Za darmo

La gran rivale

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La lettura di queste righe produsse in Alberto quell’effetto di prostrazione che segue la notizia d’una sventura inattesa. Avere travisto una felicità che gli sembrava completa, avere diffidato e temuto, poi irresistibilmente attirato non aver potuto più lottare, e appena accortosi che il disinganno aspettato e temuto non giungeva, rallegrandosi della propria debolezza, veder d’improvviso cadere tutto l’edifizio di felicità come un mazzo di carte al primo urto! Cosa era stato necessario per interrompere la sua vita? semplicemente che al signor O*** venisse l’idea suggerita dall’interesse di riconciliarsi con casa sua.

A che serve lusingarci sui particolari, a che serve raccontare giorno per giorno come furono condotti a poco a poco all’alternativa o di dover rinunziare al loro amore o di dover perder tutto il resto per conservarlo? Per qualche tempo sperarono che la separazione finirebbe, che una volta ritornata si potrebbe ripigliare la vita di prima. Ma il progetto esposto nelle lettere di Emilia fu da suo marito posto in esecuzione, e tornando in città continuarono a stare insieme. O*** subaffitò il proprio appartamento e andò a stare in casa de’ suoi. Vedersi come prima era impossibile, ed ora dovettero conoscere tutte le amarezze, tutte le noie, tutte le paure della passione contrastata. Qualche tempo passò così e allora compresero quanto si amavano; poichè se il loro amore fosse stato vincibile e passeggero, a poco a poco la loro nuova vita sarebbe diventata abitudine, e gettando pure un occhio triste verso il passato, avrebbero potuto continuare così. Ma non si abituarono mai alle dure esigenze del cambiamento. Per di più, com’era inevitabile, O*** cominciò a sospettare qualcosa e la situazione divenne davvero intollerabile.

Allora – come d’un tratto uno spostamento di nubi cambia l’aspetto del cielo – tutte le idee preconcette di Alberto svanirono, tutti i suoi proponimenti caddero, tutte le sue teorie cambiarono. Capì che non si può fare una casistica della passione, e che se l’amore ci ha afferrato, egli è il padrone talvolta e ne può condurre dove meglio gli aggrada. Ciò che prima gli pareva il più grande degli errori, gli sembrava invece l’unica verità, il partito peggiore si era fatto subitamente il migliore ai suoi occhi, considerava ora la sola via che gli rimanesse quella che prima gli appariva coperta di triboli. Tutti i partiti estremi dinanzi ai quali – trovandoli nei libri – soleva prima crollare il capo o sorridere di un sorriso triste, ora capiva che talvolta è forza l’appigliarvisi.

Ed Emilia? – Ella pure non avrebbe mai creduto potere in una occasione qualunque prendere una di quelle risoluzioni supreme che cambiano l’aspetto della vita: per quanto amasse Alberto, non l’era mai venuta l’idea che lo amasse abbastanza per sacrificargli tutto, perfino le apparenze. E ora capiva invece che, sebbene non avrebbe certo avuto mai il coraggio di pronunciare la prima parola, se egli le avesse detto: «fuggiamo da tutto e tutti, lasciamo ogni cosa, cerchiamo di farci dimenticare dal mondo e di dimenticarlo, e rinchiudiamoci nel nostro amore senza il quale non possiamo vivere», ella non avrebbe saputo resistere un solo istante e avrebbe perfino passato l’oceano senza esitare.

E la tentazione di pronunziarle quelle parole era in lui fortissima e di momento in momento si faceva più insistente. Pure le vecchie idee combattevano sempre e una lotta gagliarda s’impegnò tra il cuore e la ragione, quelli eterni antagonisti. Fosse ancora stato ai tempi quando credeva alla sua vocazione, avrebbe saputo forse resistere; ma la fede era sparita da un pezzo. Egli non aveva legami, amava Emilia come non aveva mai amato fino allora, come non avrebbe creduto di potere amare mai. Egli cercava invano di trovar buone le ragioni che sempre gli erano sembrate eccellenti; egli tentava di persuadersi che l’amore non è l’unico scopo della vita, che non si deve tutto giuocare su di una carta, che le situazioni false, al di fuori di ciò che le leggi di ogni maniera comandano, se talvolta tollerate, sono però condannate sempre in massima. Il cuore gli rispondeva che non lo si poteva obbligare a morire.

Inoltre la vita si era fatta per Emilia ben dura e triste. Condannata a stare continuamente con gente antipatica e stupida, cui ella era naturalmente uggiosa, legata ad un marito che oramai odiava, e che con la maggior calma possibile l’aveva sempre resa infelice, tutte le tristezze le calavano addosso ad un tempo; si sentiva più desolata, più abbandonata che prima di conoscere Alberto.

Una goccia basta a far traboccare la tazza. Un giorno che a tavola suo marito, avendole parlato brutalmente dinanzi al servitore, le aveva fatto montare al viso il rossore della vergogna e dell’ira, gli altri in massa le diedero torto, mormorando. Il suo orgoglio nativo si risvegliò in lei, si alzò bruscamente da tavola, mise un velo sulla testa ed escì per non più tornare. Fece quello che non avrebbe mai creduto di fare, andò da Alberto. Quando entrò egli capì tutto. Le sue idee, le sue teorie scomparvero affatto, la lotta che da tanto tempo lo agitava fu vinta dalla lagrima che silenziosa rigava la guancia di Emilia, e quando ella stanca, affranta, abbattuta dallo sforzo fatto fino allora si gettò singhiozzando tra le sue braccia, egli se la strinse forte contro il petto e disse: «Ora sei mia, e nulla ne potrà separare».

In casa O*** Emilia era detestata. Ella era di abitudini, di sentimenti, d’idee, in tutto affatto opposta ad essi ed ogni più piccolo suo moto riesciva loro insopportabile e antipatico. Cercarono di farle del male in ogni modo, e tra le altre cose, insinuarono al marito il sospetto che non aveva mai avuto. Parlavano continuamente dinanzi ad Emilia di tutto ciò che O*** avrebbe potuto fare se non ci fosse stata lei, e pareva davvero volessero farle capire ch’ella era un impedimento a tutti i progetti di suo marito, una noia e nulla più. Avevano un’arte d’insinuare chetamente le cose più abbominevoli. Parlavano talvolta dei «tempi infelici» che erano trascorsi, ma le cui conseguenze duravano ancora, come se Emilia fosse stata la causa principale della rovina della casa: volevano dare ad intendere che ai loro occhi ell’era un mostro di leggerezza, di vanità, d’insensibilità, «noncurante nè della sua famiglia, nè di suo marito, e capacissima del resto di.... molte cose». Fu per questo che si contentarono di lanciare l’ultima maledizione sul capo di Emilia che fuggiva dicendo: «Quelle lì è meglio perderle che trovarle». Se ne parlò «dappertutto» e continuamente per una ventina di giorni, poi se ne parlò meno; poi non se ne parlò più.

Essi partirono; partirono lasciando tutto, dimenticando tutto, senza paura, senza rimorsi. Tutte le nebbie, tutte le esitazioni erano scomparse; la battaglia era stata vinta, il cuore aveva persuaso la ragione; le teorie prestabilite, le idee che avevano prima comuni, in ambedue erano svanite contemporaneamente; il soffio della passione aveva bastato. Era oramai troppo tempo ch’erano separati, che vivevano una vita di noia e di dolore, perchè in quel primo momento di riunione potessero sentire altro che l’ebbrezza della felicità riconquistata. L’amore vince. Se un anno prima qualcuno avesse profetizzato quello che avveniva quella sera all’uno o all’altro, ciascuno l’avrebbe giudicato impossibile. Essi avevano creduto di poter amare con restrizione, ma l’amore non lo ammette sempre, non è sempre possibile farlo stare entro certi confini. L’amore può far cambiare chiunque: siete un uomo pratico, positivo, posato; credete di aver amato e di aver vinto e di non aver più nulla a temere; un bel giorno l’amore vero vi afferra, e allora dimenticate completamente tutto ciò che non avrete mai creduto poter dimenticare, le convenienze, le esigenze sociali di cui vi eravate fatto un culto, non vi ricordate nemmeno più che esistono, e ciò che prima era la follia ora vi sembra la saggezza.

Partirono: e quando furono soli nel coupè della diligenza, appoggiati l’un contro l’altro, sentirono un’immensa gioia che loro inondava il cuore. Attraverso ai larghi vetri che avevano dinanzi, vedevano i cavalli che trottavano vigorosamente agitando in monotona cadenza i loro sonagli, animati dall’allegro vociare del conduttore e dallo scoccare della frusta; più in là la strada che serpeggiava come un nastro bianco svolto sul suolo, a sinistra la montagna che s’innalzava quasi a picco, tutta coperta di una vegetazione bruna e selvatica; a destra la valle profonda e umida, attraversata da torrenti e ruscelli, sparsa di capanne e di pascoli; più in là li alti monti spogli di vegetazione e coperti di rocce e di scogli; più in alto ancora le cime bianche di perpetua neve che i raggi morenti del sole tingevano di rosa, e che disegnavano nettamente i loro contorni taglienti e bizzarri sul fondo grigio del cielo, sparso solo qua e là di grandi nubi leggere, Il sole calava lentamente dietro le cime della parte opposta, e mentre l’ombra invadeva tutto tristamente a poco a poco, la gioia si alzava e cresceva nei loro cuori. Miravano lo spettacolo sublime di quel tramonto in quel luogo superbamente e selvaggiamente bello con l’occhio pieno di visioni degli amanti, e le cose bellissime e illusorie dei sogni che loro attraversavano la mente si univano alla splendida realtà di ciò che vedevano davvero. Essi si sentivano felici di una felicità inapprezzabile e profonda; si sentivano liberi come gli augelli che vedevano svolazzare qua e là tra il cielo e le cime. Aspiravano con delizia quell’aura vivificante e vibrata delle Alpi, come inebriati dal profumo acre e selvaggio delle eriche e dei pini, che il vento della sera agitava e contorceva. Erano pieni di benevolenza verso tutti; avevano perfino simpatia pel conduttore che ad ogni fermata stendeva loro la ruvida mano con un sorriso, chiedendo la mancia. E i cavalli trottavano, e i sonagli sonavano, e la frusta scoccava, e il conduttore saliva, scendeva, gridava, cantava, e nel tramonto le cime bianche si confondevano col cielo, l’aria si faceva di momento in momento più fredda e più vibrata, il silenzio diventava profondo e quasi solenne, i loro sguardi mandavano una luce ignota, i loro cuori palpitavano di un gaudio sconosciuto – e nella valle non si vedeva più che l’ombra.

 

Quella immensa gioia del primo momento, che da nulla poteva esser turbata, durò per qualche tempo e poi cessò; e allora tutti i tristi pensieri che infallibilmente la dovevano assalire, l’assalirono in folla. Era infatti naturale che in quel primo momento di ebrezza non vi fosse posto nel suo cuore nè per i rimorsi, nè per le paure dell’avvenire, nè per le riflessioni amare; ma queste non tardarono a giungere. Non è possibile perdere di un tratto la propria posizione, diminuire inevitabilmente nella stima di molti, farsi quasi maledire dalla propria famiglia, sentirsi dai più indulgenti compianta, senza che ne scaturisca un senso di dolore e di scoraggiamento bastevole a imbrunire la felicità raggiante dell’ora presente. E siccome tanto è più dolorosa la caduta quanto più dall’alto si cade, così dopo quei primi tempi di gaudio imperturbato, subentrò una tristezza profonda. Ma a poco a poco questa diminuì a sua volta e dopo le brusche oscillazioni tra la gioia ed il dolore, tra la pienezza della speranza ed il vuoto dello scoraggiamento, finalmente vi fu equilibrio e nel suo cuore entrò la pace; il gaudio dell’animo suo fu mitigato dalla umiltà della coscienza e sul suo viso si posò stabilmente quella espressione di malinconia consolata di cui parlammo al principio.

Essi viaggiarono molto nei primi tempi, e, come dissi, era facile incontrarli da tutte le parti, ma scelsero poi per loro dimora Firenze. Presero una piccola villa poco lontana dalla città; una piccola casa modesta, tranquilla, piena d’ombra e di mormorio, che loro offriva la pace e la solitudine della villeggiatura, e al tempo stesso tutte le distrazioni di una città a pochissima distanza. Qualche amico di Alberto veniva a trovarli talvolta, e più raramente qualche conoscenza che avevano fatto. Ella accettava coraggiosamente ed umilmente la sua posizione falsa, e non si curava senza affettazione della società dalla quale ora era bandita. Il mondo che giudica male e capisce così poco, questa volta giudicò meglio e capì qualche cosa; ed era tanta la simpatia ch’ella ispirava involontariamente che venne rispettata. Il piccolo circolo di amici che venivano ammessi nell’intimità della villa l’ammiravano, le volevano bene, e quelli che non la conoscevano credevano al bene che ne veniva detto. Le antipatie ingiuste e preconcette cadevano al primo vederla, poichè il suo sguardo disarmava ed il suo sorriso vinceva. Ella aveva preso il suo posto francamente, ma senza baldanza e senza orgoglio; chiedeva solo d’essere perdonata, e riconoscente dell’indulgenza che trovava.

La villa fu il ritrovo di una piccola società speciale, eccezionale, principalmente artistica.

Se si fossero conservati i ritratti di Emilia alle diverse epoche della sua vita, come lo si usa con le persone illustri, un fino osservatore avrebbe trovato un importante mutamento tra i suoi primi ritratti e quelli fatti dopo la sua fuga dal marito; senza parlare del carattere di volontà ferma, leggermente adombrato da una tristezza dolce che la sua fisonomia aveva preso, e di una certa piega lievissima del labbro che prima non aveva, e della sua bellezza per così dire completata – forse dall’aver saputo fare risolutamente il passo fatto – vi era un cambiamento sensibile nell’insieme della sua persona, nell’atteggiamento, nel modo di lasciar cadere le mani, nella posa della testa, nel vestirsi, e più ancora nel modo di portare ciò che vestiva. Prima la era una giovane elegante, come ve ne sono cento; si vedeva che i suoi vestiti erano della prima sarta, i suoi cappelli della prima modista, ma nulla più. Vedendola passare l’avrebbe osservata chiunque ha l’abitudine di guardare le donne che incontra per strada. Ora invece al senso elegante si era aggiunto il senso artistico, al taglio sapiente della sarta il disegno del pittore; si vedeva che alla ricerca della moda passeggiera era successa la ricerca di ciò che fosse bello per sè, di ciò che fosse meglio adatto a dar risalto al suo genere di bellezza. Allo studio dell’ornamento era subentrato lo studio della linea. Vedendola passare chiunque l’avrebbe guardata, ma un artista l’avrebbe certo seguita lungamente con lo sguardo. Elegante, nel senso volgare della parola, non lo era più, e le ragioni prosastiche non vi mancavano; era sempre vestita con una semplicità purissima e senza lusso; ma tutto quel che indossava aveva un carattere squisito. In parte il merito di questo, com’era facile indovinarlo, ricadeva sopra Alberto, il quale, sempre artista, non potendo fare dei capolavori, disegnava le pieghe armoniosamente cadenti delle vesti d’Emilia.

Qualche volta ella s’attristava volgendo indietro lo sguardo ai belli anni della sua vita di fanciulla. Si ricordava quel tempo, fuggevole quanto il resto, ma che sembra più lungo poichè lascia più durevole ricordo di sè, che passa tra la fine dell’infanzia e il principio della giovinezza, quel tempo color di rosa e d’argento quando ogni gioia è un gaudio e si chiamano dolori le piccole contrarietà. Pensava ai suoi sogni primieri, al modo con cui l’idea del matrimonio – quella magica idea che sempre riempie la mente delle giovanette – le frullava pel capo; alle amiche d’allora che non potevano più rispondere a tal nome, a sua madre, alla famiglia, alle rumorose domeniche e ai tristi lunedì, ai giochi ed agli studi, alla prima veste da ballo e al primo filo di perle. E la malinconia giungeva inevitabile, confrontando le sue aspettazioni giovanili, le promesse dell’adolescenza con la realtà presente. Passava poi col pensiero ai primi anni di matrimonio, quando le belle acconciature e le piccole galanterie banali erano il suo passatempo, quando la vanità le pareva bastevole a riempirle la vita: poi di là seguiva mestamente la china fino a quel momento, e vedeva come l’amore, che un giorno aveva negato, fosse ora diventato ad un tempo scusa, consolazione e necessità. E riflettendo come quelle che avevano tutte le apparenze della felicità, tutti gli splendori della società, fossero certo meno felici di lei, mancando spesso della vita del cuore, si consolava di tutte e capiva ch’era ancora invidiabile, purchè Alberto le rimanesse.

Ma ne era certa? Spesse volte veniva assalita da dubbi di ogni maniera; e l’idea che avesse a stancarsi di lei, ch’egli avesse ad amarne un’altra la facevano soffrire atrocemente. Se alla fine egli prendesse a noia la vita calma e monotona che conducevano, se gli venissero d’improvviso di quei bisogni di distrazione ai quali non si può resistere, se la sua gioventù si facesse impaziente di ogni freno e s’egli volesse vivere la vita giornaliera e vivace di coloro che non hanno legami? Se, cosa tristissima, egli non le stesse più vicino che per pietà; se dovesse giungere un giorno in cui l’amore si avesse a spegnere a poco a poco e ch’egli restasse al suo posto solo per un’idea di dovere, fingendo una passione che non poteva più sentire, cercando di far rivivere in fiamma ciò che si era mutato in cenere? Guardandosi nello specchio, ella pensava: «Quante ve ne sono più belle di me!» E allora si sentiva gelosa di tutte le donne che passavano sotto la sua finestra in quel momento. L’avvenire la spaventava. Quando vedeva una nube sulla fronte di Alberto o un sorriso amaro passargli sulle labbra, ella s’inquietava e credeva scorgere in quei segni passeggeri i sintomi della noia vicina. S’egli era preoccupato, il cuore di lei palpitava ansioso, poichè temeva che qualcun’altra l’avesse colpito; se talvolta egli le parlava tristamente, si rimproverava di non saperlo consolare.

Un giorno ebbe una sorpresa. Una sua amica d’infanzia, che passava per caso da Firenze, venne a trovarla. Quando l’aveva lasciata era una fanciulla di qualche anno maggiore di lei, timida, impacciata, con le mani rosse; ora la ritrovava bella, elegante, contessa, e vedova.

Emilia ne fu commossa, non rifiniva dall’abbracciare e riabbracciare la sua amica; poi le raccontò tutto, tutto quello che aveva passato e sofferto e gioito, la sua felicità presente mista alle memorie del passato e alle paure per l’avvenire. Le disse quanto Alberto fosse elevato di animo e di cuore, e come le sue qualità stesse aumentassero in lei la tema di saperlo un giorno trattenuto vicino a lei solo dalla pietà e dall’idea del dovere; parlò del suo ingegno, ch’egli negava tristamente, ma ch’ella aveva travisto col suo istinto di donna e che pure un po’ le faceva paura, poichè l’ingegno ha di ogni maniera esigenze e abbisogna spesso di una vita variata e avventurosa. – «Io sono tanto al disotto di lui», ella aggiungeva.

La fu una bella giornata, quella che passarono insieme le due amiche, l’una indulgente e pietosa, l’altra riconoscente. Si raccontarono tutto a vicenda, si esortarono, si ammonirono, piansero, risero, parlando ad un tempo di cose serie e di leggere, del passato e del presente, d’amore e di vestiti. Ma la contessa doveva partire e fu forza dirsi addio. – Allora si promisero di scriversi, e spesso, e dirsi ogni cosa. «Nei dolorosi momenti avrai qualcuno cui potrai confidare le tue pene, se avrai bisogno di una mano amica in qualunque occasione, ve ne sarà una sempre stesa verso di te». Gli occhi di Emilia le si velarono involontariamente e abbracciò la sua amica con uno slancio pieno di affetto e di gratitudine.

Se qualcuno avesse potuto vederle in quel giorno o sedute vicino all’ampia finestra del salotto d’Emilia o passeggiando per li ombrosi viali del giardino, avrebbe certo veduto un bel quadro, se artista; se osservatore, uno studio difficile, poichè era arduo l’indovinare cosa fossero quelle due donne. La contessa per il modo di vestire, per la camminatura, per i gesti, per il portamento era una gran dama e nulla più, giovane, allegra, bella, distinta. L’altra invece col suo vestire modesto e artistico, con la sua fronte ove si scorgeva ch’erano passati i pensieri in copia non comune, con quell’aspetto distintissimo alla sua maniera, ma diverso assai da quello della compagna, con la quasi impercettibile distanza ch’ella stessa poneva fra loro due, sarebbe forse rimasta un enigma anche per il più arguto spettatore.

Emilia fu mesta per la partenza dell’amica, e quella breve apparizione talvolta quasi le sembrava un sogno. Pure pensava con un senso di profonda contentezza come ella, costretta a troncare ogni relazione con la propria famiglia, aveva ora almeno qualcuno cui ricorrere in una circostanza difficile, un cuore in cui gettare ciò che traboccasse dal suo.

La prima a scrivere fu la contessa. Erano già passati due mesi dal giorno in cui si erano vedute, ed Emilia, timida, non aveva osato mantenere la propria parola. Le cose fanno un effetto ben diverso a una certa distanza, ed ora che non vedeva l’occhio pieno di bontà dell’amica indulgente, che non sentiva la pressione affettuosa della sua mano, benchè fosse persuasa che le volesse bene assai, non sapeva risolversi a confidare a un foglio di carta tutto ciò che avrebbe tanto volentieri versato all’orecchio dell’amica. La contessa, forse intravedendo un po’ tutto questo, si decise a scrivere per la prima; Emilia allora, incoraggita, rispose subito. Ecco la lettera: meglio di qualunque parola, può mostrare lo stato di animo in cui ella si trovava:

«Quanto sei buona, mia cara Maria, di avermi scritto per la prima. Sai, che io quasi non osava? – Lo confesso, ora che non sei qui a farmi diventare rossa con i rimproveri tuoi affettuosi; e lo faccio perchè mi conosci abbastanza per comprendere ch’era una stupida falsa vergogna (forse qualcosa di un po’ diverso, ma che non ti so spiegare) e nulla più. Grazie, grazie, per tutto quello che mi dici; se sapessi quanto le tue parole mi fanno bene!.... Non credere che io abbia mai dubitato di te; tu sei troppo buona ed intelligente perchè un simile sospetto ti possa afferrare, benchè il mio silenzio mi accusi un po’ in apparenza, ma il sentirmelo ripetere, con quei detti che solo l’amicizia profonda e vera sa trovare, mi riesce dolcissimo – tanto più che ne ho davvero bisogno. Sì, Maria, ho bisogno che qualcuno mi voglia bene, mi faccia coraggio! La lotta contro tutti è ben dura per una povera donna come io sono; e quando si ha concentrato tutto sopra un punto solo, quando un solo vi deve consolare di quanto avete perduto, vi deve rendere forte a proseguire il cammino in cui si è voluto avventurarsi – se un dubbio vi assale, quel dubbio basta ad avvelenarvi la vita. Oh il dubitare sempre! Oh, Maria, la certezza sarebbe meno male! So quanto gli sono inferiore, e sebbene, vada orgogliosa di esser amata da lui, sento che forse non ne sono meritevole; se dunque egli mi dicesse che è stanco di me, che ne ama un’altra, non mi rimarrebbe che a morire tutta sola nel mio angolo, ma sarebbe forse meno male che il dubbio atroce ch’egli non mi ami più e non abbia il coraggio di dirlo, che io cessando d’ispirargli amore gl’ispiri pietà, oh! questa idea è troppo crudele!.... e pure non mi vuole abbandonare. Perchè egli è buono, sai, profondamente buono, e se non mi ama, mi ha amato assai e dunque potrà dire fra sè: «Povera Emilia mia, non ti amo più, ma non te lo saprò mai dire», e avere il triste coraggio di sopportare quella tortura orribile che è la finzione in amore – senza capire che fa soffrire sè stesso inutilmente, poichè non s’inganna una donna che ama.

 

«Ma tu mi dirai: questi dubbi, queste paure su che cosa son fondate? Su niente. E malgrado ciò esistono e mi straziano. Vorresti negare l’istinto di donna? Abbiamo talvolta dei presentimenti che ne fanno tremare, delle superstiziose paure che non riusciamo a scuotere, ma, pur troppo, quei presentimenti si avverano quasi sempre, quelle paure lontane si fanno terribili e reali. Non ti par vero? Malgrado che scoraggito e disingannato nell’arte sua egli voglia negare il suo ingegno, pure ne ha e molto, del genio oserei quasi dire; e so anch’io che non posso bastare a riempire la sua mente di artista, che devo perdonargli le lunghe ore in cui mi accorgo di esser lontana mille miglia dal suo pensiero; ma queste, che una volta erano rare, si fanno ora di giorno in giorno più frequenti. Oh Maria, s’egli ne amasse un’altra?

«Io dissi che tutte le mie paure sono affatto prive di motivo; ed è vero, pure c’è una data nella mia mente alla quale non posso a meno di porre il principio del suo cambiamento a mio riguardo. Tre giorni dopo la tua partenza, al giovedì, eravamo alle Cascine; era tardi, il mondo elegante aveva già abbandonato i viali, e noi silenziosi guardavamo i riflessi di luna, che penetravano a stento qua e là tra le fitte foglie, rischiarando magicamente la solitudine che si era fatta intorno a noi. Io mi sentiva in uno di quei momenti, quando la poesia delle cose esterne pare filtri in noi a poco a poco, finchè ci sentiamo il cuore traboccante. Pensava al passato e all’avvenire, guardavo Alberto il cui sguardo era fisso nella semi-oscurità che ne avvolgeva; lo guardavo con inquietudine, poichè mi sembrava in uno di quei momenti di abbattimento invincibile che tanto mi spaventano, e che ora si fanno, Dio mio! ben frequenti; egli pareva ben lontano da me, ed io era gelosa de’ suoi pensieri. Talvolta un sorriso triste e forzato gli passava sul labbro, uno di quei sorrisi che fanno male a vedere – e la mia idea fissa mi faceva soffrire orribilmente, l’idea ch’egli non mi ama più. D’un tratto udiamo una voce: «Alberto, Alberto!» e vediamo un giovane, che a piedi correva dietro alla nostra carrozza. Questo incidente improvviso distrasse me dai miei pensieri e svegliò Alberto dai suoi sogni – fecemmo fermare – e in un attimo lo sconosciuto era giunto alla carrozza, e appena che si furono ravvisati, Alberto e lui si strinsero le mani e si abbracciarono.

– «Da quanto tempo sei qui?

– «Da ier l’altro.

– «Ti fermi?

– «Credo di sì.

– «Verrai a trovarmi?

– «Certo. Dove stai?

Alberto gli diede il nome della villa.

– «Hai fatto parlar di te. Ho letto le tue cose e credo inutile dirti che sono entusiasta.

– «E tu, cosa fai?

– «Io? – Niente -» Poi con un sospiro: «Se vieni a trovarmi, parleremo a lungo. – Vieni domani.

«– Domani non posso, ma posdomani certo».

Si strinsero ancora la mano. Alberto soggiunse:

– «Non ti puoi imaginare quanto son felice di vederti! ne avevo bisogno,» gli diede un’altra volta la mano, che l’altro strinse nel mentre alzava il cappello lentamente, guardandomi fisso, e partì.

– «Chi è? io chiesi.

– «Non ti ho mai parlato di un giovane di straordinario ingegno, ch’è primo fra i pochi cui do veramente il nome di amico? È lui. Non puoi capire che gioia sia per me l’averlo incontrato. Io non credo molto ai presentimenti, ma devo confessare che da qualche giorno pensava a lui continuamente.

– «Perchè non me lo hai presentato? io domandai.

– «Come, non l’ho fatto? – Mi sembrava di sì.»

«Non si era accorto dell’omissione; il fatto sta che quella sera l’incontro con l’amico aveva scacciato dalla fronte di Alberto la nube che ora vi sta così sovente; ma è da quell’incontro che il suo contegno verso di me si è cambiato davvero, che il suo modo m’inquieta; è d’allora che i dubbi crudeli che mi straziano si sono fatti insopportabili, è d’allora che ho spesso quella inesplicabile sensazione, nuova e terribile, che mi fa dire: «Non è più mio».

«Al giorno stabilito, quando l’amico d’Alberto venne, si rinchiusero in stanza e vi stettero quasi tutto il giorno. Alla sera partirono insieme e non tornarono che tardi. Talora mi pare perfino di odiarlo, quel suo amico, che viene a portarmelo via; mi pare certo che Alberto ne ama un’altra; ch’egli confida tutto al suo amico, e forse questi lo consiglia ad abbandonarmi, forse lo spinge nella passione cui ha resistito finora. Oh! che mi dicessero almeno subito la mia sentenza, ma questo dubbio incessante è quasi un’agonia! – Dimmi che sono pazza, dimmi che tutte queste brutte idee non sono che le allucinazioni dell’amore. Il nuovo venuto fu gentilissimo con me, e lo troverei simpatico, se non mi sembrasse che mi distacca Alberto; – mi parlò benissimo di lui, mi raccomandò d’incoraggiarlo, di fargli animo, disse che non bisogna permettergli di negare il proprio ingegno; disse tutte queste belle cose, come se le avesse scoperte lui! – E adesso intanto che scrivo lì vedo che passeggiano là nel giardino sotto il pergolato, dove abbiamo tanto passeggiato quel giorno, ti ricordi? e parlano, parlano, e gesticolano e sono ben certa che io non c’entro nei loro discorsi. Forse c’entra un’altra.

«O mia buona Maria, aiutami. Ti sembro diventata pazza? – Quanto, sarei contenta di ricevere una tua lettera che me lo dicesse! Ma pur troppo, temo di aver tutta la mia ragione; è vero che giudico con l’istinto, ma l’istinto va dritto alla verità. Non so comprendere cosa sia avvenuto; non so se davvero ne ami un’altra come sospetto sempre, non ho nessuna prova positiva, non so nulla, non posso lagnarmi di lui, pure, Maria, sento, sento ch’egli non è più mio. Addio, addio. Scrivimi presto, confortami tu che sai confortare. – Te ne sarà ben riconoscente la tua Emilia.»

Sembrerà forse una cosa triste a molti, ma che ben pochi fra coloro che pensano vorranno negare, che nell’amore le cause più indirette in apparenza, le circostanze esterne possono acquistare una grande importanza. Se Alberto non fosse stato costretto a confessare che la sua vocazione per la pittura era una illusione, se la passione non avesse trovato nel suo cuore e nella sua mente il campo devastato, avrebb’egli fatto ciò che abbiamo raccontato? Non lo crediamo. L’amore in tal caso non avrebbe potuto vincere la ragione, poichè questa sarebbe stata rafforzata da un altro sentimento, o piuttosto perchè non avrebbe potuto invaderlo completamente, una gran parte di lui essendo già occupata da un’idea egualmente alta e profonda, egualmente piena di emozioni bastevoli esse pure a riempire una vita. Era la sua una natura superiore e non gli era certo possibile vivere senza qualche cosa di gagliardo e di dolce a un tempo, di strascinante e d’inebriante che potesse occupare tutte le sue facoltà in una volta, ed estinguere quella sete di cose grandi e belle e gentili che tutti sentono coloro cui Dio impartì vastità d’intelletto, e con essa desideri irrequieti e superbi. S’egli fosse stato occupato, contento di sè per quanto possibile, ardente nel proseguire il suo ideale reso visibile, animato dall’amore assorbente dell’arte – quanta maggior forza avrebbero avuto i consigli freddi contro le aspirazioni vaganti del cuore, quanto sarebbe stata più viva la lotta e meno pronta la vittoria; come avrebbe acquistato vigore, con quel possente ausiliare dell’arte, la voce che accennava al pericolo, alla dura responsabilità che stava per assumere, alla possibilità di un cambiamento, alle difficoltà e alla lunghezza della via che l’amore gli consigliava d’intraprendere. Ed è certo che l’amore vinse perchè era solo. Tutto quel bisogno di azione ch’era in lui, le forti aspirazioni ch’era stato costretto di togliere dal campo dell’arte, ogni suo desiderio s’era rivolto nella via che unica gli si era aperta trionfalmente dinanzi cosparsa di rose, una di quelle vie alle cui attrattive maliarde è ben difficile resistere – specialmente quando non se ne vede un’altra. Perfino la sua ambizione, la brama di gloria, si era tradotta in amore. Tutti quei sentimenti che non sapevano farsi strada ne avevano trovata una qualunque e vi erano precipitati. Come poteva essere diversamente? Senza Emilia che avrebbe fatto egli, avendo già dovuto rinunziare al resto? Era libero, solo, indipendente, l’amore gli consigliava una via, egli vi scorgeva pericoli, dolori, ma al tempo stesso infinite dolcezze; altrimenti si vedeva orbo di tutte le sue speranze, capace di nulla, pieno d’una tristezza indicibile, e sicuro di rimpiangere poi la propria viltà nel non aver saputo seguire la via fiorita che si vedeva dinanzi piena di tentazioni, solo perchè sotto i fiori si potevano nascondere le spine. E certo è spesso più amaro il rimorso per ciò che si è omesso che per ciò che si è fatto.