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La principessa romanzo

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Da che era uscito di prigione, avea sempre cercato un modo di avvicinarsele: l’avea sempre seguita per tutto, in lontananza.

Non voleva sorprenderla, spaventarla; temeva, sopra tutto, che il primo incontro con esso le riuscisse sgradito.

Il loro incontro, invece, benchè avvenuto in triste congiuntura, era stato tutto soavità. Sembrava fosse stato preparato dalla provvidenza, poichè qual braccio meglio di quello d’un padre avrebbe potuto sostenere una figlia in pericolo?

Roberto avea pur sempre seguitato e vigilato la principessa; ma non avea ardito avvicinarsele, temendo non poter vincere la sua collera.

Volea cominciare da Diana: essa gli avrebbe dato la forza, il coraggio per nuove sofferenze: gli avrebbe trasfuso buone ispirazioni.

Diana si era riconciliata col Venosa, ma, dopo pochi giorni, il loro accordo era di nuovo cessato.

Una mattina Diana, passando per via Toledo, avea veduto ferma la carrozza della principessa, e il Venosa che parlava, sorridente, con lei, appoggiato a una delle portiere.

Egli avea promesso a Diana di sfuggire Enrica; essa lo coglieva in fallo, in brevissimo tempo. La giovinetta fu accorata, tanto più che la principessa, da un pezzo, fingeva non vederla: e incontratasi con lei in varie case, l’avea trattata con palese dispregio, quasi non l’avesse mai conosciuta.

Come poteva il Venosa scherzar in tal modo con una donna che sapeva nemica di lei? E dopo le sue promesse?

Ma Enrica, mutabile, perversa, sapeva che, continuando a tener separati i due giovani, avrebbe cagionato la loro irreparabile infelicità: creatura malefica, sentiva il solito piacere nel distruggere, nel gettar lo sgomento, nel far soffrire intorno a sè.

XVI

Il principe, dopo la partenza di Samuele, s’era dato più volte nella camera della principessa.

Avea frugato ne’ cassetti de’ varii mobili: avea trovato le prove della rovina in cui era il già vistoso patrimonio della moglie: le prove delle sue sciagurate speculazioni, delle enormi sue spese. Da certi contratti, da certe ricevute, da certe lettere, si capiva che ella non possedeva più nulla.

Trovò alcuni biglietti scritti su carta molto greve, con gli orli dorati: contenevano ognuno poche parole sibilline: un linguaggio di convenzione; intelligibile soltanto a chi li scriveva e a chi doveva leggerli. Riconobbe il carattere del Re. Così avea le prove della povertà della principessa e del suo disonore; nè bastava: le sue atroci torture non erano ancora al loro fine.

Gli venne in mano una lettera, scritta grossolanamente, sperduta fra tante carte. Era una lettera di Cristina. Eranvi allusioni, un po’ velate, ma facili a intendersi, alla maternità di Enrica: a un uomo, che avea su lei diritti....

Il principe, che avea trovato a caso una chiave, lasciata da Enrica, nella fretta, entro il cassettino di uno stipo, si doleva ora d’avere spinto sì oltre le sue ricerche.

– Come – pensava – questa donna ha potuto accumular tante infamie?… Ero ben più felice quando io ignorava tutto.... Non avrei creduto ciò mai possibile....

La lettera di Cristina non era firmata. A chi ricorrere per aver la spiegazione di un mistero, che già tanto l’affannava?

Ebbe orrore di cercar più oltre.

Forse ciò che gli rimaneva a sapere era ancora più terribile.

La sua testa non vi reggeva più. Chiuse in furia i cassetti e tornò nella sua camera.

A ora inoltrata nella notte, il principe sentì che sua moglie tornava a casa.

Udì il rumore della carrozza, le porte sbattute, gii ordini ch’ella impartiva ai servi ad alta voce.

Egli ascoltò un poco: poi rimase di nuovo assorto ne’ suoi pensieri, tristissimi, tormentosi pensieri.

Qual sarebbe stata la sua condotta per l’avvenire? Com’egli avrebbe trattato la moglie? In che modo l’avrebbe castigata? Quando lo avrebbe parlato di ciò ch’era riuscito a scuoprire?

Il principe sì leggero, sì lieto per natura, di umore sì vivace, rifletteva alla parte di giudice che gli spettava, con una calma, una serietà, una pacatezza, una misura indescrivibili.

Le sue risoluzioni erano spaventose.

Enrica si facea servire da cena: mangiava con l’appetito robusto, che è noto al lettore, e che forse egli le invidia; si lasciava versare spesso un vecchio Allmanshauser e un altro vino: essa era grave, come sempre, quando sedeva alla sua tavola.

Mangiava sola, di frequente; cioè non era mai sola, il suo appetito le teneva buona compagnia. Domandò del principe; seppe che era nelle sue stanze; non ebbe alcun desiderio di farlo chiamare.

– Il principe non è uscito stasera, – le disse uno de’ servitori, che vegliavano su la sua cena, – non ha pranzato, benchè sia tornato di buon’ora....

Ciò indicava che il marito di lei si dovea sentire assai male, aver qualche disturbo; ma Enrica non avea prestato molta attenzione a quelle parole, si era distratta in altri pensieri.

La mattina dopo, essa ricevette Cristina.

Cristina venne a ripeterle il caso occorso a Diana: ciò che, insomma, avea già saputo in casa della duchessa; vi aggiungeva, vero o no, un particolare che per Enrica avea il massimo peso: le raccontava che erano state vedute dinanzi alla porta del palazzo del marchese le livree di Corte.

Il Re avea, dunque, mandato a sentir le notizie della ragazza; e con molta pompa. Potea ella patire uno sfregio maggiore?

Cristina non sapea quel che faceva: ma attizzava Enrica all’odio contro Diana.

Essa, come il Weill-Myot, era il cattivo genio di quella donna voluttuosa, collerica, in tutto eccessiva; e si appagava di consigliarla sempre al peggio; come il Weill-Myot anch’essa aspettava di assistere ormai fra poco ad una catastrofe.

La principessa arse di sdegno alle parole di Cristina.

– Bisogna – ella disse – trovar modo di perdere quella ragazza… un tranello....

I suoi occhi schizzavano fuoco, le labbra le schiumavano, era livida, come Cristina l’avea già veduta, quando preparava le insidie che dovean condur Roberto alla rovina.

– Trattatela come trattaste Roberto, per esempio! – continuava l’antica serva di Enrica, insinuando il suo veleno viperino. – Voi siete abituata a distruggere chi v’è d’ostacolo....

– Oh, se l’avessi qui… – mormorò Enrica, e digrignava i denti.

– E che le fareste?

– Vorrei soffocarla con le mie mani!… E dire che io l’ho curata in queste stanze, che essa un giorno vi fu presa da un male passeggero, dire che cotesta ragazza fingea di adorarmi.... Perversa… scellerata… corrottissima creatura! E dire che io pure le ho voluto bene: ma ora… ti assicuro… tutto è finito… non più… non più… essa, non ha nemica peggiore di me....

– Anche a Roberto gli avevate voluto molto bene… – aggiunse la megera.

– Oh, sul conto suo, respiro.... Mi ha sbarazzato di sè… quel mostro. Pensava di certo a vendicarsi: avea tentato fuggire dalla prigione… fu ucciso dallo sentinelle… lo sai.

– Mi ha rammentato la sua storia, – riprese Cristina sul cui volto avresti letto l’espressione sinistra d’un maligno, infernale trionfo, – un prigioniero che è stato suo compagno, o che mi ha fatto diverse visite… l’ingegnere Amoretti....

La principessa rabbrividì.

– Come hai detto?…

– Ingegnere Amoretti....

– Ho udito pronunziar questo nome.... Ah, è l’uomo che ha salvato ieri Diana a Chiaia.... Tu lo conosci?

– Sì, ed egli desidera di parlarvi… È stato molti anni vicino alla cella di Roberto… È un artista; fu condannato come sospetto in una congiura....

– Vuol parlarmi?..

Cristina era presso a una delle finestre del salotto.

– Ecco, guardate che combinazione.... L’ingegnere passa ora di qui....

La principessa si avvicinò alla finestra. Scorse un uomo che guardava in alto.

– Lo vedo sempre costui, – disse tra sè, – si direbbe che voglia spiarmi!…

Intanto l’ingegnere Amoretti si allontanava.

– È un brav’uomo, – rispose Cristina, che ponderava ogni sua frase. – Ha un vivissimo desiderio di parlarvi.... Ma non ha mai osato presentarsi a voi.... Egli si trovava nella prigione la sera in cui… l’altro fu ucciso.

– Bisogna che gli parli! – disse Enrica.

Cristina, che voleva condurla proprio a tal punto, le suggeriva:

– Potreste incontrarlo in casa mia....

E così rimaser d’accordo.

L’ingegnere Amoretti era tornato la sera innanzi al letto di Diana: essa stava meglio, e mostrò molta contentezza nel rivederlo.

La signora Teodora li lasciò soli: riceveva in quella sera due signore sue amiche, della stessa sua età, che seguivano lo stesso tenore di vita. Venivano da lei in quella sera per una combinazione fortunata: almeno essa la credeva tale.

La signora Teodora fu lieta dell’arrivo dell’ingegnere Amoretti. Essa poteva dedicarsi tutta alle sue amiche.

– Vi lasciano sola? – domandò l’Amoretti a Diana, e i suoi sguardi di fuoco le ricercavano il profondo dell’animo.

– Mio padre è stato qui… pochi momenti… ha dovuto poi uscir subito.... Alcuni signori e signore, venuti qui per veder il nostro paese, e a cui egli fa da due giorni gli onori di Napoli, l’hanno oggi invitato a pranzo....

– Ma egli non può esser vostro padre, – affermò l’Amoretti con tuono di voce molto severo.

– Che dite? – esclamò Diana.

– Un padre sarebbe accanto alla figlia che soffre.... non potrebbe staccarsene, come faccio io.... Egli è stato qui soltanto pochi minuti....

– Mio padre avrebbe voluto vedervi per ringraziarvi....

– È una fortuna per lui e per me, che non ci siamo veduti… Cara, – e l’Amoretti baciava le mani di Diana, e la sua voce era divenuta la più soave e la più affettuosa, – già che Dio ha voluto che potessimo aver soli un colloquio non breve.... profittiamone.... Lascia ch’io ti parli con espansione: ti parli con la familiarità gentile, con cui s’indirizzano l’uno all’altro coloro che si amano, che sentono forti i vincoli del sangue, e hanno comune la tenerezza degli affetti.... Dimmi, ami tu davvero come un padre il marchese? S’egli ti pone la mano su la fronte, se ti carezza, se ti consiglia, se ti circonda di premure, senti tu quella consolazione ineffabile, quel conforto supremo, quella felicità, che i figli buoni provano sempre nell’affezione di coloro da cui ebber la vita?… Ti ha mai parlato il marchese di tua madre?.... Ti ha mai bagnato la fronte delle sue lacrime?

 

Due grosse lacrime rigavano le guancie dell’ingegnere Amoretti.

– Chi siete voi? – domandò Diana, che non potea torcere i suoi sguardi da quelli di Roberto. – Nessuno mi ha mai parlato in tal modo.... Non ho mai sentito dinanzi a mio padre ciò ch’io sento innanzi a voi.... La vostra voce mi scende al cuore; mi sembra ch’io abbia trovato quello che ho cercato, desiderato sempre indarno nella mia vita: un vero padre....

Roberto le stringeva una mano e l’accostava di tratto in tratto alla sua fronte.

– Ma ti ho detto che il marchese non è tuo padre....

Diana stette un poco pensosa: non sapea se dovea fidarsi in tutto dell’uomo a cui parlava per la prima volta. Egli le aveva, poco innanzi, salvata la vita: le parlava con tanta affezione: la sua fisonomia esprimeva tanta sincerità, tanta bontà, vi si leggeva la traccia di sì grandi sofferenze!

Poi si sentiva attirata da una forza misteriosa verso di lui: le sembrava che fra le loro anime fosse stata un’antica rispondenza, rivelatasi a un tratto.

– Vi dirò.... – essa rispose, piangente, – io stessa ho più volte pensato ch’egli non fosse mio padre. O egli non è mai riuscito a ispirarmi, o io non sono mai riuscita a provar per lui alcuna tenerezza.... Mi rimproveravo, ne’ primi anni, d’essere una figlia ingrata, sleale: mi tormentava un vivo rimorso....

– Era la voce della natura, che non parlava nel tuo cuore, fanciulla.... L’amore di un padre soltanto ti avrebbe potuto svegliare certi sentimenti.... Tu, da piccina, appena venuta al mondo, fosti rubata....

– Che dite?

– La verità; e spero mostrartene i documenti....

– Dunque, io sono senza padre?… Mio padre mi ha abbandonata?

– No; tuo padre è stato chiuso per anni in una prigione.

– Colpevole?

– Ah.... Innocente!…

– Che mai mi raccontate?

– Non credi tu che un uomo buono, amante possa esser sopraffatto da una calunnia? Non sai tu, nella tua inesperienza, che vi sono circostanze nelle quali un uomo può sacrificare anche il suo onore alla sua delicatezza?… Tuo padre ha passato metà della sua vita in prigione, calunniato da una donna.... In prigione egli ha appreso che tu eri nata e caduta nelle mani di esseri perversi.... Ma puoi tu immaginare le lunghe, crudeli torture ch’egli ha sofferto?… Puoi tu pensare che quest’uomo, entrato nella prigione giovane, nel fiore degli anni, n’è uscito con tutti i segni di una grande vecchiezza.... Oh, vi sono patimenti, che logorano le fibre più robuste....

– E la donna che aveva accusato mio padre, è viva?

– Vive, ed egli vuol vendicarsene: solo per amor tuo ha differita la vendetta.

– Ma chi siete voi, che conoscete sì bene mio padre, e ne sapete i più segreti intendimenti?

Grosse e calde lacrime cadevano dagli occhi di Roberto su la mano della figliuola, ch’egli continuava a stringere febbrilmente.

– Hai tu, – egli riprese più pacato, – udito mai raccontare che un uomo, senza colpa, possa essere ingiustamente condannato; anche da giudici in buona fede, e possa soffrire, senza riparo, per anni ed anni, sino a che vive?

– Sì… sì… anzi vi dirò che ho udito parlare d’uno… un giovane… il quale molti credevano innocente e pel quale io stessa m’ero tanto appassionata che avevo promesso di far di tutto affine di scoprire la sua innocenza.... Ma egli è morto… è stato ucciso, mentre tentava fuggire dalla sua prigione.

– E ti rammenti il suo nome?…

– Oh, l’ho tante volte pronunziato.... Roberto....

L’uomo che le stava dinanzi mandò fuori un singhiozzo....

– Jannacone! – essa continuava. – Sventurato! ma qual delitto ha commesso la società, s’egli era davvero innocente?… Parlatemi però di mio padre.... – ordinò la fanciulla con tuono imperioso.... – Lo rivedrò io? quando? In questa casa, vedete, tutto mi fa paura.... è tanto che desidero uscirne.... Credevo acquistare la mia libertà, sposando un giovane che amavo.... Egli mi ha tradito: una donna perfida l’ha sviato da me....

– Questo giovane era il signor Adolfo Venosa, non è vero?

Roberto avea sempre vigilato da mesi su tutto ciò che Diana faceva: avea spiato chi essa riceveva: avea cercato su lei le più ragguagliate notizie.

– Chi siete voi? Il diavolo? – ripigliò Diana, – sapete tutto....

– No; vi voglio bene… perchè avea ricevuto da vostro padre l’incarico di amarvi, di vegliare su voi: di surrogarlo al vostro fianco… se mai ne aveste bisogno....

Le avea parlato in tuono più cerimonioso, e s’accorse che Diana era pronta a muovergli una domanda.

– Dimmi, prima di tutto, – egli aggiunse più affettuoso, – qual’è la donna tua rivale?

– La conoscerete di certo… e a voi lo confido… siete il primo a cui lo confido.... È la principessa Gorreso!

L’uomo si mise le mani ne’ capelli: il suo volto contraffatto ebbe una tale espressione che Diana ne provò raccapriccio.

– M’incutete paura! – ella esclamò, e si volse da un’altra parte come se non potesse più a lungo comportare di guardarlo.

Ma subito Diana l’udì che piangeva a dirotto: e girò di nuovo gli occhi verso di lui.

Tutta la sua persona tremava: quell’uomo di struttura sì forte pareva più che mai ricurvato sopra di sè.

– Soffrite?

– Soffro che vi possa esser al mondo gente capace di far tanto male, pel loro piacere, per dissolutezza… Soffro nel veder com’una fanciulla inesperta può trovarsi circondata da’ più grandi pericoli, dalle insidie più atroci. Ohimè, il mondo è ben tristo! Guai a’ cuori, che si unirono di belle illusioni, che si aprono alla fiducia....

Vi fu una breve pausa.

– Non mi parlerete, dunque, di mio padre? – disse Diana, dopo essere stata immersa in meditazioni, appunto per aspettare che il suo salvatore si fosse un po’ rimesso.

Roberto volle tentare un gran colpo.

Voleva mettere a prova l’amore della sua figliuola. L’esaltato affetto paterno lo rendeva spietato. Voleva innanzi di appalesare a sua figlia ch’egli era il prigioniero, per cui essa avea palpitato, innanzi di scuoprirle tutta l’ignominia, che avea dovuto subire, chiarirsi qual fosse l’animo di lei.

– È vivo mio padre?… ditemi il vero… saprò sopportarlo… qualunque esso sia....

– No, – rispose subito Roberto, che si sentiva l’animo dilaniato, – vostro padre non vive… egli era quell’infelice, morto nel fuggire dalla prigione....

– Ah, povero babbo! – disse Diana: e rimase seduta sul letto, gli occhi immoti, le labbra strette l’una all’altra, e stendendo le braccia innanzi a sè, come se cercasse indicar il cammino che avea dovuto seguire l’anima di suo padre, – sia benedetta la sua santa memoria… padre mio: ti avrei tanto amato!

Ed era sul punto di svenire.

Ma Roberto già le avea preso la bella testolina fra le braccia, già la inondava delle sue lacrime, e le ripeteva:

– Figlia mia, figlia mia! cara Diana.... Sono io tuo padre… sono io l’infelice Roberto Jannacone!

Stavano così abbracciati l’un l’altra e singhiozzavano insieme, allorchè a Roberto sembrò udir rumore dietro un paravento, e gli sembrò pure che il paravento si movesse. Subito gli venne l’idea di un’insidia, di un pericolo che minacciasse Diana. Vide muoversi il braccio d’un uomo, che cercava sostener il paravento.

Roberto corse là, atterrito, deliberato a sostenere una lotta.

Scostò il paravento e riconobbe Marco Alboni, che lì rannicchiato era stato a udire tutti i loro discorsi. Così credeva. Ma l’Alboni era arrivato in quel punto, entrando dall’abbigliatoio di Diana, per una porticina rispondente su un largo andito: porticina, a caso lasciata aperta.

– Oh, Jacopo Scovazzo! – disse Roberto che, per anni e anni, avea tenuto fitto in mente quel nome. E l’afferrò per il collo.

Marco Alboni smarrì subito tutta la sua baldanza, la sua intrepidezza.

Egli non si rammentava di aver mai veduto per l’innanzi la persona che gli parlava. Com’egli conosceva il suo passato?

Un uomo, amico di Diana, in casa del marchese, e in possesso del suo terribile segreto? Quanti guai da ciò gli potevano nascere! Andava a rischio di veder cadere tutto l’edificio da lui, nel corso di anni, architettato con tanta astuzia.

– Sarei venuto a cercarti!… – disse Roberto con aspra ironia. – Tu mi hai voluto risparmiare la fatica!… Ho bisogno di te!…

Intanto Roberto avea rialzato con una mano il paravento e l’avea drizzato tra essi e Diana.

– Io non ti farò alcuna violenza.... Spero, – soggiunse Roberto, – ottener da te con le buone quel che desidero....

– Parlate....

– Tu – proseguì sommesso Roberto – hai una lettera del dottor Krag, una lettera che hai sempre serbata e che prova – qui Roberto alzò un po’ la voce – che l’unica figliuola del marchese è morta, appena fu partorita, ed è morta insieme con sua madre.... Costui è l’uomo, Diana, che ti ha rubato piccina, mentre ti portavano a balia, mentre tuo padre era lontano e ignorava....

Fu preso da un nuovo sussulto di pianto.

– Oh, avevo ben ragione di guardarmi sempre attorno con paura, di sentirmi qui in un continuo spavento!… – disse Diana.

– Dammi quella lettera, Jacopo Scovazzo.... antico grassatore.... condannato a Ancona e che sfuggisti a una parte della tua pena....

– Tacete, tacete.... signor ingegnere! – implorava Marco Alboni, convinto di parlare con l’Amoretti; e timoroso di gravi danni.

Oramai ricco, poichè avea appropriato a sè da anni il meglio di ciò che avrebbe potuto spendere o risparmiare il marchese, stimato, egli vedea tutto a repentaglio, se l’Amoretti parlava.

– Tanto peggio per il marchese, – pensò in tali istanti Marco con quella prontezza ad abbandonare, per maggior utile proprio, il complice da cui fu più aiutato e beneficato, prontezza che arriva sempre a scompigliare le più inveterate e strette unioni tra furfanti.

– Non alzate la voce.... non fate alcun rumore.... vi darò la lettera....

– Ma ti accompagnerò io.... non voglio lasciarti solo.... – disse Roberto.

Andarono pel lungo corridoio, scesero le scale, entrarono in una stanza bassa: la camera di Marco.

Per tutto Roberto vide immagini di santi: libri di devozione: sui mobili, gettati qua e là, e bene in vista, alcuni inviti sacri.

Marco aprì uno scrigno di ferro che era nel muro e che Roberto vide nell’interno tutto luccicante di oro, poichè le grosse monete vi erano a mucchi: e da un segretissimo ripostiglio il briccone, che non poteva far altrimenti, cavò la lettera del dottor Krag.

Roberto lesse la lettera, che era scritta in un italiano assai goffo, ma molto intelligibile; apprese più di quel che voleva: e risalendo verso la camera di Diana lasciò libero Marco.

In un pianerottolo, a mezza scala, Roberto s’abbatteva nel marchese di Trapani. Era tornato a casa da pochi istanti, e usciva da una porta interna per recarsi a domandar notizie di Diana.

Il marchese si fermò a guardare lo sconosciuto.

– Io sono – disse Roberto con molto sangue freddo – l’ingegnere Amoretti....

– Il salvatore di mia figlia....

– Di vostra figlia.... – aggiunse il finto Amorelli con molta enfasi.

Al marchese facea già una certa impressione sgradevole veder quell’uomo andar sì liberamente per la sua casa.

– Ho lasciato ora la fanciulla, – seguitò a dir l’Amoretti.

– Ma spero che la signora Teodora sarà in sua compagnia....

Intanto il marchese spinse una porta per entrare negli appartamenti riservati a Diana o alla signora Teodora....

Udì un grande scroscio di risa. Era la signora Teodora che si divertiva con lo sue amiche.

L’ingegnere Amoretti indicò cortesemente al marchese la direzione della camera di Diana: e volle ad ogni costo ch’egli passasse il primo.

Poi richiuse subito la porta principale e andò a richiudere la porticina dietro al paravento, con non leggera sorpresa del marchese.

Che cosa si dicessero tra loro il marchese e Roberto non sappiamo.

Rimasero sino al mattino a vegliar Diana, che ogni tanto rivolgeva, or all’uno or all’altro, una parola, ma le cui tenerezze eran tutte per Roberto. Il marchese non si divertì molto, di sicuro, in quella notte.

La mattina Diana, perfettamente ristabilita, se ne tornava accompagnata da Roberto e dal marchese nel convento ov’era stata educata.

 

Roberto raccomandò caldamente a Diana che lo facesse avvisato d’ogni pericolo, e stesse sempre in su le intese: badasse fino alle compagne con cui parlava. Egli, poi, sarebbe venuto a visitarla ogni giorno.

Quella mattina stessa partivano da Napoli il marchese, la signora Teodora, Marco Alboni, e se ne andavano nella villa ove Marco, tanti anni prima, avea portato Diana, nata da pochi giorni.

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