse riempire l’esistenza. L’amore per alcuni è tutto; per altri, per coloro specialmente che in qualunque modo si meritano il nome di artisti, non è che il possente ausiliare della vita: nei primi tutte le occupazioni servono l’amore, nei secondi l’amore coopera fortemente, è la molla che fa agire il resto, ma invece di farsi servire, serve; serve d’ispirazione e d’incitamento, è a un tempo sprone e conforto, stanca ma riposa anche. Molte volte fu detto che gli uomini superiori, gli artisti, i pensatori, amano più e meglio degli altri, e che tutta la loro vita rimane rischiarata dall’incendio prodotto da quella scintilla della loro gioventù. Ciò è vero; ma non totalmente e non sempre, e sebbene gli artisti trovino certo nell’amore qualche cosa di più di ciò che tutti vi trovano, sebbene amino meglio e con maggiore raffinatezza, pure l’amore non è lo scopo esclusivo della loro vita, e appunto perchè mettono e trovano l’amore in tutto, l’amore non può essere tutto per loro. Nella consolazione divina che l’arte ci presta vi è inevitabilmente una parte di oblìo. Ciò che vi è nella mente può fare obliare ciò che fa battere il cuore. L’arte è passione come l’amore, è la gran rivale, e la sua signoria è dolce quanto quella dell’amore, ma più severa, poichè mette un po’ al disotto di lei tutto che non è lei. Quando l’idea è sorta e con essa la brama irresistibile di estrinsecarla, quando l’artista si è sentito vicino a creare, vicino a quel sublime e terribile momento, tutta l’anima sua, tutte le sue forze sono rivolte verso il suo lavoro; si sente invaso dal fuoco sacro, innalzato al disopra delle altre cose tutte; si raccoglie, si rinchiude per lunghe ore, e tutte le sue facoltà morali, intellettuali, fisiche, tendono ad uno scopo solo: tutto allora scompare intorno, nulla esiste più per lui; nulla lo può distrarre, egli si dedica tutto al dolce e faticoso colloquio tra il suo spirito e la sua idea, dal quale deve nascere l’opera. L’amore e l’arte creano ambedue, ed è forse per ciò che uno dei due sovente è assorbito dall’altro. Ed è difficile che chi si sente animato e pieno della forza creatrice, ricolmo di fantasie che ha bisogno di espandere, possa dedicarsi interamente all’amore. Tutte le forze che prima si consumavano nella passione si rivolgono all’arte, e le voluttà che empivano la vita sembrano ora quasi insipide in confronto alle austere e ineffabili voluttà del lavoro che crea. E da tutte le forze negate all’amore e rivolte all’arte esce il capolavoro. Nell’arte vi è una parte di oblìo, poichè vi è l’estasi, vi è la negazione di ogni altra gioia, poichè è la gioia senza pari. Inoltre essa utilizza tutto, sottopone tutto a sè, si fa da tutto servire. Le gioie e i dolori passati servono al lavoro che s’intraprende, le lagrime hanno un’utilità, il dolore viene egoisticamente adoperato come elemento. Per creare bisogna aver sentito e sofferto, ma bisogna esser calmi. Tutte le tristezze si fondono in quella immensa gioia, dal dolore trascorso può uscire il gaudio segreto e qualche volta il trionfo.

Nei primi tempi che vivevano insieme, com’era naturale dopo le vicende per cui erano passati, l’amore riempì tutta la vita di Alberto. Egli non pensò più a null’altro, non gli parve possibile quaggiù un’altra felicità. Che gli importava dei suoi sogni d’arte svaniti, o della lunghezza della via da percorrere, o dei pregiudizi invincibili che si sarebbero rivoltati in folla contra di lui? Aveva tutto dimenticato. Era cullato dal dolce canto della gioventù e si addormentava in una beatitudine serena e piena di oblìo. Il suo cuore giovane viveva in tutta la pienezza della vita, ma l’anima sua d’artista si assopiva. L’amore ha generato molte opere d’arte, ma la sua influenza vivificante non si sente che quando il cuore è libero; per ispirare bisogna che abbia finito di regnare. E regnava despoticamente e dolcemente nel cuore d’Alberto, che aveva dimenticato tutto il resto e a Raffaello non invidiava più che la Fornarina. Nella lotta della loro rivalità, l’arte alla lunga finisce quasi sempre col vincere l’amore nei veri artisti; malgrado ciò, bisogna ammettere in un certo senso che la loro potenza è pressochè uguale, poichè finchè l’amore esiste l’arte non ha potenza; alcuna è d’uopo che passi, finisca da sè, e se allora l’arte subentra stabilisce la sua superiorità assorbendo tutto e non lasciando più che nessun’altra passione diventi padrona del campo. Alberto dimenticava dunque tutto il resto e preferiva carezzare i lunghi capelli di Emilia anzi che oscurare la fama di Michelangelo.

Ma tutto passa quaggiù, e più ancora tutto diminuisce. A poco a poco la felicità si fece, come doveva, più calma e allora la passione non bastò a colmare da sè il vuoto delle ore. Le antiche idee lentamente ritornarono, la vecchia brama ricominciò a mordergli il cuore e sentì di nuovo l’amarezza del disinganno ch’era stato dimenticato. Lentamente l’anima sua si rivolse verso un altro ideale, l’ideale di prima, l’amore sembrò ancora dolcissimo, ma non bastevole, e un irresistibile bisogno di azione lo invase tutto. A questo dovevansi attribuire le lunghe ore di distrazione e di pensiero che turbavano la tranquillità di Emilia e le mettevano nel cuore il terribile presentimento che la funestava. Egli passava delle giornate rinchiuso leggendo e studiando, e coltivandosi così lo spirito ed obbligandolo ad un’attenzione seguita per un argomento speciale lo distraeva dai pensieri scoraggianti e mesti che lo invadevano. E talvolta delle vaghe speranze lo agitavano, che sebbene tenui, erano sufficienti a commovergli ogni fibra del cuore, a farlo tutto piegare con brama intensa verso l’avvenire – poi ricadevano ed egli si trovava avvolto più che mai in una tenebra fitta che adesso lo sguardo di amore di Emilia non riusciva più ad illuminare. Egli non poteva più sopportare quella vita vuota. La sua immaginazione aveva bisogno di correre, le sue mani di afferrare un pennello, uno scalpello, una penna, qualche cosa con cui tradurre i mille pensieri, con cui rendere reali i sogni di cui sentivasi la mente traboccante. La sua fantasia batteva le ali, bramosa di ergersi al volo, il suo corpo voleva sentire la dolce stanchezza di aver molto lavorato, non poteva più vivere senza provare una volta la più grande soddisfazione della vita: quella di vedersi dinanzi l’opera delle proprie mani, il parto del proprio cervello, la traduzione dei palpiti del proprio cuore. L’ebrezza del primo momento d’amore era passata, ed ora sentiva il bisogno di raccontarla sulla tela o sulla carta o nel marmo. Si ricordava che tutti gli artisti hanno amato, ma si sono resi immortali per il loro amore, hanno utilizzato la passione servendosi di quella luce che aveva brillato nella loro vita per farne un’aureola intorno al nome inciso sulla loro tomba. L’artista mette sempre nelle sue opere (anche dove non appare) qualcosa della propria vita, ed egli abbisognava ora di far sosta per ripensare al passato, rigioirlo per così dire traducendolo col mezzo dell’arte e farne qualcosa su cui fondare il proprio avvenire. Ma egli rimaneva intanto in una inazione irrequieta e triste che tentava invano d’ingannare costringendosi a studi seri nei quali non riusciva che mediocremente ad interessarsi.

Fu allora che rivide quell’amico di cui l’incontro è stato raccontato da Emilia nella sua lettera alla contessa. Si erano lasciati giovanissimi ed ora si trovarono con quella gioia che si ha di rivedere qualcuno con cui si sono vissuti i primi anni pieni di sole, e di potersi raccontare a vicenda i fiori e gli sterpi della via percorsa. E, cosa strana, quando poterono capire quali erano state dal tempo della loro separazione le loro vite reciproche, ciascuno invidiò l’altro. L’amico dei primi anni d’Alberto era stato più fortunato di lui, poichè, malgrado fosse circondato da maggiori difficoltà materiali e crudelmente attaccato dalla povertà, pure riuscì. Fin da fanciullo egli era poeta, ed essendosi coraggiosamente avviato a scrivere, si era reso colpevole in breve tempo di due volumi di prosa e persino di uno piccino di versi che avevano subito messo il suo nome ad un posto d’onde non poteva più scendere, ed altresì assicurato una mediocritas, più o meno aurea, ma insomma sufficiente a impedire ch’egli avesse a morire realisticamente di fame. Suo padre, che travolto nelle sfortune politiche aveva dovuto emigrare, aveva scelto Parigi per dimora, ed egli aveva avuto perciò una educazione italiana in famiglia, ma si era resa al tempo stesso tanto propria la lingua, e con essa lo spirito francese, che si trovò naturalmente per questa doppia educazione molto avanzato in letteratura, potendo abbracciare l’antica e la moderna, la classica e la nuova. La Francia è ora incontestabilmente ciò che fu la Grecia ed è stata l’Italia. Tutto il movimento è là, l’impulso parte da lei, cammina luminosamente all’avanguardia nella luce dell’avvenire. Ecco perchè l’amico di Alberto, il cui primo romanzo, scritto in italiano, venne letto da diciassette persone e gli fruttò qualche centinaio di lire di spesa, si decise all’orrendo misfatto di scrivere il secondo in francese. Egli aveva vissuto una vita varia, divertente, fortunata; aveva provato la felicità del lavoro compreso e ricompensato, dell’ingegno apprezzato al suo valore; aveva avuto il successo e l’applauso, le distrazioni e l’ebrezza; pure quanto invidiò con tutta l’anima ad Alberto il suo amore e come avrebbe rinunciato a tutto per un giorno solo della vita dell’amico! – Ma questi, cui ora l’amore più non bastava e ch’era pieno di desideri insoddisfatti di lavoro, lo invidiava a sua volta ben più profondamente.

 

Quel giorno in cui Alberto ricevette l’amico in casa sua, in quelle lunghe ore in cui stettero insieme rinchiusi e che tanto inquietarono Emilia, non fu questione, come la poveretta credeva, di alcuna donne; solo si raccontarono tutta la loro vita, si dissero le mille e due cose che si hanno a narrare due amici che tengono comuni sentimenti, idee ed aspirazioni, e s’invidiarono un poco a vicenda. Udendo le parole d’incoraggiamento, piene di vita e di entusiasmo dell’amico, Alberto sentiva una sensazione di benessere indicibile, e una lieve speranza, tutta verde e rosea, cominciava a rendere meno bruni i pensieri che da tanto tempo l’opprimevano. Ascoltava rianimato le parole robuste della confidenza e della fede, gli riuscivano dolcissime le frasi brusche che lo rimproveravano fortemente di ostinarsi a rinnegare il proprio ingegno. Ma l’amico fece più che incoraggirlo e rimproverarlo: gli additò una nuova via. Gli disse che le pagine ch’egli aveva ricevuto spesso, in cui Alberto parlava con l’eloquenza vera dell’anima, erano migliori che tutti i suoi quadri e che se si era dovuto persuadere a gettare il pennello, come impotente a tradurre con essi i propri pensieri e le proprie fantasie, poteva prendere la penna e tentare ancora una volta. A questa idea la speranza si fece reale e gagliarda ed empì tutto il cuore d’Alberto, e di un tratto vide aprirsi l’avvenire dinanzi a sè. Si mise al lavoro. Fu allora che Emilia scrisse alla contessa: «non so perchè, ma sento che non è più mio». Aveva torto?

Molto tempo passò ancora così. Alberto si accorgeva di giorno in giorno che i consigli dell’amico erano buoni e la sua scoperta vera, ed ora incominciava per lui la luna di miele dell’arte. La via che prima aveva scelto gli riusciva aspra e difficile, non essendo la sua; questa gli era facile ed incantevole. Il suo pensiero si allontanava da Emilia, sebbene continuasse ad amarla; ma egli stesso, senza volerselo confessare, si accorgeva che l’amava meno. A qualcuno parrà forse che il nostro giovane protagonista non fosse giovane, che le illusioni ch’è obligo di avere alla sua età egli si prendesse sfacciatamente la licenza di non averle, e che, malgrado la sua natura poetica ed ardente, fosse ben positivo e ben calcolatore persino nei suoi momenti di slancio. E qui come al solito è necessario fare la distinzione tra il rimanente dei mortali e coloro che tentano di creare: questi, per la maggior parte (e Alberto fra essi), sentendosi fin da fanciulli spinti più degli altri all’osservazione, allo studio della natura e dell’anima umana, meditano e si guardano attorno e leggono e pensano e riflettono molto più e molto prima degli altri, e perciò sino a un certo punto, se ci si permette l’espressione, hanno l’esperienza innata. Si parla sempre dei disinganni, delle disillusioni cui specialmente vanno soggetti i poeti e gli artisti; ma non è sempre vero: ben sovente in essi l’illusione muore mentre nasce, e il disinganno arriva prima dell’inganno. Essi, giovani, sono preparati a tutto; hanno già quasi sempre acquistato quella serena inalterabilità che difficilmente viene turbata; conoscono troppo presto la vita perchè qualcosa li possa ingannare e sono presto vecchi, conservando però, ci spieghi l’enigma chi vi riesce, tutta la forza e l’incanto della gioventù e persino qualcuna delle ingenuità e delle leggerezze dell’infanzia. Ecco perchè Alberto, fin da quando era partito con Emilia, aveva travisto la possibilità che un giorno si potrebbe dirigere verso un’altra meta; egli si era reso troppo certo della brevità e della varietà delle cose umane, perchè tali pensieri non avessero a tormentarlo.

Dacchè erano insieme e specialmente dacchè Alberto aveva cominciato ad allontanarsi un poco da lei, volgendosi tutto a quella grande speranza che lo invadeva, Emilia era molto cambiata. La sua salute non era mai stata perfetta, la sua bellezza era fragile; le forti emozioni provate, il dolore d’essere divisa da’ suoi, da tutto che prima amava, l’amarezza segreta di essere discesa dinanzi agli sguardi altrui, la vita nomade e inquieta, tutto l’aveva impallidita, stancata, affievolita, e già sul suo giovane viso, qualche piccola ruga cominciava a raccontare la storia della sua vita. Egli, malgrado la sua distrazione, se ne accorgeva – e una pietà, figlia di un nuovo amore arcano e dolcissimo, l’assaliva tutto, e circondava per qualche tempo Emilia di cure tali da fare momentaneamente rinascere la confidenza in quel cuore titubante.

Un giorno giunse ad Emilia una nuova inattesa. Sua madre era gravemente ammalata e chiedeva di vederla. Questa notizia la commosse fortemente e risvegliò nel suo cuore sentimenti da lungo forzati ad assopirsi. Ella non aveva veduto più nessuno de’ suoi dopo la fuga, eppure aveva conservato una profonda affezione a sua madre, che, sebbene severa e dura, era stata però buona a suo modo per lei. – La notizia improvvisa fu una fortissima scossa. Risentiva un immenso dolore, non affatto scevro di rimorso per la malattia di sua madre, e le pareva che se avesse a perderla si troverebbe come sola in un abisso; tanto è vero che l’affetto di una madre è così forte e possente che oltre a non poter essere sostituito da alcun altro, si esercita anche a distanza ed ha una influenza misteriosa anche quando circostanze speciali hanno sciolto il nodo della natura; – ed al tempo stesso provava una gran gioia ed una indicibile commozione all’idea di rivederla, prevedendo che all’istante di riabbracciarla sentirebbe una voluttà santa. Ma pensava con terrore che forse dovrebbe lasciare Alberto per molto tempo, ed allora i presentimenti che da tanto tempo l’agitavano diventavano fantasmi reali e di una forma orribile e le si avvicinavano spaventevolmente.

Si era allora alla fine dell’autunno, ed era una triste e piovosa giornata quella in cui Emilia partì. Disse ben mestamente addio ad Alberto, come se non avesse a rivederlo più. Si sentiva il cuore gonfio, vedeva tutto nero, le pareva che un velo funebre calasse su tutto. Per la prima volta dopo molto tempo palpitava per qualche cosa che non era Alberto, ed il dolore, all’idea della probabilità di perdere sua madre ch’era già in età avanzata, era in lei terribile; pure questo sentimento di dolore acerbo rinforzava, esaltava il suo amore, e capiva più che mai ch’egli era tutto per lei, ch’era la sua vita, l’unica sua meta. Quando fu in vagone, mentre la locomotiva fischiò, mandò con la mano un ultimo saluto ad Alberto, e in quel momento si sentì una fitta tremenda al cuore. Si appiattò nel suo angolo, alzò il vetro, si strinse nel mantello e guardando distratta le campagne mestamente lavate dalla pioggia e gli alberi che si correvano dietro veloci, lasciava che i suoi pensieri egualmente s’inseguissero; ma non erano verdi, e spesso uno nero veniva a cacciarne uno bruno. Era in uno di quei momenti serii in cui molte cose ne si presentano sotto un aspetto nuovo ed improvviso. I suoi pensieri si dividevano tra quello che aveva lasciato dietro di sè e quella cui andava incontro, tra l’affetto della sua infanzia e l’amore della sua gioventù; tra il tavolo di studio dove vedeva colui al quale si era data tutta e per sempre, e il letto ove stava una morente che le perdonava, perchè i rancori di questa terra non si possono portare altrove. Si sentiva la testa debole. Era seduta davanti ad un vecchio elegante il quale portava una grossissima catena d’oro da cui non le riusciva di togliere lo sguardo. D’un tratto, senza accorgersene, interruppe i suoi pensieri per osservare le piante che si vedeva sfilare davanti. Qualche volta le pareva che tutto fosse un sogno, oppure si scordava perchè era in viaggio, e poi il doloroso motivo le ritornava dolorosamente d’improvviso alla memoria con una fitta nel cuore. L’era stata una consolazione la parte che Alberto aveva preso al suo dolore – ma al tempo stesso l’idea di una separazione che poteva prolungarsi la spaventava; tanto più che Alberto aveva deciso di andare, durante la sua assenza, a Parigi con l’amico. Senza ch’ella sapesse troppo il perchè, quel nome «Parigi» le diventava odioso – ella temeva la maggiore lontananza. In quelle poche ore di ferrovia, tutta la sua vita le passò davanti alla memoria, sfilando anno per anno, come il paese variato che le si stendeva dinanzi allo sguardo. Fu uno di quei viaggi che non si scordano. Tutti abbiamo così delle ore in cui si discende nel passato e si ricapitola, in cui l’anima nostra somiglia ad un viandante che si arresti a mezzo la collina per volgersi indietro a riguardare ad uno ad uno i sassi, i fiori, i torrenti e i ruscelli della via già scorsa. Finalmente giunse; fu ricevuta affettuosamente dai suoi e si accorse ch’erano impressionati dal cambiamento che scorgevano in lei, benchè nulla ne dicessero. Rivedendo la casa ove aveva passati gli anni dell’ignoranza, si sentì soffocare da un’emozione non mai provata prima. Fu condotta subito nella camera dell’ammalata, il cui viso, malgrado tutto, s’illuminò, vedendola, di un sorriso di beatitudine; baciò piangendo quel volto forse impallidito per colpa sua, e si assise al suo posto, a’ piedi del letto, con l’intenzione di non lasciarlo più finchè la sua presenza fosse necessaria. La malattia era gravissima, ma si sperava ancora.

Alberto fu triste per la partenza di Emilia, come non avrebbe creduto di esserlo. Egli che si era messo con tanta lena al nuovo lavoro che i consigli dell’amico gli avevano fatto intraprendere, ora tornava di nuovo a trovar tutto vano ed inutile, dacchè la sua stanza di studio non poteva più essere illuminata di tanto in tanto dal sorriso di Emilia. Egli che da qualche tempo la trascurava un poco, ora si sentiva talmente pieno d’amore per lei, che non si ricordava un’ora cotanto triste quanto quella in cui aveva udito il fischio della locomitiva che la rapiva. La sala, il posto ch’ella occupava vicino alla finestra, il ricamo mezzo finito sul telaio, il tagliacarte lasciato nel libro, le sbarre del focolare dove i suoi piedini si appoggiavano, i fiori che ora appassivano nei vasi, tutti cotesti segni della sua assenza lo riempivano di malinconia. Il profumo di lei ch’empiva tutta la casa e che gli era sempre stato dolce, ora lo rattristava. Ed era contento della decisione presa di partire, poichè dovendo separarsi da lei, non poteva sopportare di essere continuamente circondato da mille cose che la rammentavano; si sentiva il bisogno di variare tutto intorno a sè, di una vita affatto nuova in mezzo ad oggetti non soliti. Giunto a Parigi infatti queste impressioni si affievolirono; le lettere che riceveva quasi quotidianamente da Emilia gli parevano quasi lei e quasi gli bastavano; le distrazioni, il contatto di quella società letteraria così divertente in cui venne subito introdotto dall’amico, gli aprivano la mente a nuove idee, si vedeva dinanzi gli orizzonti dorati della soddisfazione e del successo. Le speranze che da qualche tempo gli apparivano vaghe e lontane ora si avvicinavano e si facevano reali. Il suo spirito di osservazione, il suo ingegno penetrante che certa ne dovevano fare uno squisito narratore, gli consigliarono un’idea, e allora la febbre del lavoro lo prese. Non escì più che raramente e dimenticò tutto nell’opera che lentissimamente prendeva una forma.