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La principessa romanzo

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La prigione fu aperta. Entrò il soprintendente. Gli si leggea nell’aspetto una grande, sincera costernazione.

Roberto gli mosse incontro.

Il soprintendente allargava le braccia verso di lui; e Roberto, per un movimento instintivo, vi si gettò.

– Devi esser uomo! – gli disse il soprintendente con voce rotta dal pianto. – Ho da darti una triste notizia....

– Morto? – esclamò subito Roberto con un accento, che rintronò per le vôlte dei corridoi.

E, appoggiato il capo alla spalla del soprintendente, si dette a singhiozzare.

Ogni singulto parea dovesse fracassare quel petto robusto.

Il soprintendente non disse di più; volle tenergli, per impulso di pietà, celata la tragica fine del padre.

Nel lasciarlo, gli bisbigliò:

– Il mio dovere, come impiegato, era di tacerti tale notizia.... Sono questi gli ordini che abbiamo.... Tu devi esser trattato come se non avessi un’anima, un cuore.... Ma il mio ufficio d’amico era di non tacere.... Che avresti detto tu un giorno, se ti fosse venuto a notizia ch’io t’avevo ingannato, facendoti creder sempre che tuo padre vivesse?… Il tuo dolore non deve aver qui testimoni, o si comprenderebbe che qualcuno ha parlato....

Si abbracciarono di nuovo.

Senza dir motto, Roberto avea trovato modo d’assicurare con quell’abbraccio il Cardella della sua discrezione.

Il soprintendente uscì.

Roberto si gettò sul suo lettuccio, soffocando il pianto nel rozzo origliere, che gli forniva l’amministrazione dell’ergastolo.

V

Di lì a un’ora, Roberto si sovvenne che l’altro prigioniero lo aspettava.

Già udiva un piccolo rumore verso il punto ove le pietre erano state smosse.

Si levò: tolse le pietre, con ogni precauzione, apparve di nuovo la scarna figura dello sconosciuto.

Nella sua generosità, Roberto pensò tener ad esso nascosto il suo grande dolore e occuparsi piuttosto delle sofferenze di lui.

Il sopravvenuto si accasciò di nuovo sul misero letticello della prigione, e lì seduto, disse a Roberto:

– Vi racconterò la mia storia.... Io sono meccanico e incisore: e sono stato condannato col nome di ingegnere Amoretti. Pochi mi conoscevano in Napoli, avendo quasi sempre lavorato in Roma per ricchi forestieri, co’ quali sopra tutto avevo contatto. Tornai a Napoli, mia patria; e fui pregato incidere alcuni emblemi.... Si trattava degli emblemi d’una setta: e credo si chiamasse de’ carbonari.... Mi si fece pur incidere una specie di proclama contro il Re.... Un mio alunno mi tradì; egli era innamorato della mia moglie, donna virtuosissima, e che avea resistito a tutte le sue importunità.... Credette in tal modo sbarazzarsi di me, riuscire nel suo intento, e mi denunziò.... Fui arrestato, condannato.... Mia moglie cadde colpita da sincope, vedendomi passare, mentre mi riconducevano alla prigione, il giorno stesso della condanna. Essa mi avea dato un figlio, un anno prima; un figlio che era tutta la mia gioia, tutta la mia speranza per l’avvenire....

Fece una breve pausa, quindi riprese:

– Perchè mi condannavano?… Io era innocente. Alieno dalle cospirazioni, assorto nell’arte mia, per mera compiacenza avea fatto que’ piccoli lavori.... La incisione degli emblemi era riuscita un capolavoro. Ci sono nelle mani di ricchi signori d’Europa e d’America incisioni mie, di cui si offrivano fin d’allora centinaia di sterline: e che a me pure erano state ottimamente pagate.

Feci professione di fedeltà al Re: chiesi la mia grazia e non ho ancor nulla ottenuto.... E notate che offrivo di tornarmene subito a Roma, ove avea passato quasi tutta la mia vita.

Che è divenuto mio figlio, rimasto solo, abbandonato nel mondo?… Vive egli sempre?… Lo scarso peculio da me lasciato, ha servito alla sua educazione? Ama egli suo padre; la gente che lo circonda gl’ispira la reverenza filiale, o l’orrore verso di me? Dov’è? Vive? Si trova in grandi pericoli, in grandi necessità, posso io salvarlo, soccorrerlo?

Ecco i dubbii che m’angustiano, ecco la mia tortura, una tortura indescrivibile, che ho sopportato per anni ed anni, che mi ha avvelenato i giorni e le notti, mi ha tolto la pace, il sonno, mi ha dato ogni strazio, mi ha ridotto come voi mi vedete. Mio figlio!… Siete voi padre?

Roberto rispose di no.

– Ah, allora non potete intendere ciò ch’io ho sofferto.... Ed è inutile ve lo spieghi.... Mio figlio, il mio unico figlio!.... Tante volte, nelle notti, mi è parso veder un’ombra bianca, l’ombra della mia diletta sposa; mi è parso di udir susurrare al mio orecchio: va’, non lasciar solo quel fanciullo, che ha bisogno di te; trova nel tuo affetto di padre le forze, il segreto, per fuggire.

Se sapeste che cosa sono queste memorie della famiglia per un uomo che si trova solo, in una squallida prigione!

Così pensai, tentai la mia fuga: la mia cara sposa sembrava m’aiutasse nel lavoro.... Aspettavo la grazia, e cercavo il mio scampo. Due speranze! Una di più che non occorra a consolar la vita del prigioniero.... E ora, ora le ho perdute tutt’e due.... Nel mio lavoro sotterraneo ho scambiato direzione.... La provvidenza non ha voluto potessi rivedere mio figlio.... E, dopo un lavoro prodigioso, che sembra sfidare le forze umane, e che ho superato per virtù d’amore di padre, rinunziar alla propria idea.... Se sapeste che immensa amarezza! Io non vi resisterò. Fatte sparire le traccie del mio tentativo di fuga, perchè non si raddoppino rigori, e non nuocere ad altri, m’impiccherò all’inferriata della mia prigione....

– Oh, – esclamò Roberto inorridito da quella risoluzione, esaltato dal dolore cui era in preda, per la notizia avuta.

Gli si offriva alla mente ch’egli poteva compiere un’azione generosissima: una di quelle azioni, cui suo padre l’avea educato, e ch’egli, nella sua semplicità, avea saputo compier sì spesso: sarebbe stato il miglior omaggio alla memoria di lui.

Il dolore, sì recente e sì forte, aveva purificato l’animo di Roberto: l’avea inalzato a Dio, staccandolo da tutte le miserie della terra.

Sentì vergogna di sè. A che egli avea preparato con tanto studio, una fuga? Per soddisfare una vendetta. E alla sua fuga tutto sembrava promettere un esito felice.

Invece quel prigioniero avea lavorato, e indarno, mosso dal più nobile, dal più puro de’ sentimenti: l’amore paterno.

S’egli avesse avuto un figlio, una figlia, la prigionia gli sarebbe riuscita mille volte più dura, incomportabile: no, non avrebbe potuto sostenerla!

Poi, – rifletteva, – quel prigioniero era davvero innocente. La tirannide che non si placava mai, la diffidenza politica, che ingigantiva la colpa, paurosa di pericoli, lo aveano gettato in quel carcere: a terrore, esempio d’altri, anzi che ad equa espiazione di un suo fallo.

Ma egli, egli, che avea tanto imprecato, la sorte, era davvero innocente quanto si credeva?

Nella sua passione focosa per Enrica, nel modo con cui l’avea dominata, conquistata, nella forza brutale ch’avea spiegato contro di lei, non v’era già una trasgressione delle leggi morali?

La sua espiazione era eccessiva, ma era sempre più meritata di quella dell’altro.

Egli non aveva più alcuno al mondo che lo amasse; non potea indovinare ciò che Diana, la gentile fanciulla, facea, perchè trionfasse la innocenza di lui; e sapeva che, morto il padre, non gli restavano altro che nemici.

A che pro una lotta con essi?

Il sacro dolore che l’opprimea gli dava a sentir più forte la vanità della vita.

– No, no, – ripetè al prigioniero, – non dovete disperarvi di più.... rivedrete il vostro figliuolo!

– Che dite?… – esclamò l’altro, scendendo dal letto, e rimanendo in piedi. La sicurezza con cui Roberto parlava lo aveva scosso. Splendeva a lui di nuovo un raggio di speranza. E, sia pur debole, gli uomini infelici sono sempre sì pronti ad accoglierlo. – Che dite?…

– Anch’io ho preparato la mia fuga.

E gli spiegò della scala di corda, e della sbarra limata, che dovea lasciarlo passare.

– Ho osservato – soggiunse – che allo scocco delle tre si mutan le guardie. Arriva qui dinanzi un picchetto di soldati. La sentinella che è sotto l’inferriata va a parlare, alla distanza d’un cinquanta passi, col picchetto.... Fa il suo rapporto, scambia alcune parole di consegna.... In otto o dieci minuti, la sentinella torna al posto.... Preparata la scala, rimossa la sbarra, in una notte buia, tempestosa, come questa, ecco lo spazio di tempo che deve servire alla mia fuga....

– Ma allora potremo fuggire insieme.

– No, poichè la distanza da percorrere, per arrivare dalla inferriata sul suolo sottoposto, è assai lunga, e non si può scendere se non con molta cautela: e, quando la sentinella ritorna, bisogna essere già lontani dalla muraglia della torre.

– O dunque? – disse l’altro, di nuovo piombato nella costernazione.

– Fuggirete voi solo!… io non ho motivi serii come voi per desiderare sì pronta la libertà.

– E quando potrò fuggire? – rispose l’Amoretti, senza pensar ad altro, baciando le mani del suo benefattore.

– Io aveva stabilito di fuggire stanotte.... Fra poche ore, potete esser fuori.... Ma guardiamo.

Si fece all’alta finestra: la pioggia era cessata: le nubi erano spulezzate dal vento: si rasserenava.

– Il cielo è contro di noi, – disse Roberto. – Torna il bel tempo; stanotte si vedrà chiaro: sarebbe imprudente, dannoso tentare una fuga.... Ma la stagione è instabile; una di queste notti, forse nella notte di domani, potrete mettervi in salvo....

– Grazie, grazie: e Dio vi rimuneri con le sue benedizioni!

– Oh, se anch’io fossi stato padre, sento che il mio cuore sarebbe scoppiato fra le mura di un carcere.... Vi sarei soffocato!

VI

Roberto non uscì il giorno appresso dalla sua prigione.

Il soprintendente non lo cercò; capiva com’egli dovesse desiderare di rimaner solo, immerso nel suo dolore.

 

I prigionieri lavoravano; e poteano disporre d’una piccola parte de’ loro guadagni.

Un secondino avea facoltà di vender loro vino e acquavite: ma soltanto in una certa misura.

Verso sera, mentre Roberto era disteso sul letto, accasciato nella sua afflizione, sentì cigolare la chiave nella porta della prigione; entrò il secondino che vendeva l’acquavite.

Non era il solito secondino.

Era un uomo più attempato e di aspetto più gaio.

– Numero.... numero.... – egli cominciò a cincischiare, appena entrato – numero Trentanove!

A quella voce Roberto si scosse.

Il secondino s’avvicinava al letto e avea posato la candela sul tavolino, che v’era accanto: s’inchinava verso il prigioniero.

– Ah! – esclamò. – Si stropicciò gli occhi e tornò a guardare; temeva che forse il vino, o l’acquavite, tracannati nella calda giornata, gli facessero un brutto scherzo.

– Domenico: il giardiniere di Mondrone! – mormorò Roberto.

L’altro rabbrividì.

Teneva da una mano un paniere con bicchieri e bottiglie. Senza deporre il paniere, disse:

– Chi sei?… Sei qualcuno che ho molto conosciuto.... I tuoi occhi.... Ma il resto della fisonomia non corrisponde.... Chi, fra le persone da me conosciute, può trovarsi in un ergastolo?…

Pensò e ripensò: stette un po’titubante: quindi, facendosi molto vicino a Roberto, e posando sulla tavola il paniere:

– Dagli occhi, – mormorò, – e da quello che io mi ricordo direi tu fossi Roberto....

– Sono io.... Roberto.... Jannacone!

– Roberto… l’assassino! – come ti chiamano nel paese.

– Ah, sì! – rispose Roberto, tremando. Egli avea avuto un gran colpo, le parole di Domenico gli aveano ricordato troppo bruscamente quanto egli fosse caduto nel concetto universale.

– Ma come ti sei cambiato! – aggiungeva Domenico. – È impossibile di riconoscerti.... Appena, appena ne’ tuoi occhi…

Roberto mise subito da parte questa idea; che, nel caso di una fuga, avrebbe dovuto procurarsi un paio d’occhiali per non essere ravvisato.

– Beviamo, già che ci siamo incontrati.... Mi hai dato tu tante volte da bere.... Beviamo e ricordiamo i tempi passati.

– Ma tu mi credi reo?… Vuoi bere con un assassino?

– Io credo che sia un’ingiustizia l’aver condannato a una pena sì lunga un uomo ammodo, che avea fatto fare un tuffo a uno zerbinotto insolente....

Roberto capì che anche Domenico lo teneva per reo.

Gli sembrò inutile confutarlo: il tempo stringeva: e voleva muovergli qualche altra domanda.

Fece sembiante di bere il bicchierino d’acquavite, offertogli da Domenico, ma, veramente, costui tracannò, un dopo l’altro, i due bicchierini, che avea posto sulla tavola.

– Come mai ti trovi, qui, in Calabria?

– Licenziato dal servizio del duca di Mondrone, venni qui per consiglio di Cristina, la cameriera della duchessa Enrica.... Aveva mutato tanti padroni: si sparlava di me.... gl’invidiosi, per screditarmi, han sempre mormorato ch’io sono un bevitore.... e Cristina mi diceva: è meglio che tu ti allontani. Aveva ragione. Qui in Calabria mi accadde il solito. Mutai, in varii anni, parecchi padroni; e, a poco a poco, sono arrivato qui....

Si versò un altro bicchierino.

– Come si stava bene a Mondrone, ve ne ricordate?

A Roberto batteva il cuore con veemenza.

– Quanti cambiamenti sono avvenuti.... Il duca è morto.... La sua figlia Enrica ha sposato il principe Gorreso di Caprenne.... E abita Napoli.... Si parla molto di lei....

– In qual modo?

– Anche qui in Calabria è voce popolare che essa sia l’amica del Re.... Si discorre continuamente del suo lusso, de’ suoi sfoggi, delle sue feste.... È certo la donna più famosa di Napoli.... e si può dir la più bella....

– E il marito?

– Uno de’ primi signori di Napoli: ma.... uomo poco scrupoloso.... Perchè la moglie fosse più libera alla Corte, ha accettato un’ambasciata, altri favori dal Sovrano.... Si fa pagare la bellezza della moglie, dicono, e se ne sta per anni lontano da casa sua. In Napoli tutti si beffano di lui.... specialmente i suoi antichi amici della nobiltà: alcuni lo giudicano un uomo a dirittura infame.... La principessa mena vita da sovrana: si sa che il suo patrimonio è rovinato: è facile indovinare donde attinga i mezzi per condur quella vita.... Si tratta di splendidezze inarrivabili....

Roberto non potea starsi dal far un confronto tra le sorti, sì differenti, toccate a lui e ad Enrica; dal paragonare alle splendidezze in cui essa viveva, le squallide mura, il duro letticello della sua prigione, ov’era ormai rassegnato a trascorrer tutta la vita.

– Ed Enrica ha avuto figli? – chiese Roberto, movendo tale domanda per semplice curiosità.

L’altro, che ogni tanto si accostava alle labbra il suo liquore prediletto, non rilevò la familiarità con cui Roberto avea pronunziato il nome della principessa. E, tutto acceso in volto, gli occhi lustri, continuò:

– Se ha avuto.... figli?…

Poi rimase a mezz’aria, come se il resto della frase gli facesse groppo alla gola e non gli volesse ad ogni costo uscir fuori.

– Perchè cotesto mistero?… – domandò Roberto un po’ imbarazzato.

– Oh, un mistero, sì, un segreto: ma un segreto, che si confidi a me, non mi sfugge e non mi sfuggirà mai!

– Non t’intendo, – proseguì Roberto che si faceva sempre più attento.

Egli sapeva che Domenico era stato licenziato dal servizio del duca, da molti anni; qual poteva essere il segreto a lui confidato?

Una viva inquietudine s’impadronì di lui, gli entrò in cuore uno strano presentimento.

– Basta: io ti lascio! – disse Domenico, – mi sento cascare dal sonno: e ho da far visita ancora ad altri due prigionieri....

– No, no, beviamo insieme un po’ di questa bottiglia, prima che tu mi lasci.

E Roberto, affannato da un pensiero, sebbene in vista ilare e distratto, toccava una bottiglia, sin allora rimasta in disparte.

– Beviamo pure! – rispose Domenico.

E i due amici propinarono.

Roberto però avea gittato soltanto una goccia del liquore nel suo bicchiere.

– Oh, davvero, – ripigliò Domenico, mentre Roberto si torturava per cercar con quale astuto espediente l’avrebbe potuto indurre a scioglier di nuovo la sua parlantina. – S’io volessi, potrei ora, con un mio segreto, compromettere una gran signora....

Non si rammentava più d’aver pronunziato il nome di Enrica.

– Potrei far minaccia, ricavar danaro.... ma.... sono stato sempre onesto, onesto.... e quest’uomo sarà sempre onesto – proseguì, con la persistenza degli ubriachi, battendosi le palme aperte sul petto.

– Sì, tu fosti sempre la perla dei galantuomini, Domenico; sei il vero tipo del popolano meridionale: buono, gaio, servizievole, espansivo.... sebbene con me oggi tu abbia voluto dimostrare una diffidenza, che mi ha offeso.... Ti ho sempre stimato molto; e mi sono assicurato, nel tempo in cui vivevamo insieme, che coloro stessi, i quali t’accusavano d’intemperanza, d’essere un po’ focoso, erano invidiosi, che non vedean di buon occhio il tuo disinteresse, la tua onestà, la tua capacità a fare, e bene, tutto ciò che volevi.

Il vanaglorioso andava in solluchero: Roberto l’aveva proprio toccato dove gli doleva.

– Hai ragione.... sono stato diffidente, e a torto.... Ma si tratta di un segreto, che avevo giurato a Cristina di non rivelare: e di cui non ho fatto motto a persona viva.... Con te perchè dovrei riguardarmi?… Pur troppo, rimarrai sempre chiuso in questa prigione: e il segreto, che io ti posso rivelare, morirà qui con te.... Nella tua condizione, lo capisco, tutto eccita la curiosità.... il non soddisfarla è spesso un tormento: e non voglio io aver aggiunto un tormento alle tante tue sofferenze....

– Dunque, la principessa ha avuto figli?…

– Sì, una figlia.... sedici anni fa!

– Che dici? – esclamò Roberto, stringendo convulsivamente un braccio a Domenico.

Egli ebbe paura, e fu per gridare.

Ma Roberto si rimise subito: e Domenico, imbroncito, senza proferir sillaba, si dette a raccoglier le bottiglie, i bicchieri nel suo paniere, risoluto a partire.

– Te ne supplico, – continuò Roberto, inginocchiandosi dinanzi a lui. – Tu vedi ch’io soffro; non mi lasciare così!

Roberto era pallidissimo; grosse goccie di sudore gli cadeano dalle tempie; le sue labbra, divenute sbiancate, tremavano in una contrazione, suscitata da vivo spasimo.

L’altro, ubriaco, s’inteneriva; e, vanarello com’era, s’inorgogliva di vedersi supplicato.

E poi credeva Roberto fosse l’unico essere, a cui egli potesse dir tutto, senza alcuna conseguenza.

– Sedici anni or sono – egli disse, alzando Roberto fra le sue braccia e spingendolo di nuovo verso il letto ov’egli si era subito appoggiato – proprio il giorno in cui si dovea festeggiare il ritorno del duca di Mondrone, Cristina mi disse.... Io adoravo Cristina.... Mi aveva concesso i suoi favori.... e non era donna facile....

Nella sua ansietà, Roberto non potè trattenere un impercettibile sorriso.

– Tu devi rendermi stasera un grande servizio.... ecco ciò che Cristina mi disse.... dovrai prendere una creaturina, nata da due giorni, e condurla in una casetta di montagna, ch’io t’indicherò.... Là troverai gente pronta a riceverla, appena avran letto una mia lettera: e vi avrà tutta l’assistenza.... Ma, bada, è un gran segreto: il segreto di una povera donna....

Quanto al segreto, ero sicuro di custodirlo! Ma quanto al resto.... Che povera donna! Non ci credeva davvero!… Una povera donna non ha i mezzi di ravviluppare un bambino in tele finissimo, in drappi di seta. Non può mandare un sacchetto di ducati alle persone, che raccolgono la creatura.... Indovinai subito di che si trattava.... La duchessina.... E, in quei giorni, era accasciata, malatissima; si alzò soltanto per poche ore, il giorno in cui tornò suo padre; poi si richiudeva nelle sue stanze!

Di tratto in tratto, un ruggito uscia dal petto di Roberto.

– Non so come si trovasse sì lontano nel parco il giorno in cui tu fosti arrestato....

– Ah.... ah! – disse Roberto in tuono spaventevole.

Credeva che Enrica lo avesse vilipeso, ingannato, tradito, con perfidia, che sembrava superar le forze di una fanciulla: non si sarebbe mai indotto a credere che gli restasse ad apprendere di peggio: un inganno maggiore di tutti: e pure ne aveva la prova.

Ora sì che si pentiva della promessa fatta all’ingegnere Amoretti di lasciarlo fuggire. Non ne aveva egli lo stesso diritto? Non era anch’egli un padre, che non sapea quel che fosse della sua unica creatura? E un padre, più infelice dell’altro, poichè non avea mai conosciuto questa creatura, che gli era stata rubata?

Ora sì che il desiderio di vendetta riavvampava in lui: ora sì che il suo animo era spinto verso l’idea della fuga da due sentimenti gagliardissimi: odio e amore.

– Domenico, raccontami, per pietà, ciò che facesti.... Non so, da anni ed anni, non ho udito cosa che attirasse tanto il mio cuore. Non ti meravigliare della mia curiosità....

– La sera io partii in una carrozza, mentre nel parco andava innanzi la festa. Io guidavo.... Entro la carrozza era, in una specie di culla, accomodata la bambina....

– Era una bambina? – domandò Roberto, con accento di tenerezza ineffabile.

– Debbo dire che Cristina mi aveva raccomandato di non fermarmi ad osterie.... Mi fermai ad alcune osterie: ciò non potea far alcun male alla bambina. La carrozza era ben chiusa.... Quando la riaprii, per veder come stesse, la trovai morta!

– Oh, tu sia ringraziato! – esclamò Roberto, gettando le braccia al collo di Domenico.

– Ringraziato di che? – pensò Domenico. – È costui pazzo? Mi ringrazia perchè gli dico che è morta una bambina?

– E tu, naturalmente, raccontasti a Cristina che la bambina era morta? – domandò lentamente Roberto.

– Sicuro! – riprese l’altro senza esitare.

E, ripreso in mano il suo paniere:

– Fra due o tre giorni – disse – tornerò a farvi visita.... Il regolamento non permette l’acquavite ai prigionieri, se non due volte la settimana e in certa misura.... Voi, – soggiuse ridendo, e guardava le bottiglie, – oggi l’avete sorpassata!

– Addio, buon Domenico! – rispose Roberto, sorridendo forzatamente. E, rimasto solo nella stanza, si dette a saltare, a batter le mani, a divincolarsi come un ossesso. Dacchè era al mondo, non avea mai provato simile gioia. Sapeva di aver una figlia, sapeva ove essa era, chi gliel’aveva rubata: ne sapeva ben più di Cristina, di Domenico, della principessa.

Il lettore rammenterà che un uomo stava nascosto tra le rovine del casolare ove Marco Alboni, altrimenti detto Jacopo Scovatto, si era fermato a parlare col marchese di Trapani del ratto d’una bambina.

 

Quell’uomo, rannicchiato fra le rovine, era Roberto Jannacone!

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