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La principessa romanzo

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IV

Da lungo tempo, il lettore non vede in scena l’eroe del nostro racconto: Roberto Jannacone.

Chiuso nel carcere di *** in Calabria, a poco a poco egli si assuefece a quella solitudine.

Sapea che atti impetuosi sarebbero tornati vani: una condotta savia, regolare gli avrebbe conciliati gli animi: potea render men dura la sua prigionia.

Soprintendente del carcere era un uomo ruvido e buono: Filippo Cardella, nato a Ischia. Egli era stato marinaro come Roberto: ma a causa d’una ferita assai grave, riportata alla gamba destra, in una manovra durante una burrasca, avea dovuto lasciar il servizio.

Filippo, salvo che zoppicava un po’ dalla gamba, la cui ferita spesso gl’iterava il martoro, si conservava robusto e sapea farsi rispettare da chi si sia.

Per due o tre anni, Roberto restò nella sua prigione in un silenzio quasi assoluto. Egli stesso, per mesi, non udì il suono della sua voce.

Una sola idea ormai l’agitava: fuggire: ritrovarsi con la donna che l’avea sì vilmente, sì atrocemente tradito: vendicarsi in modo proporzionato all’ingiuria.

Che cosa era accaduto di lei? Avrebbe ella osato contrarre un nuovo matrimonio?

E immaginava di trovarsi libero, di scuoprir il domicilio di lei, rapirla a forza, e recatasela in luogo sicuro, sottoporla poi alle torture che egli, uomo sì mite, le andava preparando nella sua mente.

Accettava nella prigione volentieri ogni lavoro che gli era commesso: e, a poco a poco, vedendone l’indole tranquilla, il carceriere lo aveva unito a sè in certi umili servizi.

Dopo tre anni dacchè Roberto era nella prigione, venne a morire un vecchio settantenne, che avea passato circa quarant’anni in quello speco. Egli avea commesso un delitto orribile; giovane, ingolfato nei vizi, si era di notte recato alla casa di una sua zia, quasi ottuagenaria, che viveva sola, per sordidezza e per diffidenza che in altri destasse cupidigia il denaro da lei accumulato, e che tenea in calze sotto il letto in sacchi, in buche fatte studiosamente nel pavimento.... Il giovane si era fatto aprire la porta e avea ucciso la vecchia, dandole ripetuti colpi sul cranio con una leva di ferro.... Il delitto esecrando avea sollevato nel pubblico un orrore indescrivibile. Il giovane frequentava l’università, ed era per laurearsi: i professori lo avean sempre lodato come molto sveglio d’ingegno: avea scritto versi, novelle: sapea far benissimo distici latini, anche all’improvviso: era dissipato, ma colto, si credea capace di sentimenti gentili. Quel delitto stupì addirittura.

Nel carcere si condusse a meraviglia. Tutti ne erano contenti. O fosse il pentimento, o che realmente la sua indole buona fosse stata soverchiata in un periodo d’irresistibile frenesia, egli non cadde mai nel più piccolo trascorso: nè con parole, nè con atti mancò, sia pur lievemente, alla disciplina.

Dopo alcuni anni di prigionia, era stato chiamato dal soprintendente nel suo ufficio per tener la scrittura e per trentacinque anni ogni mattina, senza aver mancato una volta sola, poichè la sua salute si mantenne sempre floridissima, si recò in quella stanza, al far del giorno, e vi durava nel lavoro sino a ora inoltrata della notte; dolce, affabile, senza alcun rammarico; quasi non avesse avuto coscienza di un tenore di vita migliore di quella; e ogni impressione del passato fosse in lui spenta.

Una mattina indugiò dieci minuti a recarsi al suo lavoro. Ciò parve enorme. Si mandò per lui: era steso, immobile nel letto. Era morto nel sonno. La fisonomia placida, veneranda, le mani conserte sul petto, lo avresti detto un santo, piuttosto che un vecchio assassino.

Il giorno stesso della morte di lui fu chiamato a sostituirlo, nella stanza del soprintendente, Roberto.

Dopo tre anni, egli respirava; con quella prova di fiducia, acquistava una libertà relativa: ad ogni modo, assai maggiore di quella che avea potuto aver sin allora.

Fermo nel pensiero di tentar ad ogni costo una fuga, egli sperava aver miglior agio di esaminar bene l’edificio in cui era rinchiuso; farsi capace di tutte le difficoltà, che si opponevano al suo disegno. Ma più che esaminava, più che potea vedere, più queste difficoltà gli apparivano immense, e forse insormontabili.

Ad ogni modo, la fuga dovea esser preparata da molti anni di lavoro, di osservazione.

Di questo si persuase Roberto, senza scorarsi: ciò che a lui stava nell’animo era di arrivar al suo scopo, quello di vedere Enrica, prima di morire.

Si hanno molti esempii della tenacia che prendono certe idee nella mente di un prigioniero.

Trascorsero gli anni monotoni: a ogni suo nuovo tentativo di osservazione, Roberto vedea nuovi ostacoli. Per tutto mura altissime, porte di ferro, raddoppiate da grossi cancelli, e per tutto a ogni porta, a ogni scala, quasi sotto ogni finestra, sentinelle.

La fuga non era da tentarsi, se non di notte, e Roberto avea un giorno avuto in mano il ruolo delle sentinelle, che la notte circondavano l’edificio: avea veduto su la pianta, annessa, come eran disposte: – una sentinella, a ogni quindici passi.

Come tentare una fuga?

E pure, egli si diceva, deve esser possibile, e sarà.

Gli avevano impedito qualsiasi corrispondenza: un arbitrio, che i nemici di Roberto avean saputo giustificare. Da anni, egli non avea più notizia neppure del suo vecchio padre.

Eravi nel mezzo all’edificio della prigione uno stupendo cortile, di architettura antichissima: e spesso, di sera, in estate vi si raccoglieva la famigliuola del soprintendente: cioè la moglie di lui, e due bambini.

Da un lato del cortile, sotto un bell’arco, con la fronte ricoperta di marmi, v’era un pozzo, stretto, ma di una straordinaria profondità.

Non se ne adoperavano le acque perchè, fatto o leggenda che fosse, anni prima vi s’era gettato un prigioniero e riusciva vano ogni sforzo per ripescarlo.

Si diceva, e vi credevano tutti, che il cadavere si fosse lì decomposto.

Vi era sovra il pozzo una gran carrucola e intorno ad essa scorreva una fune, all’un de’ capi della quale era legata una grossa pietra, che serviva di sonda: e la gettavan nel pozzo per misurarne la profondità e sostenevano che, fosse pur lunga la fune, non si poteva trovare: che, calata la pietra alcuni metri nell’acqua, era respinta in su (si diceva) chi sa da qual forza: e, a proposito di quel pozzo, si spargevano terrori, superstizioni, che si radicavano sempre più tra i prigionieri e i loro custodi. Roberto, affacciatosi un giorno a questo pozzo, si era accorto come a un certo punto, si apriva in esso uno spiraglio, che mandava alcuni bagliori di luce.

Donde quella misteriosa luce veniva?

Roberto pensò che forse lo spiraglio dava in una grotta, verso i campi, sull’aperta campagna; o immettesse in una di quelle capricciose anfrattuosità, specie di corridoi, che si trovan talvolta ai piedi di certi monti.

Non ebbe più requie. Poteva esser quella la via della sua salvezza.

Un giorno d’estate, mentre tutti dormivano, salvo le guardie poste a’ lor luoghi, e non era probabile che altri passasse dal cortile, egli preparato, come se dovesse fuggire, si avvicinò al pozzo, tutto palpitante.

Scavalcò l’orlo: guardò con la sua vista acuta, dopo che si fu un po’ calato, per abituarsi all’oscurità, e vide che le mura del pozzo eran tutte a bozze, e quasi a scaglioni, a qualche braccio dall’orlo.

Avea preso in mano l’estremità della fune, dal lato opposto a quello ove era legata la pietra e scese giù, con molta cautela, tenendosi sempre alle mura.

Arrivò, a, poco, a poco, e assai facilmente, allo spiraglio di luce, che avea scorto le tante volte, dall’orlo. La luce veniva da una buca, che dall’alto parea uno spiraglio ma larga a segno che Roberto capì di potervi passare.

In fatti, v’entrò: e vide subito di là da essa una grande estensione di macerie.

Andò carponi per uno stretto, lungo corridore e arrivò finalmente ad una inferriata, formata da quattro file di grossissime sbarre.

Roberto vi si arrampicò: da’ piccoli interstizii, che esse lasciavano, si scorgea il verde della campagna.

Ma subito Roberto udì il passo cadenzato di una sentinella: la sentinella, anzi, si fermò dinanzi alla inferriata e mise a terra il fucile.

Di lì a poco sopravvenne un’altra sentinella. E, per un pezzo, Roberto stette in ascolto: e si convinse che due sentinelle andavano e venivano l’una da un lato, l’altra dall’altro lato della inferriata, facendo una ventina di passi in distanza e poi tornando sul loro cammino.

Tentare una fuga da quella parte era, dunque, impossibile.

Roberto risalì il pozzo, lentamente, ma ormai ne conosceva tutte le anfrattuosità, le buche, le pietre in rilievo sulle quali si poteva mettere il piede con sicurezza.

E tornò subito al suo ufficio, temendo qualcuno cercasse di lui.

La sua gita sotterranea era durata ben due ore.

Da secoli, nessuno era entrato in quel pozzo: ed egli era forse il primo che avesse avuto il coraggio di calarvisi, coraggio che rendevano in lui più ammirevole le tante leggende e superstizioni, di cui avea rintronate le orecchie, dacchè era nella prigione.

Se i suoi compagni di cattività avesser saputo del suo ardire, egli sarebbe per essi diventato oggetto di stupore.

E vedremo quanto i pregiudizi circa quel pozzo fossero radicati: – come il nostro eroe dovea ritrar giovamento dalla misteriosa sua visita.

A forza di una continua, ansiosa osservazione su tutte le probabilità d’uscita, che offria l’edificio ad un prigioniero, sottoposto alla più dura vigilanza, ebbe a persuadersi che un solo modo gli rimaneva a effettuare una fuga: quello di limare, a poco a poco, l’inferriata della sua prigione: e procurarsi una lunga scala di corda.

Ciò era facile a pensare: ma il solo procacciarsi gli oggetti necessari a tentare la fuga, sentiva esser impresa superiore alle sue forze.

 

Non volle però disperare: aspettar per anni non lo spaventava: avea imparato la rassegnazione, e lo tenea vivo la speranza di tornare nel mondo a vendicarsi di chi l’avea offeso sì amaramente.

Passarono alcuni mesi.

Una sera, il soprintendente e la sua famiglia erano nel cortile della prigione; vi si trovavano pure alcuni prigionieri, occupati in certi servizi, e vari impiegati.

A un tratto fu udito un grido straziantissimo: la moglie del soprintendente si slanciava verso il pozzo, e dopo il suo grido di spavento, si mise a urlare:

– Salvatelo! salvatelo!

Tutti le furono appresso: poi si guardarono attorno: e si accorsero che era scomparso il bambino del soprintendente.

Pochi momenti prima, tutti l’aveano veduto baloccarsi intorno al pozzo: la madre lo avea leggermente sgridato.

– Chi lo salva? chi lo salva? – -domandò il padre atterrito.

La ferita della gamba gl’impediva di tentar egli l’ardua discesa.

Nessuno si mosse: eran tutti impietriti dallo spavento, sgomenti per la paura, che davan loro le malnate superstizioni.

Immaginavano alcuni, e si leggeva ne’ loro sguardi, e il concetto si era così comunicato ad altri, che il bambino non fosse caduto, ma una potenza malefica e formidabile, nascosta in quel pozzo, l’avesse attirato a sè.

Tutti stavano muti, impensieriti; alcuni si rimanevano dall’accostarsi al pozzo più che tanto, sconvolti da’ loro strani timori.

La madre, spenzolandosi all’orlo, guardando quella cupa voragine, tutta sonante dell’eco della caduta, chiamava con voce, dimezzata dal pianto, il figliuolo.

Ciò accadeva nello spazio di pochi secondi.

Roberto si trovava in una stanza attigua al cortile, e sorvegliata da un secondino, stanza ove si custodivano varii attrezzi.

Egli udì tutto. Uscì fuori, tenendo in mano una torcia accesa, si fece largo tra’ compagni, gl’impiegati, e, in un attimo, si calò nel pozzo. Guardò bene verso il fondo: poi dette la torcia al soprintendente, dicendogli come dovea tenerla appoggiata all’orlo.

Egli scese pian piano; nessuno si accostava al pozzo, dal soprintendente all’infuori, e aspettavano, tremando, che, da un istante all’altro, Roberto vi perdesse la vita.

A un tratto si staccarono alcune pietre e caddero giù, sbattendo per le pareti con molto fragore, e facendo nell’acqua un gran tonfo.

Roberto gridò disperato: temeva quelle pietre potessero uccidere il bambino.

Credettero, udendo il grido e lo scroscio delle pietre, che Roberto fosse caduto; e si alzarono urla da tutti que’ petti, ripercosse insieme nel vasto edificio come un sinistro ululato.

Alcuni de’ prigionieri fuggirono, cedendo a un solo sentimento: la paura; ma gl’impiegati, benchè quasi non fossero più in condizione di provvedere a checchessia, ebber la forza di ricuperare la coscienza del loro dovere e d’impedire a’ prigionieri d’allontanarsi.

Allora, tornati indietro, si accorsero che Roberto tirava sempre la fune, un’estremità della quale si era legata alla vita.

Il soprintendente e la moglie di lui erano al supremo dell’agonia.

Per essi, ognuna di quelle pietre staccatesi dovea aver ferito il loro figliuoletto, ne dovea aver colpito il gramo corpicello.

– Sciagurato, – pensava il soprintendente, che non avea più fiato da proferir parola, – me l’ha ucciso: e forse il bambino poteva salvarsi....

Mentre s’imprecava a lui, che tentava un’impresa quasi sovrumana, tanti n’erano i pericoli che sarebbero a ogni altro sembrati insuperabili, Roberto continuava la sua discesa.

Scorsero dieci minuti, un quarto d’ora d’aspettativa mortale. Nel pozzo non si udiva più alcun rumore. Il soprintendente ebbe il coraggio di toccar la corda: gli parve fosse lenta: tirò su: essa non resisteva: non v’era più attaccato alcun peso.

Sempre più il terrore occupava gli animi de’ circostanti, lo stesso soprintendente avea il sangue agghiacciato in ogni vena. La moglie di lui era caduta in deliquio da un lato del pozzo, senza che alcuno le badasse, tanto eran tutti sossopra, in preda a un turbamento sempre eguale.

Il soprintendente riuscì alla fine a trovare un filo di voce e si irrise a chiamare, protendendosi innanzi: Trentanove!… Trentanove!…

Con questo numero Roberto era conosciuto nell’ergastolo. Un secondino ripetè lo stesso numero più volte, e a voce più alta.

Non si ebbe alcuna risposta. Roberto era morto.

Convintisi di questo, si allontanarono tutti: il soprintendente si chiuse nei suo appartamento, assistendo la moglie il cui stato pareva grave; ma, a un certo punto, anch’egli fa colto dal delirio.

Le ore passavano: la costernazione s’accresceva in tutti.

Alcuni, risensati, si rimproveravano di non esser discesi insieme con Roberto: di non aver almeno tentato d’aiutarlo: poi si dicevano: che se ciò avesser fatto, forse a quell’ora sarebber cadaveri.

La notte passò per molti fra angoscie.

La prigione fa visitata dai magistrati, che vennero a prender atto delle due morti. Accorsero medici, militari, altri ufficiali. Tutti s’accostavano al pozzo: vi si affacciavano: e se ne allontanavano inorriditi.

Sul far della mattina le due sentinelle, che erano di guardia nel cortile, gettarono il grido d’allarme!

Aveano udito un certo rumore verso l’orlo del pozzo: poi un uomo, che sembrava tenere con un braccio un pesante fardello, avea fatto l’atto di scavalcare.

Le sentinelle avean creduto a uno spettro.

Avean chiamato i loro compagni, per raccapriccio di trovarsi sole.

Ma accorsi tutti, e coi lumi, videro davvero un uomo che scavalcava l’orlo del pozzo e poneva in terra un bambino.

– Il numero Trentanove! – esclamò il graduato, che comandava il picchetto. – Sei tu?

Non era ancora ben persuaso della realtà: e non osava avvicinarsi.

La superstizione, tra quei popoli, era allora fortissima: e non v’era cosa, in fatto di spettri, apparizioni, che non fosse agevole il dar loro ad intendere. E anch’oggi, l’istruzione o lo scetticismo, non hanno ancor potuto spegnere nelle menti questa vaghezza di correr sì di leggieri al soprannaturale.

– Sono io, sono io! – rispose Roberto.

Io breve, accorsero tutti.

Roberto era riguardato come un oggetto di meraviglia; lo palpavano, lo interrogavano per accertarsi che fosse lui: circondavano il fanciullo, che li guardava esterrefatto.

I medici non vollero che il fanciullo fosse subito mostrato a’ genitori. Una gioia sì improvvisa, nello stato d’animo in cui si trovavano, poteva ucciderli.

Quando il soprintendente ebbe ricuperato il figlio, chiamò a sè Roberto nella sua stanza, e gittandosegli al collo, piangendo, gli disse:

– D’ora innanzi, tu avrai in me un amico, anzi un fratello: e un uomo sempre pronto a renderti, magari con ogni suo rischio, il beneficio!

Ecco quello che voleva Roberto.

Nessuno sapea spiegarsi in che modo egli avea potuto rimanere tante ore nel pozzo.

Era questo il suo segreto, nè volea palesarlo.

Cominciarono a riguardarlo come un po’ fattucchiero e negromante: era pur ciò ch’egli voleva e che dovea agevolar la sua fuga. Sentiva quanto doveva approdargli che si supponesse, o si credesse, fosse in lui qualche forza misteriosa.

Protetto ora dalla famiglia del soprintendente, amato e venerato in essa com’egli era, cioè un salvatore; riguardato da tutti gli altri com’un uomo che avesse commercio con potenze occulte, egli esercitava su quanti lo circondavano, nell’ergastolo, un vero dominio.

Chi lo amava: chi lo temeva: tutti lo rispettavano.

Inutile dire che Roberto, volendo appunto ammaliar quella gente col meraviglioso, dopo aver salvato con rara felicità il bambino, era entrato con esso nel sotterraneo, ove già l’abbiamo veduto, e ivi si tratteneva varie ore, cercando ripigliar forze per la salita, e assistendo il suo piccolo compagno, che di ben poca assistenza ebbe bisogno, poichè cadde subito in un profondo letargo.

Roberto godeva ormai la massima libertà, che può esser goduta da un prigioniero.

Andava, veniva per la prigione: alcune sentinelle, anzi, lo salutavano familiarmente.

Il soprintendente s’intratteneva spesso con lui: lo avrebbe voluto far entrare nella sua casa, ma i regolamenti vi si opponevano. La moglie del soprintendente procurava, di soppiatto, a Roberto, cibi delicati, affinchè egli potesse nutrirsi meglio che stando all’ordinario della prigione: gli forniva vino, liquori.

Filippo Cardella, il soprintendente, antico marinaro, siccome abbiam detto, discorreva volentieri con Roberto, sulla professione da lui un tempo esercitata, su le peripezie sofferte, su le avventure, sui paesi veduti. Anche Roberto potea dir molto in tale argomento e non se ne rimaneva; sapeva così di cattivarsi l’animo di quell’uomo; e, benchè molto modesto, egli volle raccontar un giorno al soprintendente gli atti d’eroismo, ch’avea compiuti in occasione del naufragio.

Il Cardella lo ascoltava commosso, e, battendosi la fronte, esclamava, come avea fatto in altre congiunture:

– Non so spiegarmi in che modo voi vi troviate qui.... e per un sì grave delitto.... Debbo confessarvelo?… Invece di temervi, vi rispetto: invece di disprezzarvi, o compatirvi, sento che voi siete uomo di virtù molto superiori alle mie, e di pochi, che passano per onesti nel mondo, mi fiderei come di voi, che siete qui con nome d’assassino.

Roberto provava un po’ di rimorso.

Egli mal corrispondeva a tanta fiducia; così pensava nella sua squisitezza di carattere; poichè cercava, con lo studio che poneva nel preparar la sua fuga, di compromettere un tale amico, di dar alla bontà di lui ben tristo guiderdone.

Ma egli ardeva di riveder Enrica, di domandarle conto della sua perfidia: per gioire di quell’istante tremendo gli sarebbe sembrato un nulla fin la sua vita.

Corsero anni, prima ch’egli potesse possedere gli oggetti necessari al suo scampo: una scala formata di corde, una lima.

Raccoglieva pazientemente per la sua scala tutte le cordicelle, tutti i piccoli stracci che trovava: e lavorava, di notte, nel formarla a pezzo a pezzo; nè gli rincresceva il lavorar cinque o sei mesi a farne pochi centimetri.

La pena maggiore era il tenerla nascosta; or la portava con sè; e avresti udito i battiti del suo cuore: ogni secondino, ogni guardia in cui s’avveniva temea lo frugassero. Ne avea nascosti alcuni pezzi nell’ufficio del soprintendente. Il luogo non potea esser più propizio: chi avrebbe pensato di andar a frugarvi? Ma passava le notti insonni. Gli parea che di certo qualcuno andasse a smuovere il mobile, per imprevista circostanza, e avrebbe voluto poter passare a traverso le mura della sua prigione per impedire che gli fosse tolto il frutto di un sì lungo, penoso lavoro.

La mattina, all’alba, appena gli aprivano la sua prigione correva nella stanza d’ufficio del soprintendente; e toccava le sue funi con la stessa ansietà con cui un avaro avrebbe tocco il suo tesoro, dopo essere stato in tra due d’averlo perduto.

E ancora non era a nulla del suo terribile lavoro.

Come procurarsi una lima?

Spesso il soprintendente gli domandava particolari di ciò che avea potuto fare nelle lunghe ore, durante le quali era rimasto tra le cupe mura del pozzo.

Egli rispondeva sempre, ad arte, di non esser in grado di fornire alcuna spiegazione; avea molto sofferto in quelle ore, specie dopo essersi impadronito del bambino: credeva di esser caduto in deliquio; non sapea per qual forza avesse potuto sostenersi; certo non per forza umana.... Gli era sembrato.... forse, aggiungeva a causa della stanchezza, della eccitazione, udir strani rumori, voci....

Così teneva accese le fantasie di costoro e si preparava la via al suo intento.

Un giorno disse, con molta gravità, al soprintendente:

– Occorrerebbe chiuder quel pozzo: qualcuno potrebbe cadervi di nuovo: non serve a nulla: offre un pericolo continuo.

Il soprintendente disse che era pur quella la sua idea. Fu deliberato chiuderlo con un grosso sportello di ferro. Ma Roberto dava, sempre più, maggior divulgazione alle sue storielle.

Nessuno volle calarsi nel pozzo, anche a mezza vita, per prender certe misure, infiggere certi ferri. Si offrì Roberto; e per due giorni lavorò con febbrile attività e con successo.

S’era fatto come una gabbia di legno e di funi e in quella, che avea raccomandato alle grosse campanelle dell’arco sovrastante al pozzo, lavorava.

Teneva la scatola degli arnesi sull’orlo del pozzo e ogni tanto allungava il braccio per prender ciò che gli occorresse.

Il secondo giorno, mentre rimaneva ormai poco da fare, ed erano presenti il soprintendente e altri impiegati, Roberto si mise a raccontare che vedeva, circa il punto ove cominciava l’acqua del pozzo, uscir dal muro alcune fiammelle, e che parea salissero, andando qua e là, verso di lui.

 

Urtò quindi, come avea disposto, nella scatola degli arnesi, che precipitò nel pozzo con tutto ciò che conteneva.

Roberto saltava fuori, dopo essersi accertato che tutti, non ostante che fossero assai turbati, avean veduto cader la scatola.

La mattina appresso, Roberto, levatosi di buonissima ora, con altri sei prigionieri, ch’egli incuorava, e a’ quali rimaneva garante nulla sarebbe accaduto, accomodarono sul pozzo il pesantissimo copertoio di ferro e fu saldato, alle parti, perchè niuno lo smovesse.

Allora tutti que’ prigionieri parvero più contenti.

La notte Roberto dormì più tranquillo e felice!

Egli avea cavato due buone lime d’acciaio dalla cassetta, innanzi di precipitarla nel pozzo.

Il suo stratagemma era ben riuscito!

Non volle subito mettersi all’opera: volle aspettare la notte appresso: gli pareva aver davvero meritato un po’ di riposo.

E la notte dopo, cominciò il suo lento lavoro: ma ebbe subito a giudicare che, nel silenzio di tal ora, troppo si udisse quel rumore.

Non udiva egli, benchè a grande altezza, il passo delle sentinelle?

Più che vedeva vicino, sicuro, il giorno della sua fuga, più egli si addimostrava rassegnato a rimanere nella prigione, quasi contento della sua sorte, già sì mitigata, e addolcita di molti rigori, per la gratitudine, l’affetto del Cardella.

Questi solea spesso dire:

– Il Trentanove è un santo: ci edifica tutti per la virtù con cui sopporta la sua condizione!

Peccato, osservava un giorno, non si possa ottenere la grazia di lui!

E a Roberto ripeteva sempre:

– Io vi sono tanto e tanto debitore: e vorrei poter offrirvi un compenso del vostro beneficio!

Già ormai tutto era a buon punto per la fuga: e Roberto ringraziava il cielo d’averlo recato sì presso alla meta de’ suoi desiderii.

Dopo sedici anni di prigionia, l’idea di trovarsi libero gli rendea tenui le difficoltà che doveva ancor superare: le ultime e le maggiori: quella di calarsi a salvamento da una sì grande altezza:– quella di passare senza intoppi, potersi allontanare inosservato fra le sentinelle.

Un colpo di fucile potea fermarlo nel momento in cui avrebbe creduto cogliere il frutto di tante, sì lunghe fatiche, sostenute per anni, con tenacia incrollabile, con la fede ardente verso uno scopo.

Il giorno che forse dovea esser per lui l’ultimo ch’egli trascorresse nella prigione pensò:

– Stanotte, allorchè scoccheranno le tre all’orologio del castello, effettuerò la mia fuga!

Si sentì un empito di affetti verso la gente che gli era stata sì benevola, nella sua prigionia: quel giorno volle accarezzare di più il bambino del soprintendente, ch’egli avea salvato, e, nel baciargli i biondi capelli inanellati, gli spuntava dagli occhi una lacrima.

Baciò la mano alla moglie del soprintendente, rammentando quanto era stata buona con lui.

– Mi auguro, – essa gli rispose, – che mio marito sia sempre lasciato qui, affinchè possiamo continuare ad esservi utili!

Fra i terrori provati da Roberto nel corso di vari anni, e che aveano sì scosso la sua fibra, uno dei più pungenti era stato quello che il Cardella fosse traslocato, e venisse un altro soprintendente, che gli toglierebbe i piccoli privilegi di cui godeva.

In tal guisa la sua fuga, preparata da anni, diverrebbe impossibile.

Gli era duro il pensare che tanto lavoro potesse andar perduto.

Tenne quel giorno un lungo discorso con il soprintendente: l’uno e l’altro non erano mai stati più espansivi.

Poi Roberto, sul tardi, si ritirò nella sua prigione.

Il cielo si era rannuvolato: si udiva fragoreggiar il tuono in lontananza: e il vento avea cominciato a fiottare impetuosissimo.

– Ecco la notte propizia per la mia fuga, – pensava Roberto. – Caderà certo la pioggia: le sentinelle si raccoglieranno nelle loro guerite: e potrò discendere, allontanarmi più facilmente, senz’essere scorto....

Tra i boati del vento e del tuono, salì alla finestra, per dar con le lime il colpo maestro: l’ultimo colpo di cui niuno avrebbe udito in quel momento il rumore....

Ma, mentre era tutto intento all’opera, sentì che qualcuno raschiava la parete della prigione a destra.

Interruppe il lavoro: si pose in ascolto: ogni suono era cessato. Credette ad una illusione. Intanto, egli era disceso. Il rumorio ricominciò, lento, lento, sordo, si avvicinava sempre. Egli, carponi, aveva accostato un orecchio alla parete. E ormai sentiva fino il grave ansare d’un uomo, oppresso da un’immensa fatica.

Si alzò, esterrefatto, gli era sembrato che un punto della parete si smovesse. Caddero alcune pietre, e dall’apertura, ch’esse lasciavano, si affacciò una testa calva, sparuta, si alzò una mano scarna.

– Non mi denunziate! – disse subito, con piglio di spavento, fissando i grandi occhi su Roberto, l’uomo comparso sì all’improvviso.

– Fratello! – rispose Roberto, con l’usata sua dolcezza, – sono anch’io un prigioniero come voi....

– Non più infelice di me! – riprese l’altro, cui appena restava un filo di voce.

E, strisciando sul pavimento, entrò affannoso nella prigione di Roberto.

Egli lo raccolse: lo aiutò a sedersi sul letto. Si accorse di avere dinanzi a sè un uomo esausto, febbricitante.

– Ah, – egli disse, appena ebbe ripreso un po’ di fiato, – non ho fortuna io! – E le lacrime rigavano le sue guancie smunte, rugose, anzi tempo. – La mia prigione è distante dalla vostra per quasi un centinaio di passi.... Nelle passeggiate, che un tempo mi eran concesse, avevo osservato che attiguo alla mia prigione era un terrapieno: e a’ piè di esso un fosso largo, profondo: di là dal fosso rocce, alberi.... Già avrete veduto voi pure que’ terreni.

Si tacque: la disperazione gli toglieva ogni forza; scoppiò in un pianto dirotto: un pianto da fanciullo.

– Ho lavorato undici anni per far questo scavo: ho passato intere notti sotto la terra, fra miasmi d’ogni maniera.... Vedete come sono ridotto.... io che era uno degli uomini più robusti.... Per cinque o sei anni, mi portavo addosso, quando andavo alla passeggiata, una certa quantità di terra, e la seminavo qua e là: la gettavo, a poco a poco, dalle finestre ne’ giorni in cui soffiava il vento: ne ho buttata molta fra le immondizie, nel cantuccio più orrido della prigione....

Quante volte sono risalito nella mia stanzaccia, e mi sono posto a letto con la febbre e quasi con la certezza di non svegliarmi più il giorno appresso.... E, dopo tanti stenti, tanti atroci dolori, tanti palpiti, nel momento in cui credevo toccare la meta, mi trovo in un’altra prigione..... Ah, il mio figliuolo.... il mio povero figliuolo!…

Avea un gran coltello in mano.

– Tale quale voi mi vedete, se una fuga mi fosse possibile, sentirei l’energia di lottare, a mano armata con due, tre sentinelle, e di ucciderle!

Roberto, guardandolo, sospirava.

Andò a vedere il pertugio pel quale era entrato lo sconosciuto; perchè egli non sapea ancora chi fosse.

E chi potea essere quel misterioso personaggio?

Le tre pietre, che eran cadute, parean non divelte, ma tagliate con un’abile incisione.

– È il mio segreto di lavorare.... In tal guisa, per tanti anni, ho potuto tener occulto ciò che facevo. Quelle pietre possono esser rimesse al posto, senza che niuno si avvegga che sono state smosse, – disse lo sconosciuto, che avea sorpreso un’occhiata di Roberto.

– Tornate alla vostra prigione, – disse Roberto, dopo breve riflessione. – Più tardi, dopo la cena, ci rivedremo… Di notte non si fanno visite da questo lato del castello.... voi apparite loro tanto malato, che non vi suppongono capace di tentar una fuga: in me hanno piena fiducia e....

A un tratto Roberto s’interruppe. Gli cadde in animo d’aver detto troppo. Se costui fosse una spia?

Ma lo scrutò; nel suo volto si leggeva ben altro che la perfidia, o qualsiasi sentimento insidioso.

– Andate! andate! – e richiudeva ermeticamente, dietro al prigioniero, il pertugio.

Quasi subito udì un rumore di passi nel corridoio.

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